ROMA, CENTRO DI ELABORAZIONE DEL CLASSICISMO CINQUECENTESCO
L’INIZIO DELLA FINE DEL CLASSICISMO RINASCIMENTALE
LA CAPPELLA SISTINA
BRAMANTE A ROMA
RAFFAELLO E LE STANZE VATICANE DI GIULIO II
L’INSEDIAMENTO DI LEONE X
IL MITO DI RAFFAELLO
LA MORTE DI RAFFAELLO
IL RITORNO DI MICHELANGELO ALLA SCULTURA
ROMA, OLTRE BRAMANTE, MICHELANGELO E RAFFAELLO
GIULIO ROMANO E LA SALA DI COSTANTINO
IL PRELUDIO AL PALAZZO DEL TÈ
LE ULTIME OPERE A ROMA PRIMA DEL SACCO


ROMA, CENTRO DI ELABORAZIONE DEL CLASSICISMO CINQUECENTESCO

Londra, National Gallery
Raffaello
RITRATTO DI GIULIO II (1512 c.)
Olio su tavola, altezza cm. 108 – larghezza cm. 80

Il Cinquecento romano si apre con un avvenimento straordinario: il primo novembre del 1503 viene eletto papa Giuliano della Rovere (1443-1513), nipote di Sisto IV (1471-1484), il quale assume il nome di Giulio II. Il nuovo successore di Pietro più che un pastore di anime è un condottiero di truppe armate. Come tutti i suoi predecessori ha un sogno da realizzare: riportare Roma all’antico splendore.
L’obiettivo politico ne contempla anche uno estetico. Per realizzarlo chiama presso di sé tutti i migliori artisti del momento: intendendo per tutti solo gli artisti d’indirizzo classicista, o almeno presunto tale. Sono rigorosamente esclusi dall’elenco gli artisti anticlassici, le cui poetiche vengono considerate inadatte allo scopo: si tratta di riaffermare i dogmi della fede e non metterli in discussione. Con ciò Roma diventa quel che fu Assisi nel Trecento e quel che sarà Parigi agli inizi del Novecento, ovvero il centro di elaborazione e diffusione della cultura transnazionale dell’epoca, e cioè a dire di un linguaggio che prescinde dalle singole scuole, un linguaggio che si vuole costruire sulla base del rapporto critico dialettico fra le impostazioni e il pensiero delle singole personalità.
Di Giulio II esistono tre ritratti nelle stanze di Raffaello e due versioni che lo raffigurano seduto nell’atto di ricevere i visitatori, una conservata alla National Gallery di Londra, di mano di Raffaello (1483-1520), l’altra degli Uffizi, della sua scuola. Giuliano della Rovere viene descritto nei documenti letterari come un bell’uomo, alto, dalle maniere brusche e irascibile. Figlio di un pescatore di Genova non si ritiene un uomo di cultura ma d’arme. Fra le tante frasi che gli si attribuiscono e che ne rendono il carattere risoluto e combattivo c’è quella pronunciata durante l’assedio al forte della Mirandola. In quell’occasione infatti sembra che al momento di ordinare l’attacco per scacciare i francesi abbia detto: «vediamo chi ha le palle più grosse, io o il re di Francia!» alludendo naturalmente alle palle delle bombarde.
A Giulio II gli si può dire tutto meno di essere un papa “ordinario”: certo non un’eccezione per l’epoca. L’obiettivo principale della sua azione di governo è quello di fare del papato una forza egemone in campo politico e culturale e riportare Roma alla grandezza antica sotto la guida della cristianità. Un sogno di dominio dunque, ma sua santità non sembra aver capito che sia lo Stato Pontificio che l’Italia intera sono oggetto delle mire espansionistiche delle grandi monarchie nazionali, Francia e Spagna.

L’INIZIO DELLA FINE DEL CLASSICISMO RINASCIMENTALE

Roma, chiesa di San Pietro in Vincoli
Michelangelo
TOMBA DEL PAPA GIULIO II (1542/1545)
Marmo, altezza mt. 8,50

Appena salito al soglio pontificio, Giulio II decide di dar seguito al progetto di ricostruzione della basilica madre di tutte le basiliche, la basilica di San Pietro. Così fa subito iniziare i lavori di demolizione della vecchia chiesa costantiniana. Questi vanno avanti ininterrottamente per tre anni, fino a quando il 19 aprile del 1506, un sabato, egli depone la prima pietra della nuova casa del Signore. L’impresa è di fondamentale importanza non solo per il mondo religioso ma anche per il mondo dell’arte: diventa infatti l’occasione per una riaffermazione del classicismo sulle più avanzate concezioni artistiche del momento, anticlassiche.
Giulio II della Rovere è un papa che pensa in grande. Per realizzare le sue idee ha bisogno di artisti che vedono in grande: Bramante (1444-1514) e Michelangelo (1475-1564) sono i più adatti.
Siamo sempre nella primavera del 1506. Nel cantiere della nuova San Pietro troviamo all’opera tanto l’uno quanto l’altro: il Bramante per quanto concerne la parte architettonica e Michelangelo per quanto attiene alla realizzazione della tomba del papa.
A sentire il nome di Michelangelo sorge spontaneo chiedersi che c’entra lui col rilancio del classicismo; non è certo uno dei più agguerriti difensori dei dogmi classici. In realtà ciò che piace di lui è quel suo indirizzo poetico di ricerca di una sintesi fra sentimento cristiano e idealizzazione classica; e poi Michelangelo è già Michelangelo. L’artista viene ingaggiato nel 1505; il monumento funebre va collocato al centro di San Pietro, sulla tomba del Padre della Chiesa.
Riguardo a Bramante, quando viene investito del più prestigioso incarico a cui un architetto potesse mai aspirare, ha 62 anni, cioè è all’apice della carriera. Al momento del conferimento ha appena terminato di ristrutturare il chiostro di Santa Maria della Pace.
Michelangelo non ama lavorare su commissione, anche se non ne può fare a meno. Ci impiega come minimo un anno per stendere il progetto e scegliere i marmi per la sua realizzazione. Il programma è davvero megagalattico. Lo concepisce come monumento classico della cristianità, del potere dell’uomo esercitato sul mondo e della sua sublimazione in Dio. Consta di 40 statue, escluse quelle che devono effigiare il papa e i personaggi più importanti della storia cristiana. Ogni statua ha, se non la statura, almeno la complessità del David di Firenze. Ora se per realizzare il David di Firenze Michelangelo aveva impiegato 3 anni, conti alla mano, per fare soltanto le 40 statue del monumento funebre di Giulio II gli ci sarebbero voluti 120 anni.
Le manie di grandezza di Michelangelo sono oggetto di sarcasmo da parte di Bramante, al quale lo scultore non è molto simpatico per due motivi fondamentali: primo perché lo ritiene un giovane borioso, secondo perché non gli piace affatto l’idea del fiorentino di fare della sua basilica la cornice architettonica della tomba. Ma Michelangelo non irrita solo Bramante, riesce ad indispettire anche il papa. La lentezza con cui lavora insieme al carattere impulsivo e testardo sono causa di numerosi scontri fra l’artista e il pontefice. In particolare quello che fa stizzire Giulio II, fino al punto da scatenargli le reazioni più dure, è l’alta considerazione che il genio ha di sé e del fatto di essere un artista, cosa che fin troppo spesso porta il Buonarroti a non sentirsi secondo a nessuno, quindi a trattare tutti gli altri come esseri inferiori, o tutt’al più pari a lui, compreso il papa. Questo attrito con Sua Santità finisce per preparare la prima fuga di Michelangelo dal Vaticano.
Si è parlato molto del difficile rapporto fra i due, si sono dette tante cose e se ne diranno ancora, ma la spiegazione più attendibile della loro malagevolezza dialettica resta quella che individua nella forte personalità di entrambi i personaggi il vero nucleo del problema.
Giulio II è un papa molto impegnato: ha da riprendersi i territori sottratti alla Chiesa, e lo fa brandendo le armi. A causa della sua politica estera si trova spesso nell’impossibilità concreta di seguire personalmente i lavori che si stanno conducendo a “casa sua”, così lascia ai suoi fedelissimi amministratori l’incarico di occuparsi delle faccende interne. I fondi per l’arte spesso scarseggiano e non è raro il caso in cui i compensi non vengano liquidati. Generalmente gli artisti all’opera prendono atto della situazione e mandano lo stesso avanti i lavori, ma Michelangelo no. Michelangelo ha invece bisogno di vedere il Papa, assolutamente, pena l’abbandono dell’incarico. Alle ripetute richieste dell’artista il pontefice risponde sempre mandando un suo delegato, cosicché dopo un ultimo rifiuto Michelangelo decide di abbandonare tutto e andarsene.
Quando il Papa sa della sua dipartita va su tutte le furie, non già perché si preoccupa della tomba, ma perché un uomo ha osato congedarsi senza il suo commiato: è davvero troppo!
Può essere la fine di Michelangelo sia come artista che come uomo, e invece, ironia della sorte o fascino della sfrontatezza, Giulio II fa richiamare Michelangelo, momentaneamente emigrato a Bologna, con la promessa che lo avrebbe rimesso al suo posto a patto che non facesse più pazzie. È il 1507, Michelangelo fa ritorno a Roma; l’11 novembre incontra il pontefice per la rappacificazione, ma una sorpresa lo attende.
L’idea è balzata in testa al papa l’anno prima, forse dietro suggerimento di Bramante che ha intenzione di sbarazzarsi di quel giovane, bizzarro e presuntuoso, che si comporta come se fosse l’unico artista sulla terra. Molto più verosimilmente l’idea è coadiuvata da qualche dotto consigliere della curia: decorare la volta della cappella Sistina.
La notizia coglie Michelangelo impreparato; infatti sta finalmente mettendo mano alla prima statua del sepolcro pontificio. L’artista non ne è affatto entusiasta. Non si ritiene un pittore, aveva lasciato la bottega del Ghirlandaio per seguire la sua vocazione di scultore, ed ora riecco chi gli si chiede di metter mano ai pennelli invece che a martello e scalpello.

LA CAPPELLA SISTINA

Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Michelangelo
DECORAZIONE DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA (1508/1512)
Affresco

La cappella Sistina ha una lunga storia. Il 29 settembre del 1420 con Martino V (1417-1431) la sede del papato torna a Roma mettendo così fine anche dal punto di vista residenziale all’esilio avignonese. In seguito a questo avvenimento la Città Eterna inizia lentamente ad uscire dal Medioevo per proiettarsi nella nuova era umanistica. Dopo di lui i papi che gli succedono avviano l’opera di ricostruzione del Vaticano. Fra questi il più audace si dimostra Sisto IV.
Sisto IV fra le tante idee folgoranti ha quella di ristrutturare la cappella Palatina in Vaticano, risalente al 1368, forse più. I lavori iniziano nel 1477 sotto la direzione di Giovannino de’ Dolci (1435-1485 c.) (o Baccio Pontelli (1449–1494 c.)) e si concludono nell’estate del 1481. Sulle sue pareti il pontefice ci vuole affrescate scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, come da copione. Il primo pittore a metterci mano è il Perugino (1450-1523), quindi, dopo una breve interruzione dovuta alle ostilità fra Roma e Firenze, è la volta di Cosimo Rosselli (1439-1507), il Ghirlandaio (1449-1494) e Botticelli (1445-1510); dopo marzo dell’anno seguente subentra all’intero staff Luca Signorelli (1445 c. – 1523). La volta viene decorata alla maniera della cappella degli Scrovegni, col motivo del cielo stellato, da Piermatteo d’Amelia (1445-1508).
Ora a Giulio II viene in mente di rimettere a posto proprio la volta, e lo chiede a Michelangelo. Sui motivi che spingono il papa a chiederlo proprio a lui, che pittore non è, con tanti valenti pittori a disposizione, ci sono tante ipotesi. La spiegazione forse più ovvia è che Giulio II vedendosi in ristrettezze finanziarie, e per le spese di guerra, e per le spese di edificazione di San Pietro, non ha di che pagare Michelangelo per la sua tomba. Pensa bene dunque di dirottare momentaneamente i servigi del giovane genio, di cui non si vuole privare, verso un’opera ugualmente degna di lui, ma meno costosa.
Dipinti sulla volta il papa ci vuole i 12 apostoli, partimenti geometrici, più adeguati ornamenti. Michelangelo non è certo entusiasta del programma, ma in quel momento non ha niente di meglio da proporre, è completamente a zero di idee. Presto però gli torna la fantasia e decide immantinente di cambiare progetto e ricominciare daccapo, secondo un programma ben più ampio e impegnativo, una vera Bibbia figurata; Giulio II non ha nulla da obiettare.
Il 10 maggio 1508 tutto è pronto per dare inizio ai lavori, ma nel frattempo sorge un’altra controversia con Bramante. Motivo della discussione: l’allestimento del ponteggio per la realizzazione degli affreschi. Bramante lo vuole volante, ancorato al soffitto, in modo da lasciare libero lo spazio sottostante e permettere l’utilizzo della cappella con i lavori in corso d’esecuzione; Michelangelo lo vuole appoggiato a terra per non rovinare il soffitto. La spunta Michelangelo, cosicché a luglio il ponteggio è pronto e Michelangelo inizia a dar vita alle prime figure. Ad aiutarlo ci sono il vecchio amico Francesco Granacci (1469–1543), Giuliano Bugiardini (1476-1555) e Aristotele da Sangallo (1481-1551 c.).
Siamo dunque alla descrizione della volta della Sistina. Ma prima di passare a delinearne il profilo occorre aprire una parentesi sugli altri autori che hanno lavorato nella cappella di cui si è fatto cenno prima. Questa parentesi risulta della massima importanza perché ci permette di capire quale sia l’indirizzo dominante nella capitale in quest’epoca, e che non è certamente quello rappresentato dal genio.

Orvieto, duomo, cappella di San Brizio
Luca Signorelli
RESURREZIONE DELLA CARNE ED ALTRI PARTICOLARI (iniziata nel 1499)
Affresco

Nella seconda metà del Quattrocento l’avanguardia è costituta dalle due concezioni opposte di Piero della Francesca (1410 c. – 1492) e del Pollaiolo (1431 c. – 1498), vale a dire la concezione dell’arte come sistema rappresentativo e la concezione dell’arte come metodo operativo.
Certo la Chiesa preferisce l’arte dimostrativa di Piero a quella analitica di Antonio, ma la sua scelta non vuole limitarsi ad una pura questione di tipo metodologico: avendo come obiettivo l’universalità si vuole porre come sintesi delle tendenze particolari. Naturalmente fra teoria e prassi, essere e divenire non c’è possibilità di sintesi, ma questo solo sul piano speculativo; la sintesi può venire invece su quello pratico, facendo della teoria la sorgente del movimento: le verità rivelate dall’arte si traducono nel comportamento virtuoso del cristiano. Diventa in questo modo determinante il sistema attraverso cui si comunicano i contenuti, ovvero il problema linguistico. Piero della Francesca rappresenta un’ottima scelta, forse la migliore del momento, ma il suo universalismo si trasmette tramite enunciati, pronunciamenti fortemente teorici. Ci sarebbe anche il Botticelli, ma questi è ermetico, allegorico. La scelta deve dunque ricadere su artisti che abbiano più familiarità con l’eloquio comprensibile. La selezione diventa poi obbligata in questo momento che la Chiesa va lentamente scivolando nella crisi religiosa.
L’artista che affronta con più chiara coscienza il problema squisitamente linguistico dell’arte rinascimentale è Luca Signorelli. Luca Signorelli nasce e muore negli stessi anni del Perugino, l’altro grande protagonista di questa fase, solo che lui è di Cortona ridente cittadina oggi in provincia di Arezzo posta fra Umbria e Toscana. I testi da cui Luca parte sono proprio le opere di Piero della Francesca e quelle di Antonio del Pollaiolo, ovvero dal dilemma fra stasi e movimento. La soluzione la espone in lavori come la Conversione di san Paolo del santuario della Santa Casa di Loreto. Questa soluzione è il congelamento del moto.
Tutto è disposto accuratamente sul palco della rappresentazione. Ogni gesto, ogni oggetto è chiaramente delineato, ogni movimento, ogni figura riceve la sua giusta dose di illuminazione affinché possa chiaramente misurare, anche in assenza di linee prospettiche, ogni singola distanza da cosa a cosa, da corpo a corpo, perfino da membra a membra, specificandone in modo chiaro l’articolazione anatomica; e perché non ci siano equivoci le mosse si amplificano in modo esagerato. Si obietterà che tutto ciò non è pittura bensì teatro. E di teatro in effetti si tratta; e teatrale risulta essere la concezione pittorica del Signorelli. Ancor più di quella del Perugino la pittura del Signorelli è ricca di effetti, dunque coinvolgente. La pittura del Perugino agisce sempre nell’ambito della contemplazione, quella del Signorelli invade la sfera emotiva.
Per Luca il fine strumentale dell’arte non è più quello di rappresentare l’universalità dell’eterno essere, né quello di rappresentare il continuo divenire particolare e contingente; il fine strumentale dell’arte è quello di parlare agli uomini, esortarli a reagire, indurli a comportamenti virtuosi.
La concezione sostenuta dal Signorelli trova la sua cassa di risonanza privilegiata nella decorazione a fresco della cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto, iniziata nel 1499 col completamento delle volte dipinte dall’Angelico (1395 c. – 1455) e completata con la decorazione delle pareti a partire dall’anno successivo e fino al 1504.

Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Perugino
CONSEGNA DELLE CHIAVI (1481/1482)
Decorazione parietale
Affresco, altezza mt. 3,35 – larghezza mt. 5,50

Pietro Vannucci detto il Perugino si forma, lo dice il soprannome stesso, nell’ambiente umbro, un ambiente provinciale ma raffinato e aggiornato. Da questo ambiente se ne distacca presto per divenire uno dei maggiori artisti rinascimentali dell’ultimo Quattrocento. La sua ricerca linguistica si concentra soprattutto sul perfezionamento degli elementi strutturali al fine di una comunicazione più convincente: l’obiettivo dichiarato è quello di rendere più naturale l’assunto teorico di Piero della Francesca. Per ottenere questo risultato si serve dell’empirismo leonardesco: se la prospettiva da il senso della profondità in assenza di una profondità reale la prospettiva aerea di Leonardo la rende più vera in quanto più simile a quella che si sperimenta in natura; se la forma geometrica è la forma perfetta, lo sfumato vinciano, dando il senso della forma immersa nell’atmosfera, la rende più credibile.
La Consegna delle chiavi è opera ormai matura. Pietro la esegue quando è sui trent’anni. All’impostazione pierfrancescana e leonardesca della giovinezza aggiunge quella del Ghirlandaio che gli permette di sviluppare lo stile severamente teorico dei primi maestri nel senso dell’eloquio largo e misurato. La rappresentazione è organizzata seguendo una rigorosa prospettiva razionale a quadro piano. Il punto principale è situato fra le teste dei due personaggi che si trovano al centro del portale aperto del monumento di fondo. Lo spazio è costruito per piani paralleli; il primo piano è costituito dai protagonisti principali. Al centro c’è Gesù che consegna le due chiavi a Pietro, una d’oro che simboleggia il potere giudiziale, l’altra d’argento che simboleggia la facoltà di distinguere il bene dal male. La chiave d’argento cade a piombo e segna la linea centrale che rimarca il raggio centrico dell’intera composizione prospettica. A sinistra e a destra si dislocano in modo ordinato e cadenzato i 12 apostoli accompagnati da uomini in abiti rinascimentali. All’estrema destra, vestiti di austeri abiti scuri, sono il progettista e il costruttore della cappella Sistina, Giovannino de’ Dolci e Baccio Pontelli. Dietro questo fregio umano se ne stende un secondo più lontano, a sinistra più compatto, a destra più rado e sfaldato. Nella parte sinistra è raffigurato il tributo di Cristo a Cesare, nella parte destra la lapidazione di Gesù. Segue un terzo piano verticale con tre costruzioni architettoniche: un edificio ottagonale al centro e due archi trionfali identici che ritraggono quello di Costantino. Probabilmente il tempio cristiano al centro allude alla Gerusalemme Celeste, i due archi alla legge e all’Antico. Oltre gli edifici si apre una vallata dove si fronteggiano le propaggini collinari che caratterizzano un paesaggio aperto, dolce, luminoso, chiaramente ispirato al paesaggio umbro. A questi piani verticali da ordine razionale una serie di liste marmoree che disegnano lo sterminato geometrale steso ai piedi dell’intera composizione. Le orizzontali mantengono il loro parallelismo con i bordi orizzontali del riquadro, mentre le linee che corrono perpendicolari si dirigono verso il centro della composizione. Al di sopra di questo sconfinato pavimento si distende un cielo limpido di zaffiro che sa di primavera, solcato da riccioli di bianche nuvole cirrate.
Ogni personaggio individua una personalità così come la personalità della natura è individuata dai diversi tipi di alberi che si innalzano sullo sfondo fra le colline verso il cielo. Le specificità psicologiche delle singole figure rispondono ad esigenze di comunicazione; debbono trasmettere ad esempio sentimenti come estasi, contemplazione, devozione, ecc. Per cui per il Perugino l’arte non risulta solo una rivelazione dogmatica ma è il mezzo, lo strumento attraverso cui questa si divulga, si trasmette agli uomini. Insomma con lui l’arte diventa uno strumento per l’insegnamento della religione: non è dunque difficile capire come un pensiero del genere trova particolare favore nella curia vaticana.
Il Perugino, maestro di Raffaello, vivrà più a lungo del suo allievo, ma benché si trasformi da insegnante in suo scolaro non riuscirà ad essere così profondo, limitandosi a raffinare sempre più la personale oratoria. Forse il merito più grande del Vannucci è quello di aver reso il linguaggio rinascimentale, un linguaggio nato all’insegna dell’intellettualismo, uno strumento più duttile e di più facile lettura.

Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Botticelli
PROVE DI MOSÈ (1481/1482)
Episodio delle storie di Mosè
Affresco, altezza mt. 3,48 – larghezza mt. 5,58

Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Botticelli
PUNIZIONE DI KORAH, DATHAN, ABIRON (1481/1482)
Episodio delle storie di Mosè
Affresco, altezza mt. 3,48 – larghezza mt. 5,70

Esattamente negli stessi anni, accanto al Perugino, sulla parete opposta, lavora il Botticelli. La sua interpretazione dell’arte va in senso diametralmente opposto a quella del suo collega umbro. Non è da escludere che l’arte facile di quest’ultimo abbia determinato una maggiore intellettualizzazione del linguaggio botticelliano. Fatto sta, comunque, che sul finire del secolo si vanno sempre più rimarcando le differenze fra il classicismo toscano e quello umbro-marchigiano, tanto più intellettuale e tendente all’ermetismo il primo quanto più facile e tendente alla divulgazione il secondo.
Tre sono i riquadri affrescati da Sandro. In quello che raffigura la Punizione di Korah, Dathan e Abiron si può chiaramente leggere la divergenza d’opinione fra il fiorentino e i contemporanei di Umbria e Marche. La sua interpretazione, contrariamente a quella del Perugino, è piena di allusioni. Anche qui c’è l’arco di Costantino che rimanda alla continuità fra la legge mosaica e la legge greco-romana che sancisce la certezza della pena per chi infrange la legge divina. A livello più profondo si allude alle correnti ereticali che si vanno diffondendo proprio a partire da questo momento nella comunità cristiana.
La storia è composta da tre episodi legati soltanto dalla ritmica cadenza della composizione e non secondo la sequenza naturale di causa ed effetto. Nel Perugino i fatti si svolgono in uno spazio dato e in un tempo senza successione, tutto è veduto come in un unico grande sguardo unitario. Botticelli disloca i tre episodi in gruppi, ma sarebbe meglio dire in ondate di moto ritmicamente coordinate. Ne risulta che ogni episodio è legato all’altro soltanto per via ideale ed ha un significato proprio indipendente dallo svolgimento del racconto. Sul piano lessicale ciò significa distruggere l’unità spazio-temporale, uno dei cardini fondamentali su cui si fonda la struttura del linguaggio rinascimentale.

Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Pinturicchio
VIAGGIO DI MOSÈ (1481/1483)
Particolare della decorazione parietale
Affresco, altezza mt. 3,35 – larghezza mt. 5,40

Fra gli artisti che lavorano agli affreschi della cappella Sistina c’è anche il Pinturicchio (1454 c. – 1513). Il Pinturicchio non ha una vera e propria poetica; egli è essenzialmente un decoratore. Ciò non di meno riveste un ruolo molto importante nella storia dell’arte rinascimentale. Usando il linguaggio rinascimentale come si usa il linguaggio verbale (scritto o parlato che sia), cioè come semplice mezzo di comunicazione, svuota le parole e la sintassi di cui è costituito dai contenuti di conoscenza dogmatica e scientifica che si sono accumulati nel periodo precedente.
Certo il Pinturicchio non è un’artista profondo come il Botticelli, tuttavia dal punto di vista storico artistico non è meno importante di questi. Nel riquadro con il Viaggio di Mosè il Pinturicchio mette in campo tutta una serie di “macchiette” che si dispongono in maniera varia e fluida all’interno della grande quinta naturale costituita dallo sconfinato paesaggio collinare che si distende dal boccascena alle montagne sfumate del fondo. Anche qui la disposizione è per piani prospettici frontali, ma la rigorosità dogmatica è stemperata dall’infinita biodiversità di cui l’insieme è costituito. Il Creato per il Pinturicchio è evidentemente un complesso di individui e situazioni che l’arte raccoglie e ordina in una visione ampia e armoniosa; non è una concezione del mondo, ma un modo di esporla. Per il Pinturicchio l’artista non deve essere necessariamente un filosofo, né uno scienziato, ma semplicemente un regista; non contano le sue convinzioni quanto piuttosto il modo attraverso cui le fornisce di un corpo. Sa di essere solo un comunicatore e non lo nasconde. Anche lui strumentalizza l’arte, ma il suo scopo è unicamente quello di piacere agli occhi e all’intelletto. Sarà pur vero che così facendo il Pinturicchio mette a disposizione l’arte a qualsivoglia contenuto, ma è anche vero che così facendo egli si qualifica come il primo pittore laico della storia moderna.

Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Michelangelo
DECORAZIONE DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA (1508/1512)
Affresco

Chiusa parentesi. Torniamo a Michelangelo e alla volta della Sistina. Nell’aprile del 1508 il Buonarroti riceve ufficialmente l’incarico di dipingere la volta. Il contratto fissa un compenso di 100.000 ducati, da versare come una sorta di stipendio mensile di cento ducati al mese, al netto delle spese di affitto e soggiorno. L’artista non è alla sua prima esperienza da pittore: ha esordito in campo artistico proprio come “frescante” nella bottega del Ghirlandaio, quindi ha realizzato il Tondo Doni e una Deposizione, però di dubbia attribuzione.
Il programma decorativo prevede nove riquadri centrali con storie della genesi, disposte in ordine cronologico a partire dall’altare: L’Eterno separa la luce dalle tenebre; la Creazione degli astri; la Separazione della terra dalle acque; la Creazione di Adamo; la Creazione di Eva; il Peccato e la cacciata dei progenitori; il Sacrificio di Noè; il Diluvio universale e l’Ebbrezza di Noè. Al posto dei 12 apostoli Michelangelo pone 7 profeti e 5 sibille. Fra questi e le storie s’interpongono una doppia coppia di nudi maschili, per un totale di 20. Nelle lunette e nelle vele triangolari di raccordo alla volta sono rappresentate le quaranta generazioni di antenati di Cristo, come vengono riportate da San Matteo nel suo Vangelo. Infine nei pennacchi di raccordo angolari sono raffigurati quattro episodi della storia ebraica che vedono interventi miracolosi di Dio in favore del suo popolo eletto: David e Golia, Giuditta e Oloferne, Il serpente di bronzo e Il supplizio di Aman.
Il contributo degli aiuti si concentra sui primi tre riquadri, quelli con l’Ebbrezza di Noè, il Diluvio universale e il Sacrificio di Noè. Dopodiché Michelangelo prosegue l’impresa da solo (ma la critica moderna non è più di questo avviso), coadiuvato soltanto più da alcuni garzoni. Nell’agosto del 1510 è affrescata metà della volta; poco più di un anno dopo ne viene scoperta una parte; ad ottobre del 1512 la volta della cappella Sistina è finita.
Gli affreschi della Sistina sono affreschi fuori dell’ordinario per via del senso di titanica potenza che esprimono, inoltre mostrano alcuni aspetti linguistici assolutamente inediti. Ad esempio le storie della genesi iniziano dalla fine, se si considera come avvio il punto d’ingresso della cappella, quindi le intelaiature architettoniche non sono orientate tutte verso un unico punto di fuga, ma ne seguono molteplici. La cosa si spiega col fatto che sono in relazione con un punto di vista mobile e non fisso. Non c’è invece nessuna logica prospettica che giustifica la diversità di dimensioni fra le figure dei profeti e i nudi, fra questi e gli antenati di Cristo, nonché fra i personaggi dei primi e quelli degli ultimi pannelli. Nell’Adamo della creazione la grandezza si avvicina a quella dei personaggi raffigurati nelle vele che, stando alla logica della prospettiva razionale, dovrebbero essere più grandi degli stessi profeti. La presenza di queste stranezze vuol dire semplicemente che l’artista è libero davanti alla storia così come è libero davanti alla natura, libero cioè di interpretare il soggetto da raffigurare e come raffigurarlo. È un atto che chiama in causa il rapporto fra la cultura del proprio tempo e quella passata, ovvero dei dogmi. Michelangelo spiega bene questo punto fondamentale della nuova visione cinquecentesca quando rispondendo a chi lo accusa di superbia per ritenersi superiore agli Antichi egli dice di non sentirsi né superiore né inferiore, ma diverso, diverso perché uomo di un altro evo e cristiano. È l’inizio della maniera moderna.
Sui significati allusivi delle immagini che decorano la volta la letteratura non manca. Ciò non costituisce affatto una sorpresa dal momento che Michelangelo è un artista assai ricco interiormente e le sue immagini implicano sempre riferimenti a più livelli di approfondimento. Ma al di là dei contenuti ciò che colpisce è l’aspetto poderoso delle sue figure. Il tentativo umano di ascendere a Dio e liberarsi dai condizionamenti della natura è un tentativo tanto più eroico quanto più a compierlo è un’umanità priva della rivelazione. Si spiega così l’immagine michelangiolesca del mondo antico, un mondo che cerca la forma delle verità supreme affidandosi all’intuizione e non all’imitazione. La storia antica stessa non è successione logica di avvenimenti aventi un fine eticamente certo, ma è ora azione cieca e incontrollata, ora azione illuminata dalla luce divina.

BRAMANTE A ROMA

Roma, chiesa di San Pietro in Montorio
Bramante
TEMPIETTO DI SAN PIETRO IN MONTORIO (1502/1510 ma la datazione è controversa)

Con Michelangelo la politica culturale di Giulio II trova un degno interprete, ma non è col genio che nasce il nuovo, sperato Classicismo romano. È solo col Bramante che si inizia a definire un vero e proprio Classicismo romano; solo col Bramante Roma inizia a parlare una lingua rinascimentale autonoma.
Donato di Pascuccio detto il Bramante fonda il Rinascimento romano, ovvero l’altro polo della rinascita dell’arte classica, dopo quello fiorentino. La differenza tra i due sta nel fatto che a contatto diretto con l’antichità romana, ma anche sotto la sollecitazione di Giulio II, la rinascita del linguaggio latino diventa la rinascita della monumentalità greco-romana. Ma il rinascimento bramantesco non è solo questione di proporzioni, è anche la conclusione logica della teoria albertiana dello spazio come struttura geometrica unitaria che si rende visibile per mezzo di elementi plastici quali pareti e cupole. Lo stesso Alberti (1404-1472) aveva iniziato a sperimentare la sua teoria prospettica su organismi estesi in più direzioni ed era giunto a concepire un vuoto circolare nella chiesa dell’Annunziata a Firenze. Bramante riprende da dove aveva lasciato l’Alberti e sviluppa l’assunto nel senso di una maggiore compenetrazione di spazio interno e ambiente esterno. La sua San Pietro non deve essere altro che un possente movimento di masse che si manifestano attraverso momenti di estroflessione e introflessione di solenni strutture murarie.
Come è noto Bramante non realizzerà mai il suo progetto per la nuova basilica Madre, né risulta altro monumento che porti la sola sua firma. L’unica costruzione edificata per intero è il tempietto di San Pietro in Montorio, un vero gioiellino architettonico, a metà strada fra l’ostensorio e il santuario. Questa operetta può essere considerata una prova generale prima della costruzione della basilica vera e propria. In effetti il Bramante in questo “lavoretto” sperimenta in piccolo quelle che sono le sue idee guida sull’architettura della grande basilica. L’architertto di Urbino vuole vedere quale risultato produce l’idea di una pluridirezionalità prospettica portata all’estremo punto di sviluppo, cioè uno spazio irradiante a 360° dal centro verso l’esterno. In uno spazio siffatto le pareti non saranno più piani articolati ma una superficie continua circolare, la superficie laterale di uno vuoto cilindrico invece che cubico; la base di questo capienza indefinita non disegnerà un piano ma una superficie convessa. C’è dunque l’evoluzione del concetto di spazialità da struttura geometrica definita da figure piane a struttura geometrica definita da figure tonde. È una concezione molto più moderna: basti pensare all’idea sferica che si ha ancora oggi dello spazio naturale.

RAFFAELLO E LE STANZE VATICANE DI GIULIO II

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
STANZE VATICANE
Pianta

Mentre Michelangelo è intento ad affrescare la volta della Sistina non molto distante, nell’ala dei palazzi Vaticani dove Giulio II ha scelto di abitare, Raffaello si appresta ad affrescare gli appartamenti papali.
Raffaello è uno degli artisti che ha la fortuna di vivere da principe fin da giovane. Ha solo 25 anni quando entra nelle grazie di Giulio II, il quale lo incarica di decorare il suo ufficio per la sigillatura delle bolle papali. Giulio ha scelto una nuova sistemazione in quanto non avrebbe mai sopportato vivere negli stessi appartamenti dove aveva vissuto il suo predecessore, Alessandro VI de Borja (1492-1503), pontefice ritenuto da lui indegno della cattedra di Pietro. Gli alloggi giuli si trovano nella nuova ala del palazzo vaticano fatta costruire da Niccolò V (1447-1455). Secondo il Vasari (1511-1574) in queste stanze ci avevano lavorato Piero della Francesca, Luca Signorelli e Bartolomeo della Gatta (1448-1502). Sempre da quanto ci racconta l’aretino, a dipingere le stanze del papa, insieme a Raffaello, c’è il fior fiore dell’arte dell’epoca come il Sodoma (1477 c. – 1549), il Lotto (1480-1557 c.), il Perugino, ancora il Signorelli e il Peruzzi (1481 1536).
Finito il lavoro commissionatogli Giulio nel vederlo ne rimane così entusiasta che col suo solito fare imperioso ordina di imbiancare tutto ciò che non è di mano del prodigioso urbinate. Non solo, ma a Raffaello concede la libertà di dipingere a proprio piacimento quel che gli sembra più opportuno: in realtà ciò è solamente un modo enfatico per dire che nel Sanzio Giulio II ripone parecchia fiducia. La causa di questa fortuna non va ricercata solo nell’altissima qualità della sua pittura: non c’è mica solo lui sulla piazza. Gran parte del prestigio di cui gode già, a soli 25 anni, gli deriva dal fatto che è l’arte giusta al momento giusto: infatti la poetica classicista del giovin maestro giunge in un momento di riaffermazione del potere della Chiesa di Roma, quale capitale universale del mondo cristiano.
La prima stanza è quella della Segnatura, cosiddetta per via del fatto che svolgeva la funzione di tribunale giudiziario, anche se nasce come biblioteca privata del papa. Le scene rappresentate nell’ordine sono: la disputa del Santissimo Sacramento e la Scuola di Atene, sulle pareti occupate dalle porte; le virtù e il Parnaso su quelle delle finestre. I soggetti si ispirano alle quattro facoltà universitarie del Medioevo: la teologia, la filosofia, la giustizia e la poesia.
Come avviene quasi sempre il programma tematico è scelto dalla committenza. Nel caso specifico è stato accuratamente selezionato dal papa in persona, con l’aiuto ideale di san Bonaventura (1217 c. – 1274), un frate francescano di cui interpreta il pensiero.
Naturalmente Raffaello va al di là della propaganda; si propone la dimostrazione della verità, una e bina. A poco più di mezzo secolo di distanza dalla scomparsa dell’Angelico rinnova l’identità fra fede e ragione. Raffaello dunque si pone nella stessa scia della tradizione pierfrancescana e angelicana; vede nell’arte il grande sistema di unificazione delle due grandi verità, quella religiosa e quella laica. Il tema ideologico è uno dei temi principali di tutto il Rinascimento: la ricerca del punto di confluenza fra pensiero classico e pensiero cristiano, vale a dire l’idea della struttura razionale del Creato; dunque ragione e natura, che sarebbero poi le due matrici del pensiero occidentale. Questo spiega il faccia a faccia fra La Scuola di Atene e La Disputa del Santissimo Sacramento.

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
DISPUTA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO (1508/1509)
Particolare della decorazione parietale della stanza della Segnatura
Affresco, larghezza mt. 7,70

Il primo soggetto ad essere dipinto è La Disputa del Santissimo Sacramento. L’affresco viene scoperto poco prima dell’8 ottobre del 1509. Si tratta di una gigantesca impalcatura scenica dove i concetti si traducono immediatamente e in modo del tutto naturale, come solo Raffaello sa fare, in forma; non ci sono parole ad esprimerli, ma figure. È il vertice della lunga storia della rappresentazione dei concetti cristiani in immagini nata con Giotto (1266 c. – 1337) duecento anni prima.
Le figure si dispongono in modo da formare un’ampia abside ideale che si imposta intorno ad una generatrice costituita dall’allineamento formato dalle figure di Dio padre, Gesù Cristo, lo Spirito Santo e l’ostia. La generatrice del semicilindro prosegue nel raggio centrico della prospettiva su cui si appoggia l’intera raffigurazione. Le semicirconferenze formate dagli angeli e dai santi sospese in cielo rappresentano la gerarchia celeste; la semicirconferenza formata dai dottori della Chiesa, convenuti nel bel mezzo della campagna per contemplare il divino ordinamento, rappresentano la Chiesa militante. Punto di congiunzione fra cielo e terra, l’ostia, che è anche il punto di fuga della prospettiva segnata dai riquadri marmorei del pavimento.

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
SCUOLA DI ATENE (1509/1510)
Particolare della decorazione parietale della stanza della Segnatura
Affresco, larghezza mt. 7,70

Di rimpetto alla Disputa c’è La Scuola di Atene, considerata dagli esperti la prova più alta del maestro urbinate. Nel 1510, forse prima, metà volta sistina è compiuta e nonostante la sua riluttanza Michelangelo è costretto a mostrare a che punto è arrivato. È l’occasione anche per gli altri artisti di vedere cosa ha prodotto il genio. Sicuramente Raffaello non si lascia sfuggire l’occasione per conoscere l’opera del fiorentino. L’impressione che ne riceve è folgorante, tanto da rifare un pezzo di Scuola, e le nuove figure realizzate sono insolitamente robuste. Al centro del dipinto, leggermente spostato a sinistra rispetto all’asse verticale, seduto sulla grande scalinata introduce una figura pensante (Eraclito secondo gli studiosi) in cui sono riconoscibili i tratti fisionomici di Michelangelo trentacinquenne.
Lo spazio risulta ben definito dalle possenti quinte architettoniche la cui immagine rimanda alla San Pietro bramantesca; la prospettiva è rigorosa, ma il suo respiro è decisamente monumentale, cinquecentesco. Le figure sono concepite sempre in senso di architetture viventi, ma si dispongono in maniera assai più libera che nelle rappresentazioni dello stesso genere prodotte fino a questo momento. Lo schema ha un doppio sviluppo: verticale con la sequenza delle volte articolate intorno all’asse di penetrazione spaziale, e longitudinale parallelo al raggio centrico che corre anche qui fra le liste marmoree del pavimento.
I personaggi sono divisi in quattro gruppi indipendenti, disposti su due piani orizzontali paralleli. Nella parte sinistra dell’osservatore ci sono i filosofi, in quella destra i matematici. Il significato della libera disposizione delle figure nello spazio è chiaro: esprime in termini prettamente figurativi che ogni uomo è un’entità autonoma, individuale, libera di muoversi a suo piacimento nell’ambiente antropico dominato dalla sua intelligenza razionale. La ponderazione nasce dal movimento stesso, pacato delle persone che equilibratamente ragionano tra loro. È ancora la concezione di Piero, e ancor più di Masaccio (1401-1428), ma portata ad un livello di massima perfezione. Gli uomini prima ancora che spazio concretizzatosi in sembianze umane sono persone, esseri spirituali pur nella loro funzione di matrici geometriche.

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
CACCIATA DI ELIODORO DAL TEMPIO (1511/1512)
Particolari dalla decorazione parietale della stanza di Eliodoro
Affresco, larghezza mt. 7,50

Il successo della prima stanza è strepitoso, tanto che Raffaello passa subito alla seconda: la stanza di Eliodoro, detta così per via della scena principale che rappresenta la Cacciata di Eliodoro dal tempio. Nella prima stanza il tema è la manifestazione di un pensiero umanistico; in quella di Eliodoro e nelle successive c’è l’esaltazione dei papi e del loro operato. Ma non solo. C’è anche una evidente differenza stilistica: segno tangibile che qualcosa è cambiato.
Nella Scuola c’è chiarezza formale, equilibrio, e la luce è naturale; nella stanza di Eliodoro c’è contrasto di luci ed ombre, luci come di candele, artificiali; c’è tensione, pathos: cose mai viste prima in Raffaello; l’armonia cede il posto al dramma. L’ariosa, luminosa quinta della Scuola è sostituita qui dalla sequenza delle arcate di una navata in penombra.

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
MESSA DI BOLSENA (1512)
Particolari dalla decorazione parietale della stanza di Eliodoro
Affresco, larghezza mt. 6,60

L’equilibrio classico ritorna nella Messa di Bolsena. Questo affresco è celebre fra gli appassionati di Raffaello (e non solo di Raffaello, ma di arte in genere) non tanto per il ritratto del papa, inginocchiato davanti all’altare, quanto per i ritratti e per i costumi dei sediari, i personaggi dalle stupende vesti, genuflessi in basso, a destra della finestra.
L’accentuato cromatismo del costume ha fatto pensare ad un qualche intervento di un artista veneto, tipo un Sebastiano del Piombo (1485-1547), non inverosimile dal momento che il pittore sta li in Vaticano e ha avuto già a che spartire con l’urbinate il lavoro di decorazione nella Farnesina del Chigi (1466-1520), oppure di un Lorenzo Lotto. Niente di tutto questo però. Raffaello è anche aperto alle esperienze cromatiche venete che comunque fa proprie e trasforma nel suo linguaggio universale.

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
INCONTRO DI ATTILA CON LEONE MAGNO (1513/1514)
Particolari dalla decorazione parietale della stanza di Eliodoro
Affresco, larghezza mt. 6,60

Nell’Incontro di Attila con Leone Magno, affresco che sta di fronte alla Cacciata di Eliodoro, sono messe a punto le esperienze nel campo della ritrattistica e del paesaggio.
Qui la scena è liberamente impostata su una quinta naturale; sono sparite le mediazioni spaziali architettoniche, così come sono sparite le relazioni metriche intuitive costituite dalla presenza stessa dei personaggi. Lo spazio si anima fino a farsi convulso nella ressa dei personaggi costipati alla destra della rappresentazione. Siamo sempre nelle stanze di Giulio II, ma il papa che compare nella scena non è lui, bensì il suo successore Leone X (1513-1521). C’è chi vede nella presenza di papa Medici e il cambiamento di stile una relazione alquanto stretta con la crisi della Chiesa di cui costui si è reso responsabile. A tal proposito è noto dalla storia che in Europa si stanno creando dei focolai di dissidenza in cui si predica la ricerca individuale della fede e si condanna la sua espressione in forma sensibile. Queste forme di dissidenza deflagreranno di qui a poco con l’aperta opposizione di Martin Lutero (1483–1546).

Roma, palazzi Vaticani
Raffaello
LIBERAZIONE DI SAN PIETRO (1513/1514)
Particolari dalla decorazione parietale della stanza di Eliodoro
Affresco, larghezza mt. 6,60

L’ultimo affresco della seconda stanza è la Liberazione di san Pietro. È il secondo notturno rinascimentale: il primo è il Sogno di Costantino di Arezzo di Piero della Francesca. Il notturno di Raffaello è ben diverso da quello di Piero. Si tratta di un notturno più suggestivo, dove all’intento di dimostrare l’indipendenza della realtà formale dal fenomeno luminoso particolare si associa quello di suggestionare lo spettatore. In questo affresco la luce proviene da diverse fonti. C’è quella naturale della luna, quella artificiale della torcia e quella divina dell’angelo. Tutte sono fenomeni, tutte causano riflessi sui corpi opachi come quelli dei soldati e di san Pietro e sugli oggetti metallici come le corazze. Non è una luce drammatica; l’episodio è mitigato dal senso di naturalezza che si sprigiona dalla rappresentazione.
Nel 1514 è terminata anche la seconda stanza. Ormai Raffaello è all’apice della fama; fama che continua a crescere con Leone X. Le sue commesse sono talmente numerose che non si capisce proprio come faccia a trovare il tempo per dedicarsi anche all’amore, dal momento che sembra proprio che il giovin urbinate non disdegni affatto di innamorarsi di tanto in tanto. Famoso è l’episodio riportato dal Vasari (1511-1574) che descrive Raffaello come una persona molto sensibile all’amore e alle donne. A proposito di questo egli racconta che preso da una di queste passioni per una bella ragazza non riuscisse a lavorare agli affreschi della villa Chigi, tanto che il banchiere pur di vederlo all’opera acconsentì a che il pittore e la sua amorosa si vedessero all’interno della stessa villa di cui l’urbinate si stava occupando.
La terza stanza, detta dell’Incendio di Borgo, viene iniziata nel 1515 ed è portata a termine nel 1518. Ma Raffaello è super impegnato e proprio non gliela fa materialmente a eseguire di persona gli affreschi, si avvale perciò ancor più della sua squadra di collaboratori scelti. Intanto, mentre attende alle stanze, continua a fare madonne.

L’INSEDIAMENTO DI LEONE X

Roma, pinacoteca Vaticana
Raffaello
MADONNA DI FOLIGNO (1512 c.)
Olio su tavola trasportata su tela, altezza mt. 3,20 – larghezza mt. 1,94

Firenze, Galleria degli Uffizi
Raffaello
LEONE X CON I CARDINALI GIULIO DE’ MEDICI E LUIGI DE’ ROSSI (1518/1519)
Olio su tavola, altezza cm. 108 – larghezza cm. 80

Le nuove suggestioni della cultura veneta, nonchè di quella padana si vedono nella Madonna Sistina di Foligno, eseguita nel 1512. Ma oltre alle madonne e a molte altre cose Raffaello trova anche il tempo di dedicarsi ai ritratti. Uno dei più noti è quello che raffigura Leone X con l’altro de’ Medici che diventerà papa col nome di Clemente VII (1523-1534), Giulio e il cardinal Luigi de’ Rossi (1474-1519), cugino da parte di madre, realizzato fra il 1518 e il 1519.
Quando Giovanni de’ Medici (1475-1521) sale al soglio pontifici col nome di Leone X ha solo 38 anni. Rispetto a Giulio II, Leone X è fatto di ben altra pasta. Brutto, grasso, con gli occhi a palla, ha una testa enorme e un colorito cereo; di bello ha solo le mani. Conduce una vita dispendiosissima. Ama andare a caccia, specialmente alla Magliana, in quest’epoca una vastissima zona paludosa, ricca di selvaggina, ma anche di anofeli. È infatti la malaria a stroncarlo nel 1521. La morte è così rapida che non è possibile neanche portargli gli ultimi sacramenti. Di lui in una pasquinata si dice che fu una volpe nel farsi eleggere Papa, fece una vita da leone, morì come un cane.
Il nuovo papa vuole continuare sullo stesso stile del suo predecessore, ma al contrario di questi non bada a spese, e quando muore, a 46 anni, lascia debiti per centinaia di migliaia di ducati: a quanto pare l’arte costa! Per realizzare i suoi progetti ne sborsa milioni e milioni. Ma non è solo l’arte a succhiare quattrini dalle casse dello stato pontificio, ci sono anche i 700 elementi che fanno parte della sua famiglia: anche se per onor del vero occorre precisare che solo cinque lo raggiungono a Roma. La spudorata ostentazione del lusso e la corruzione che regna nell’ambiente degli alti prelati non passano inosservati al resto della comunità cristiana, ed è causa di un crescente malcontento. Di contro si invoca una Chiesa più povera e più vicina alle esigenze dei fedeli, soprattutto di quelli di Francia e Germania, ma soprattutto si vuole ridimensionare l’autorità del papa. E in questo clima di grande tensione Leone X riesce a versare la goccia che fa traboccare il vaso. Questa goccia è la vendita delle indulgenze concessa al giovane principe Alberto di Brandeburgo (1490-1545) nel quadro di un’operazione finanziaria finalizzata al reperimento di fondi per la costruzione della nuova San Pietro. La vendita delle indulgenze, cioè un indulto a pagamento, è una pratica vecchia, ma stavolta s’incrocia con le idee del monaco agostiniano Martin Lutero, per cui la salvezza eterna non si può contrattare né con le opere buone né tanto più comprarla: è il preludio alla crisi della Chiesa di Roma e al sacco della capitale.

IL MITO DI RAFFAELLO

Il mito di Raffaello inizia a Roma, un mito alimentato da alcune significative coincidenze. Nasce di venerdì santo e muore di venerdì santo a soli 37 anni, ma all’epoca si disse che ne aveva 33 come Gesù Cristo. Poi c’è l’innegabile somiglianza con il Figlio del Signore, come testimonia il cosiddetto Autoritratto con il maestro di scherma del Louvre, e come ci dice anche il Lomazzo (1538-1592), pittore lombardo che divenuto cieco si mette a scrivere (non lui direttamente, ovviamente). Quindi in un messaggio recapitato alla duchessa di Mantova (1474-1539), viene detto che il giorno dopo la morte dell’urbinate, nel momento stesso in cui l’artista ha emesso l’ultimo respiro, il cielo si è rabbuiato e il palazzo dei papi si è aperto minacciando di crollare. Infine, Pietro Bembo (1470-1547) scrive sulla tomba del pittore al Pantheon che madre natura dovette temere la sua concorrenza nel creare le cose fintanto che egli era in vita, e che dovette temere per la propria morte quando il pittore si spense: Raffaello per i suoi contemporanei non si limitò ad imitare la natura ma la superò, migliorandola.

LA MORTE DI RAFFAELLO

Il giorno in cui Raffaello esala l’ultimo respiro il cielo si rabbuia, scendono le tenebre sulla terra; è primavera ma fa freddo. Sembra come se la natura volesse all’improvviso spegnersi; corre nell’aria un brivido di morte. Ai piedi del letto dove giace c’è, incompiuta, La Trasfigurazione; lui morto, lei così viva.
Avrebbe avuto ancora un mondo pieno di soddisfazioni e glorie, o forse, chissà, aveva già avuto tutto. Sicuramente qualcuno si è convinto che Dio lo ha chiamato a se così presto per non corrompere con il peso degli avvenimenti futuri quel suo spirito sommamente sublime, superiore a tutti e a tutto. Bello come un arcangelo la morte non ne corrompe i lineamenti, anzi ne spiritualizza ancor più la figura; non c’è nessuna creatura dotata di sentimenti che non ne pianga sinceramente la scomparsa. A lui, ragazzo prodigio, gli si tributano gli onori di un grande sovrano; a nessun altro artista di cui la storia porti ricordo gli sarà concesso tanto in questa vita.
Le sue spoglie sono depositate in un sarcofago e accolte nel Pantheon, il tempio degli dèi, dove tuttora si trovano.
Con la morte di Raffaello muore anche la concezione dell’arte come rappresentazione del sentimento del perfetto equilibrio fra uomo, Dio e natura. Dopo di lui dipingere significa aderire liberamente alla realtà nella sua totalità, senza più i ferrei legami geometrici della prospettiva razionale, o, all’opposto, trascenderla distaccandosene completamente.

IL RITORNO DI MICHELANGELO ALLA SCULTURA

Roma, chiesa di San Pietro in Vincoli
Michelangelo
MOSÈ (1513/1516)
Marmo, altezza mt. 2,35

Parigi, Museo del Louvre
Michelangelo
SCHIAVO RIBELLE (1513)
Marmo, altezza mt. 2,15

Parigi, Museo del Louvre
Michelangelo
SCHIAVO MORENTE (1513)
Marmo, altezza mt. 2,29

Firenze, Galleria dell’Accademia
Michelangelo
SCHIAVO CHE SI RIDESTA (1530 c.)
Marmo, altezza mt. 2,67

Terminata la volta della Sistina Michelangelo torna a lavorare alla tomba di Giulio II; ma per poco. Il 25 febbraio 1513 Giulio II muore. I suoi eredi rinnovano il contratto a Michelangelo, ciò nondimeno dopo tre anni sono costretti a scioglierlo. Considerati i tempi lunghi del genio il breve intervallo è appena sufficiente per portare avanti tre statue, il Mosè e due schiavi. Il Mosè viene completato, i due schiavi no. O si? A guardar bene i due Prigioni, così vengono chiamate le statue di schiavi che avrebbero dovuto collocarsi alla base del monumento funebre, detti lo Schiavo ribelle e lo Schiavo morente si notano evidenti tracce del blocco di marmo da cui sono stati ricavati. Per comprendere il perché di questa incompletezza occorre guardare al suo pensiero artistico al momento dell’esperienza sistina. Per Michelangelo la forma artistica è oggetto d’intuizione; è un qualcosa che si “sente”, si avverte guardando alla propria singola, personale visione del mondo. Non la si ottiene architettando proporzionalità geometriche o imitando gli Antichi, la si coglie nel momento in cui il pensiero si fa immagine nella mente dell’artista. In altri termini Michelangelo pensa che l’arte sia un fatto soggettivo e non oggettivo; ordine che l’artista impone all’immagine naturale e non che l’immagine naturale impone all’artista. Dunque anche per Michelangelo l’arte discende dall’immagine mentale che l’artista si fa della realtà naturale, ma l’idea non è né il frutto dell’esperienza, come voleva una parte degli artisti quattrocenteschi empiristi e Leonardo, né della ragione, come voleva l’altra parte, razionalista, né della cultura storica, come volevano gli storicisti, bensì della propria capacità di aderire istintivamente alla verità. L’intuizione, cioè la forma intuita (l’arte) è la stessa che l’artista vede racchiusa nella materia informe, il blocco di marmo grezzo, la tinta opaca, la massa muraria. Per venire alla luce l’intuizione deve essere liberata dalla materia che la tiene prigioniera. Liberare la forma dalla materia che la tiene prigioniera è il compito istituzionale delle varie tecniche artistiche: scultura, pittura, architettura. L’intuizione non sorge dalla materia tutta ad un tratto, ma lentamente, è come una farfalla che esce dal bozzolo; si definisce man mano che si approfondisce l’esperienza operativa dell’arte. Le tracce di questo percorso d’affioramento della forma non devono rimanere celate, ma si devono vedere, affinché sia evidente il percorso seguito dall’artista nel liberare l’idea.
La forma che si presenta agli occhi dell’artista, man mano che questi con scalpello, o pennelli e mattoni, toglie via di mezzo la materia informe è una forma geometricamente indefinita, fatta, più che di piani articolati, di poderose masse plastiche, percorse da profonde correnti di energia. Sono queste correnti a generare il movimento titanico dei corpi; è la presenza di queste correnti che fa rigonfiare i muscoli dello schiavo ribelle, mentre è la loro assenza che fa rilassare le membra dello schiavo morente. Il modellato, tirato a lucido nei due schiavi, è sommario e grossolano nella parte residuale del blocco. I Prigioni ancor più che statue sono forme che portano i segni dello sforzo compiuto dall’artista per liberare l’essere ideale dalla condizione terrena di materia informe.

ROMA, OLTRE BRAMANTE, MICHELANGELO E RAFFAELLO

Roma, Farnesina
Baldassarre Peruzzi
PIANTA, FACCIATA SUL GIARDINO INTERNO (1509)

Roma, Farnesina
Baldassarre Peruzzi
SALA DELLE COLONNE (1509)

Roma, Farnesina
Baldassarre Peruzzi
LOGGIA DI PSICHE (1517)

Agli inizi del Cinquecento a Roma non ci sono solo Bramante, Michelangelo e Raffaello, ma una nutritissima popolazione di artisti provenienti da tutta Italia. Dal 1500 al 1503 è presente un artista quanto mai estroso, Amico Aspertini (1474 c. – 1552), poi c’è il Peruzzi, senese, il Sodoma, piemontese, Bramantino (1465 c. – 1530), lombardo, e il Lotto, veneto; tutti interpellati per la decorazione della stanza della Segnatura. Ma non basta. Insieme a loro sono nella capitale anche: Cesare da Sesto (1477-1523), lombardo, Domenico Beccafumi (1486–1551), senese, Battista Dosso (1497 c. – 1553 c.), emiliano, e Sebastiano del Piombo (1485–1547), veneto. C’è pure il Correggio (1489 c. – 1534), ma si trova di passaggio per un corso di aggiornamento professionale.
A Roma non c’è solo la committenza pontificia. Accanto c’è anche quella di cardinali, ordini religiosi e delle neo-famiglie nobili, cioè quelle dei grandi borghesi. In queste categorie sociali si nascondono talvolta gli “homines novi”, uomini aperti alle novità del momento. Uno di questi uomini nuovi è il banchiere senese Agostino Chigi, ricco come tutti i banchieri, colto e illuminato però solo come pochi suoi pari.
Dopo la fabbrica di San Pietro quella del Chigi è la più attiva e prestigiosa: nulla di strano dunque se c’è verso tale cantiere un’attrazione fatale da parte di tutti gli artisti presenti a Roma e fuori. Nel 1509 Agostino da incarico al Peruzzi di costruirgli la villa a via della Lungara: la Farnesina, così si chiamerà il villino Chigi che sorge ai piedi del Gianicolo, di rimpetto a via Giulia, sulla sponda opposta del Tevere.
Peruzzi la costruisce come una casa delle delizie: luogo di svago e di relax per la colta cerchia di amici del banchiere. L’architetto la fa come il suo ricco padrone la vede: un’amena dimora, aperta, ariosa, luminosa. Il tema architettonico è la compenetrazione dello spazio esterno e interno, e lo si vede dalla concezione generale dell’organismo che idealmente risulta essere un parallelepipedo a cui è stato tolto un pezzo di volume: il cortile interno del palazzo chiuso della borghesia quattrocentesca si sposta all’esterno nella villa aperta della borghesia cinquecentesca.
La villa è costituita da due ali unite da un corpo trasversale; queste formano un ampio vuoto aperto verso il giardino. L’alzato è a due ordini. I due avancorpi sporgono dalla facciata posteriore e conferiscono alla pianta un’inconfondibile sagoma che ricorda una “C” squadrata. Il primo ordine del fronte che affaccia sul giardino è costituito da cinque arcate. Queste mettono in comunicazione la galleria del piano terra con lo spiazzo antistante il prospetto incassato fra le due ali. La funzione di questo ambiente è quella di mediare il passaggio dallo spazio chiuso dell’edificio allo spazio aperto del parco. La particolare forgia del fronte interno si spiega in parte con la speciale funzione che il Chigi gli vuole riservata. Infatti viene usato spesso come quinta per gli spettacoli teatrali che di tanto in tanto il padrone di casa organizza per intrattenere gli ospiti.
Dal punto di vista strutturale la Farnesina si presenta come una nitida, misuratissima composizione di superfici esposte al diretto contatto della luce ambiente. Per movimentarle un po’ senza perderne il carattere di piani astratti il Peruzzi le suddivide in riquadri rettangolari mediante l’inserimento di lesene, quindi modula i marcapiani con bassi davanzali sporgenti e corona l’alzato con un fregio continuo, decorato da una serie ininterrotta di puttini reggifestoni.
Il tema della permeabilità spaziale è ripreso all’interno nella decorazione a fresco. Ma se al piano terra l’apertura verso l’esterno è reale al piano superiore è invece virtuale; è sostituita da un tromp-l’oeil prospettico: l’architettura vera prosegue nell’architettura finta affrescata sulla parete. L’effetto è calcolato tenendo conto delle deformazioni ottiche prodotte dalla visione prospettica della sala. L’espediente fa si che la pavimentazione reale, fatta di riquadri marmorei rossi e neri, sembri la continuazione naturale, senza scarto, di quella virtuale, dipinta. Lo stesso principio viene applicato a colonne e lesene che simulano strutture concrete, perfino nella precisazione dei diversi tipi di marmo di cui sono fatte. Al di là delle colonne si stende una balaustrata; oltre la balaustrata si apre la città. La finzione si ripete sul soffitto della galleria al piano terreno, ma qui c’è chiara l’intenzione di non curarsi della situazione architettonica effettiva: cosa potrebbe voler dire se no un pergolato aperto su un vuoto inesistente? Siamo nel primo decennio del Cinquecento ed è la prima volta che viene deliberatamente disatteso uno dei valori fondamentali del Quattrocento: il concorso unitario delle arti nella definizione dello spazio concreto.
A riprova che quello del Peruzzi non è un incidente di percorso di un artista in particolare, ma un vero e proprio cambiamento di indirizzo generazionale, c’è l’intervento di Sebastiano del Piombo che dipinge nelle lunette di raccordo dell’alzato alla volta storie mitologiche aperte sull’azzurro di un cielo assolutamente inventato.

Montepulciano, palazzo Tarugi
Antonio da Sangallo il vecchio
ESTERNO DEL PALAZZO (1520 c.)

Agli inizi del Cinquecento il Rinascimento ha raggiunto anche i centri più periferici d’Italia (e non solo d’Italia) divenendo il linguaggio di una signoria provinciale, rustica e bellicosa. Agenti divulgatori del linguaggio umanistico in periferia sono artisti come i Sangallo.
Michelangelo definisce “setta” la famiglia Sangallo. Gli Antonio sono due, di cui uno è lo zio dell’altro. Per distinguerli, come si fa solitamente in quest’epoca dove si conoscono tutti, non si usa il cognome, Giamberti per il primo e Cordini per il secondo, ma lo zio viene soprannominato il vecchio e il nipote il giovane. Sono entrambi architetti. Il primo è essenzialmente un costruttore di opere di difesa, come mura cittadine e manieri. Sua è la fortezza vecchia di Livorno del 1515.
Innalzare mura di difesa è un lavoro tipicamente da ingegnere, tuttavia anche le bastionate di cinta presentano per un architetto spunti e sollecitazioni estetiche non trascurabili.
Nel Cinquecento le mura di difesa sono ancora un elemento abituale delle città, rappresentano il volto corazzato della singola compagine comunitaria, l’aspetto esteriore di un corpo che deve dare l’idea di essere ben difeso e pronto a respingere qualsiasi attacco esterno: un ostacolo, insomma, che, comunque vadano a finire le cose, sarà sempre duro, durissimo da superare. E poi le mura debbono in ogni caso rapportarsi con l’ambiente esterno, naturale da un lato e urbano dall’altro. Insomma tutti problemi che posseggono valenze espressive oltre che funzionali.
Più ingegnere che architetto Antonio il vecchio (1455–1534) concepisce anche l’edilizia civile in senso di fortificazione cittadina. Senza dubbio un’idea che può trovare accoglienza nelle realtà locali dei paesi di provincia in cui prevalgono metodi ancora alquanto brutali e diretti nelle sanguinose lotte fra fazioni avverse, come a Montepulciano ad esempio.
Il palazzo della famiglia Tarugi del 1520 conferma quanto detto. Il suo carattere è rustico e severo come la nobiltà di provincia. Le fini membrature appena aggettanti della tradizione fiorentina si trasformano qui in potenti articolazioni plastiche. C’è senza dubbio in questo poderoso blocco squadrato un po’ del Brunelleschi (1377-1446), ma anche un po’ del Bramante.

Montepulciano, San Biagio
Antonio da Sangallo il vecchio
ESTERNO E PIANTA DELLA CHIESA (1518/1545 c.)

L’opera di sintesi fra il linguaggio brunelleschiano e quello bramantesco si approfondisce nel 1518 nella chiesa di San Biagio, sempre a Montepulciano.
Se ci si vuole fare un’idea, la più vicina possibile della costruzione petrina del Bramante non c’è monumento migliore di San Biagio; però bisogna guardare all’edificio stando attenti alle eccezioni. La pianta è, come quella di San Pietro, a croce greca, con quattro campanili posti all’incrocio dei quattro bracci (di essi ne sono stati realizzati soltanto uno e mezzo), ma l’esterno riflette ancora la concezione brunelleschiana della parete informata al principio prospettico di piano di proiezione dello spazio interno; non è, come nel Bramante, una struttura plastica che si incava o espande al momento del contatto fra vuoto interno e vuoto esterno. Un altro elemento di differenza è costituito dal tamburo della cupola. Questo, infatti, pur essendo tondo, con l’affioramento delle lesene tende a presentarsi sotto le mentite spoglie di una superficie prismatica, dunque come una successione di superfici piane. E poi c’è l’abside priva di calotta: il che vuol dire evidentemente che in Antonio non c’è alcuna volontà d raccordare il corpo architettonico con il profilo emisferico della cupola.

Roma, chiesa di Santa Maria di Loreto
Antonio da Sangallo il giovane
ESTERNO E PIANTA DELLA CHIESA (iniziata nel 1507)

Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) è il classico professionista, sapiente tecnico che si guarda bene dall’impegnarsi sul piano ideologico, e per questa sua “caratteristica” Michelangelo non lo sopporta. Anche Antonio il giovane è uno specialista in fortificazioni. La sua presenza a Roma risale al 1503. Nel 1507 da inizio ai lavori per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Loreto al foro Traiano. Il problema che si trova ad affrontare in questa opera non è però prettamente tecnico. È perfettamente al corrente della tendenza del momento; conosce quanto va sperimentando Bramante nella Consolazione a Todi: eliminare gli spigoli per realizzare uno spazio completamente curvo. Il dilemma brunelleschiano della sintesi fra spazio a schema centrale e spazio a schema longitudinale ormai volge a soluzione, una soluzione tutta in favore dello schema centrale. Antonio il giovane questo problema lo risolve proponendo uno spazio centrico espanso all’interno ma contenuto all’esterno entro cristalline forme geometriche tutte spigoli.

Roma, palazzo del Banco di Santo Spirito
Antonio da Sangallo il giovane
ESTERNO (1524/1525)

Nel palazzo del Banco di Santo Spirito, divenuto ora il palazzo della Zecca, Antonio mostra cosa è per lui l’Antico: niente più che un abito per rendere nobile l’aspetto di chi lo indossa. Similmente al Peruzzi, per lui la lingua rinascimentale non è diventata altro che un patrimonio di vocaboli da utilizzare per rivestire soluzioni tecniche; non fa più problema.

GIULIO ROMANO E LA SALA DI COSTANTINO

Roma, palazzi Vaticani
Giulio Romano
SALA DI COSTANTINO (1520/1524)
Veduta d’insieme e Particolare con la battaglia di ponte Milvio
Affresco

La morte improvvisa di Raffaello lascia insoluti parecchi contratti. In campo pittorico tre sono i lavori della massima importanza da portare a termine; tutti e tre sono decorazioni parietali a fresco: la loggia di Villa Madama, la sala dei pontefici e la sala di Costantino. A finire le opere incompiute tocca naturalmente agli aiuti del Maestro, ex garzoni diventati ormai una vera e propria squadra di artisti. Fanno parte di questo collegio Giovanni Francesco Penni detto “il Fattore” (1488–1528), Giovanni da Udine (1487–1561), Polidoro da Caravaggio (1500 c. – 1543), Perin del Vaga (1501–1547) e Giulio Romano (1499 c. – 1546). Tutti ambiscono alla direzione della fiorente bottega sorta intorno al prodigioso urbinate.
Non è solo una questione di soldi, ma anche di prestigio: si tratta di portare avanti la più potente e redditizia azienda artistica romana dell’epoca. Al suo direttore sarebbero sicuramente piovute addosso fama e ricchezza: si apre così il conflitto di successione fra i discepoli del Sanzio.
Polidoro da Caravaggio è lo specialista in decorazione di facciate: una moda proveniente dal Nord. Straordinario disegnatore rivive l’Antico come un avvenimento presente ed emozionante.
Nella chiesa di San Silvestro al Quirinale si trova la cappella di Fra’ Mariano. Qui, nelle Scene con storie della Maddalena e di santa Caterina, il racconto funge unicamente da pretesto per portare al cospetto del contingente immagini provenienti da un lontanissimo passato. È la prima apparizione a Roma del paesaggio classicista arcadico che col Carracci (1560-1609) e il francese Lorrain (1600-1682) darà vita al paesaggio barocco.
Sulla base dell’anzianità di servizio e sulla fedeltà interpretativa dell’ideale raffaellesco il più indicato a capitanare l’impresa è il Fattore, ma ad ereditare la direzione dei lavori più grossi è Giulio Pippi detto Giulio Romano. Infatti a lui va la più prestigiosa delle opere, la Sala di Costantino. Giulio nasce a Roma, tra le scomparse case di via Macel de’ Corvi e via Loreto, a ridosso del foro Traiano, in quella zona che fu nell’antichità la suburra, e che ora, al tempo suo, da alloggio a molti artisti (ci abita anche Michelangelo durante uno dei suoi soggiorni romani).
Giulio Romano è ancora un giovane rampante di 21 anni quando, giocandosi la carta vincente al momento opportuno, riesce a farsi assegnare la decorazione della quarta ed ultima stanza dell’appartamento di Giulio II, commissionata a suo tempo dallo stesso papa a Raffaello, la cosiddetta sala di Costantino, strappandola letteralmente dalle mani di Sebastiano del Piombo, il quale in fatto di rampantismo non è certo secondo a Giulio. Questa carta vincente sono i disegni originali dello schema decorativo che Raffaello aveva buttato giù nel 1508 a completamento del lavoro di affrescatura dei quattro appartamenti papali, e che ora, chissà come, si trovano in possesso del Pippi. Comunque stiano le cose quello che è certo è che quando Raffaello era ancora in vita Giulio si conquista rapidamente la sua fiducia. A 16 anni già è all’opera insieme all’equipe del Sanzio per la preparazione dei cartoni destinati agli arazzi fiamminghi della cappella Sistina, nonché a decorare le pareti della stanza con l’Incendio di Borgo. Nel 1517 lo troviamo insieme al Penni nella Farnesina e nel 1518 insieme a Giovanni da Udine e Perin del Vaga nelle Logge Vaticane. Il massimo riconoscimento l’ottiene quando viene scelto, insieme ad altri fidatissimi, per portare a termine la Trasfigurazione, lasciata incompiuta dalla morte prematura del Sanzio.
La sala di Costantino Giulio se la fa tutta da solo (ovviamente nel senso che ne dirige lui, e solo lui i lavori), e quindi ha la possibilità per la prima volta di mettere in mostra la sua personalità artistica su un’opera di grande prestigio. Se con la morte di Raffaello viene a mancare l’individualità unificatrice che faceva del gruppo una sola mano in compenso però va liberandosi la soggettività dei singoli discepoli. Fra tutti Giulio è senza dubbio quello che si allontana di più dallo spirito classico del Maestro (ma sarà Polidoro da Caravaggio a imboccare la strada più ricca di sviluppi).
La sala di Costantino è la più grande delle quattro sale giulie. Si tratta di uno stanzone a forma di parallelepipedo, sulle cui quattro enormi pareti il Pippi rappresenta momenti diversi della lotta fra Costantino e Massenzio.
L’artista immagina questi episodi come se fossero dipinti su finti arazzi tesi da un angolo all’altro di ciascuna parete. Per sostenerli inventa finte nicchie, all’interno delle quali colloca ritratti di papi tra angeli e figure allegoriche, il tutto poggiato su uno zoccolo di finto marmo, impreziosito da finti bassorilievi in bronzo. Dunque tutto finto: è l’arte che non imita la natura, imita se stessa.
I riquadri sono un groviglio di corpi ammassati che fanno ressa l’uno contro l’altro in un turbinio di movenze disordinate di cui è veramente arduo trovare il centro generatore. In questa sala c’è già, e si vede, la passione per il teatro, per lo spettacolo, per l’accadimento che folgora, coinvolge, sconcerta lo spettatore, nonché la ricerca della scena d’effetto. Il fine di tutto ciò è semplicemente suggestionare l’osservatore. Una suggestione che equivale allo stordimento; un misto di stupore e raccapriccio, per questo Giulio si spinge a dettagliare scene di particolare efferatezza e realismo.
La sala nel 1524 è finita e il lavoro sortisce gli effetti programmati. A Giulio gli iniziano a piovere addosso commissioni su commissioni, e non solo in pittura ma anche in architettura: quattro pale d’altare, fra cui ci limitiamo a ricordare la Sacra Famiglia Függer, di Santa Maria dell’Anima; la decorazione a stucco e pittura della loggia di Villa Madama, insieme ai suoi vecchi colleghi e con la partecipazione speciale del Peruzzi; la villa Lante al Gianicolo e il palazzetto Maccarini a Sant’Eustachio.

IL PRELUDIO AL PALAZZO DEL TÈ

Roma, palazzetto Maccarini a Sant’Eustachio
Giulio Romano
ESTERNO (1520)

Nel palazzetto Maccarini a Sant’Eustachio gli esperti vedono il preludio al palazzo del Tè (o palazzo tè) di Mantova. L’edificio viene fabbricato nel 1520 per Paolo Stazi, passa poi ai Cenci prima di diventare definitivamente Maccarini. Qui sono già gli stessi vocaboli privi di contenuto strutturale statico che andranno a caratterizzare la costruzione mantovana: vale a dire lesene tanto eleganti quanto esili, bugnati per qualificare ambienti rustici, timpani e capitelli reinventati. Ma, ironia della sorte, proprio nel momento di massima accelerazione verso un irrefrenabile successo, arriva il papa, questa volta nella persona di Clemente VII, a metter fine alla sua carriera romana. Il motivo? Sembra che a scatenare l’ira di Clemente siano una serie di disegni erotici con cui Giulio illustra dei versi dell’Aretino (1492-1556). Però, come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere. Grazie alle conoscenze maturate in seno alla clientela rimasta fedele alla bottega ancora viva e fiorente di Raffaello, Giulio ha la possibilità di riparare alla corte di Federico Gonzaga (1500-1540) e qui iniziare tutta un’altra storia.

LE ULTIME OPERE A ROMA PRIMA DEL SACCO

Boston, Museum of Fine Arts
Rosso Fiorentino
CRISTO MORTO TRA DUE ANGELI (1525/1526)
Olio su tavola, altezza mt. 1,33 – larghezza mt. 1,04

Londra, National Gallery
Parmigianino
VISIONE DI SAN GEROLAMO (1527)
Olio su tavola, altezza mt. 3,34 – larghezza mt. 1,49

A Cinquecento abbondantemente avviato anche nella capitale si inizia a respirare aria di manierismo. Ma mentre a Firenze prevale la tendenza a mettere d’accordo Leonardo e Michelangelo a Roma Leonardo non fa problema, si preferisce mettere d’accordo Michelangelo e Raffaello. Se è pur vero che trovare un accordo fra tendenze antitetiche risulta sempre possibile è altrettanto vero che questa sintesi la si trova però sempre più a livello linguistico e sempre meno a livello ideologico.
Nel Cristo morto tra due angeli del Rosso Fiorentino (1495-1540), opera eseguita fra il 1525 e il 1526, il corpo del Cristo è palesemente michelangiolesco, mentre lo spazio concavo in cui s’inserisce e scivola è raffaellesco. Nella Visione di san Gerolamo del Parmigianino (1503-1540), eseguita nel 1527, la Madonna col Bambino ricorda in parte quella del Cardellino, mentre il san Gerolamo è evidentemente un omaggio a Michelangelo.