IL SACCO DI ROMA
CONSEGUENZE DEL SACCO DI ROMA SULL’ARTE
IL TRIONFO DEL PIPPI
LA SITUAZIONE A ROMA DOPO IL SACCO
ULTIMO SOGGIORNO DI MICHELANGELO A ROMA
IL TEMA FONDAMENTALE DEL GIUDIZIO
MICHELANGELO ARCHITETTO
Roma, castel Sant’Angelo
VEDUTA
Dopo poco più di un anno di pontificato di Adriano VI (1522-1523), un fiammingo, giunge al soglio pontificio un altro Medici, Giulio (1478-1534), cugino di Leone X (1513-1521), figlio naturale di Giuliano (1453-1478). Giulio regna dal 1523 al 1534 col nome di Clemente VII. Il suo mandato si apre sotto i migliori auspici, ma si chiude con una pesante sconfitta. La sua sciagurata politica conduce Roma al disastro.
Clemente VII ha le stesse tendenze finanziarie del cugino: non bada a spese. Nel 1525 completa la via Leonina, la futura via di Ripetta, nata nel 1518 su disegno di Raffaello (1483-1520) e del Sangallo (1484-1546), quindi apre la via Clementina (poi via del Babbuino) per agevolare il deflusso dei pellegrini che dalla via Flaminia vogliono raggiungere Santa Maria Maggiore e San Giovanni, infine manda avanti la grande fabbrica di San Pietro, già costata a Leone X uno scisma. Come il cugino Clemente sottovaluta il fenomeno Lutero, nonché si dimostra sordo alle richieste di riforma che pur da molte parti gli vengono avanzate da tempo. Non solo, si macchia anche della sconsiderata alleanza con Francesco I (1515-1547), re di Francia, contro Carlo V (1519-1558), re di Spagna, che conduce la Chiesa ad un passo dal disastro dopo la sonora sconfitta dei francesi a Pavia nel 1525. Come se non bastasse, nonostante la lezione, Clemente aderisce alla lega anticarlo che si costituisce per preparare la rivincita della Francia sulla Spagna, fatto che scatena la reazione dell’imperatore, il quale ordinerà il Sacco di Roma (1527).
Carlo V, cattolico, non ha intenzione di attaccare il papa, per cui invoca un incontro chiarificatore, incontro che non avverrà mai. Clemente sembra assolutamente ignaro della situazione in cui si trova. Nel settembre del 1526 accadono dei fatti che lo avrebbero dovuto mettere in allarme, e invece niente. Anzi lo inorgogliscono maggiormente e lo inducono a pensare di ripetersi. Storica è la rivalità della famiglia Medici con quella dei Colonna. Nel settembre del 1526 Clemente VII e Pompeo Colonna (1479–1532) pervengono ad una tregua. In seguito a ciò Clemente smobilita l’esercito, sempre pronto ad annientare il tentativo di colpo di stato della famiglia romana. Niente di più errato. È l’invito per i Colonna ad intervenire e spodestare Clemente. Ma Clemente si arrende e i colonnesi sono costretti a trattare. Tornata la pace Clemente assolda 2.000 soldati svizzeri più 200 uomini d’arme di Federico Gonzaga e mette a ferro e fuoco tutti i beni immobili dell’aristocratica famiglia capitolina. Ma non è solo questo. C’è anche un inderogabile bisogno di Concilio, ma il Concilio non arriva. Clemente VII non lo indice neanche dopo il Sacco. È Paolo III (1534–1549) a guidare il risveglio della Chiesa con la convocazione del Concilio di Trento. Con convocazione del sinodo, che si aprirà solo nel 1545, la Chiesa Romana rinascerà nuova nello spirito, ma anche più forte nell’autorità del papa. Ciò non le basterà comunque ad evitare la costituzione di Chiese nazionali come la gallicana, in Francia, e, più tardi, l’anglicana in Inghilterra.
Stanti queste concause avviene che durante la primavera del 1527 un esercito formato da 12.000 lanzichenecchi, più spagnoli e italiani, per un totale di 30.000 unità agli ordini di Carlo V, punta su Roma deciso a riportare alla moralità la dissolutezza curiale. La resistenza romana conta su altrettanti uomini sotto il comando di Renzo Orsini da Ceri, equipaggiati di tutto punto ma impossibile da riunire in un’unica grande armata, frammentati come sono nella difesa personale dei singoli cardinali e nobili romani.
I primi giorni di maggio, sulle alture di Monte Mario, compaiono le truppe imperiali; sono in assetto di guerra e minacciano l’attacco. È il panico generale, tutti perdono la testa; il popolo di Roma si dà alla fuga. Clemente è costretto ad emettere un editto che impedisce l’abbandono della città, pena, la confisca dei beni.
Il 6 maggio, il comandante, il connestabile di Borbone (1490-1527), in obbedienza agli ordini ricevuti, prima di sferrare l’attacco attende eventuali delegazioni parlamentari, ma non ne vede arrivare neanche una. Non potendo più trattenere le truppe, decide di muovere ed entra in città. Passa dalla porta di Santo Spirito e dalle fornaci senza incontrare seri problemi, poi dirige dritto su castel Sant’Angelo. L’assalto al castello è durissimo e nel tentativo di scavalcare le mura con le sue milizie imperiali egli stesso perde la vita. Questo episodio spinge i romani a cantar vittoria troppo presto. Infatti l’esercito imperiale continua la sua offensiva; vince la debole resistenza di ponte Sisto e conquista il centro storico. È la strage. Migliaia di persone, nobili, popolani, uomini, donne, vecchi e bambini vengono brutalizzati; i più accaniti sono i lanzichenecchi. Per loro non è una guerra come tutte le altre, è una guerra di religione: la peggiore. Tutto finisce a metà febbraio del 1528. Dopo oltre un mese passato chiuso in castel Sant’Angelo, con altre due o tremila persone, Clemente VII decide di arrendersi: pagherà 400.000 ducati e consegnerà diverse fortezze ai nemici. Termina così una delle più tragiche vicende della storia cinquecentesca della città.
L’invasione e il saccheggio causano naturalmente l’arresto di tutte le attività economiche, nonché lo spopolamento della capitale: dopo lo scempio Roma conta 30.000 abitanti. Molti degli artisti che si trovano nella città capitolina fuggono, qualcuno viene spietatamente ucciso; tutti i sogni di grandezza e i lavori che avrebbero dovuto realizzarli cessano d’un tratto.
Il Sacco non è solo il saccheggio che fa seguito all’attacco del 6 maggio 1527, è anche tutto l’incubo dell’occupazione delle truppe imperiali durato quasi un anno fra ammazzamenti e razzie di ogni tipo. Roma è terrorizzata da bande armate che spadroneggiano per le vie e per i luoghi sacri della città senza rispetto per niente e per nessuno. Persino l’imperatore rimane senza parole, né ha il coraggio di intervenire di fronte all’inaudita ferocia dei suoi stessi armigeri.
I grandi monumenti sono salvi; si attende la ripresa dei lavori, ma niente sarà più come prima. Col Sacco di Roma finisce un mondo e ne inizia un altro.
CONSEGUENZE DEL SACCO DI ROMA SULL’ARTE
Firenze, Galleria degli Uffizi
Parmigianino
MADONNA DAL COLLO LUNGO (1534/1540)
Olio su tavola, altezza mt. 2,14 – larghezza mt. 1,33
La grave ferita inferta alla capitale del cattolicesimo sconvolge il mondo artistico quanto e come le coscienze di tutti gli uomini dell’epoca, ma le conseguenze non sono le stesse in tutti i luoghi.
Quando ritorna nella sua città natale il Parmigianino (1503-1540) lascia la pittura per dedicarsi all’alchimia. Fra le poche, preziosissime opere del periodo successivo al Sacco spicca La Madonna dal collo lungo, una stupenda immagine stilizzata, che non significa altro da quel che si vede. Inutile cercarne i contenuti. Si tratta di un’immagine ermetica, distaccata, lontana anni luce, impenetrabile, astratta; una crisalide di onice dai finissimi colori, contornata da presenze assurde come le colonne che non reggono nulla e la statuina di profeta che predica al vuoto: il classicismo cinquecentesco è ormai tramontato; al suo posto è subentrato il manierismo.
Mantova, palazzo del Tè
Giulio Romano
PIANTA, FACCIATA, VEDUTA D’INSIEME E PARTICOLARI DELLA DECORAZIONE DELLE SALE INTERNE (1526/1534)
A Mantova, una cittadina ben lontana dalla tragedia di Roma, le cose non vanno meglio che in altre parti d’Italia. Infatti la patria dei Gonzaga sta vivendo un altro dramma, anche se di ben diverse proporzioni. Si tratta del dramma del provincialismo, tipico dei piccoli centri. Dopo i fasti mantegneschi è ripiombata nell’oblio culturale, cosicché il suo signore, Federico Gonzaga (1500-1540), per rialzarne il livello, si vede costretto a chiedere aiuto agli artisti d’avanguardia dell’epoca.
Appena arrivato dalla capitale, desideroso di farsi benvolere nella città dove ha scelto di vivere e lavorare, c’è li pronto Giulio Romano (1499 c. – 1546). Ma la sua nuova vita a Mantova non inizia bene.
Da principio Federico non si fida del giovanotto: come è noto, egli non ha affatto simpatia per Clemente, un Medici, di conseguenza non si fida neanche di chi ha lavorato per lui. Lo mette momentaneamente a risistemare le stalle che possiede su un isolotto, detto del tè, piantato nel bel mezzo di una zona fatta di pratoni, spesso allagati. Accanto, il duca poi ha intenzione di costruire una piccola residenza per Isabella Boschetti (1502-1560), la sua cortigiana preferita.
Certo Federico non scommetterebbe neanche un soldo su quel giovane stravagante, comunque non avrebbe avuto nulla da perdere metterlo alla prova. Così avviene che il duca vede trasformare per merito di Giulio le sue stalle in un luogo da stelle. È il trionfo del Pippi (è il cognome dell’artista). Quando il Vasari (1511-1574) gli farà visita, nel 1541, troverà un uomo ricco e potente.
Fra Giulio e Federico si stabilisce subito un’intesa; l’estro del primo non può trovare una migliore cassa di risonanza che nella stravaganza del secondo: non va dimenticato che il duca ha innalzato i suoi cavalli al rango di eroi classici.
Il tema espressivo fondamentale nel palazzo del Tè (o palazzo tè) è il rapporto fra architettura e pittura. Il rapporto fra architettura e pittura è un tema molto stimolante, oltretutto è un modo per confrontarsi con un eccellente predecessore come il Mantegna (1430 c. – 1506). Ma Giulio non cerca la continuità quanto piuttosto il contrasto fra le due discipline. Infatti l’ordinata sequenza dell’articolazione spaziale architettonica viene palesemente in collisione con quanto raffigurato sulle pareti interne. L’essenza stessa dell’architettura, la statica, viene contraddetta dagli affreschi che mostrano colonne che si spezzano e crollano insieme ad archi ed architravi, nonché mensole che poggiano nel vuoto e strutture murarie che poggiano su telai di legno. Dunque il fine della pittura non è restituire il naturale ma al contrario rendere naturale, vero l’artificioso, l’innaturale, l’impossibile.
La patria dei Gonzaga oltre ad essere la patria del Mantenga è anche la patria di un altro grande storicista, l’Alberti (1404-1472). Eppure in Giulio la loro lezione cade nel vuoto. Per lui l’Antico è solo un repertorio di trovate pittoresche, talvolta talmente stravaganti da rasentare il comico, un pozzo senza fondo di morfologie eretiche e libertà ritmiche. L’intero complesso è concepito come un padiglione delle meraviglie. A vederlo dall’esterno il palazzo non lascia assolutamente intendere quello che sarà poi l’interno: rustico ed elegante fuori diventa arioso e episodico dentro.
La maggior parte dei temi figurativi che ne decorano le pareti interne fanno riferimento al dolce oziare di classica memoria. L’unico affresco dove compare un monito è la Caduta dei giganti.
Il tema espressivo nella Caduta dei giganti è il terrore, ma ad un livello più profondo è la storia che qui diventa capriccio: segno evidente dei tempi cambiati. Il risultato però più che portare a riflettere ingenera nello spettatore due sentimenti contrastanti, quali meraviglia e terrore. Tuttavia il sentimento è stemperato dall’aspetto un po’ grottesco assunto dall’intera rappresentazione.
Cosa della massima importanza da notare è come in Giulio, allo stesso modo che negli altri manieristi, la finzione non vuole ingannare, vuole essere quel che realmente è, finzione. Sta qui la differenza con quella che sarà poi la finzione barocca.
Dal palazzo del tè Giulio passa a ristrutturare l’intera città di Mantova. La morte lo coglie a 47 anni, in piena maturità, quando ormai può godersi finalmente i frutti del successo.
Curiosità: è a Giulio Romano che Shakespeare (1564-1616) pensa quando nel suo “winter’s tale” si sbilancia nell’unica citazione della sua carriera rivolta all’arte rinascimentale italiana dove lo definisce «that fine italian master».
LA SITUAZIONE A ROMA DOPO IL SACCO
Roma, palazzo Massimo alle Colonne
Baldassarre Peruzzi
FACCIATA (1532/1536)
A Roma, passata la sfuriata apocalittica e fatta la pace con Carlo V, possono riprendere le attività di sempre. Ma la ripresa non è un semplice ricominciare come se nulla fosse accaduto. Molti degli artisti operanti nella capitale prima del Sacco tornano dopo il Sacco, ma al loro rientro trovano un clima completamente cambiato. Alla riapertura dei lavori per la costruzione della Basilica Madre, rimasta orfana del suo ultimo architetto, Raffaello, Clemente VII nomina alla direzione della fabbrica Baldassarre Peruzzi (1481–1536), il quale redige un suo nuovo progetto che prevede un ritorno alla pianta centrale delle origini.
Nel 1534 muore Clemente e viene eletto papa Alessandro Farnese. Paolo III (1534-1549), così si chiama il nuovo pontefice, è un papa diverso da tutti i suoi predecessori, soprattutto perché è il papa di una nuova situazione politica, italiana ed europea. Gli Stati Nazionali hanno finito per trionfare anche in suolo italico; le grandi signorie ormai si sono trasformate in principati, e questi esercitano un potere assolutistico sui territori a loro soggetti. L’arte diventa così uno strumento nelle mani del principe per glorificarne le azioni. A Roma Paolo III è il principe dello Stato Pontificio; parenti e amici sono la sua corte; artefici e mercanti i suoi servi. La borghesia delle libere repubbliche è rimasta solo in poche, piccole frazioni territoriali. Roma, Milano, Firenze, Napoli sono ormai regioni governate da un solo uomo: il principe. Il Sacco di Roma non è solamente un tragico evento, è la manifestazione palpabile della crisi del potere pontificio; la reazione a questa crisi è la controriforma.
La controriforma si traduce in termini estetici con l’ostentazione monumentale del potere temporale unita alla promozione di un linguaggio aulico, ma privo di spessore critico culturale. Roma da centro di confronto fra poetiche si trasforma in centro di elaborazione di un linguaggio sempre più retorico, e come all’epoca di Augusto (63 a.C.-14 d.C.) il bello classico diventa decoro sociale. A Roma il nuovo Augusto è Paolo III.
Paolo III è un papa quasi in tutto e per tutto simile a Giulio II (1503-1513). Quando diventa pontefice è ormai un vecchio focoso e collerico, come Giulio. Ma a differenza di questi è un raffinato umanista e il suo obiettivo politico non è la riconquista del potere temporale attraverso la lotta armata, bensì attraverso la moralizzazione dei costumi della Chiesa. Sotto il suo pontificato la costruzione della Basilica Madre non ha più il significato di una dimostrazione di fasto quanto piuttosto di una riaffermazione dell’universalità del messaggio cristiano, contro l’individualità predicata dai riformisti.
Naturalmente gli artisti operanti dopo il Sacco non danno della situazione tutti la stessa interpretazione. Il Peruzzi ad esempio pensa al Sacco come ad una battuta di arresto e quando nel 1534 torna al lavoro riprende il suo discorso dal punto in cui lo aveva lasciato. Lo fa sia nella committenza pubblica, con la personale visione della nuova San Pietro, che nella committenza privata, con il palazzo Massimo alle Colonne.
Il tema del momento non sono più i dati strutturali su cui fondare la lingua figurativa moderna, ma la comunicazione diretta dei contenuti. Questo devia l’interesse dell’architetto dall’aspetto dimostrativo, più ideologico, a quello funzionale, più tecnico. Il Peruzzi concepisce l’architettura come parte integrante di uno spazio di ben più ampio respiro, come è quello dell’ambiente naturale.
Nel palazzo Massimo alle Colonne l’ambiente è costituito dalla città e la città è fatta di edifici e strade: dunque la strada è parte integrante del progetto. E fin qui niente di nuovo. Ma, contrariamente a quanto pensa il Sangallo, egli non considera le due unità come elementi urbani indipendenti, bensì come entità spaziali interconnesse. Ciò significa che col Peruzzi è l’edificio ad essere studiato in rapporto allo spazio pubblico e non il contrario. La via papale, oggi via del Corso Vittorio, non ha un tragitto rettilineo, ma arrivata nei pressi di palazzo Riario si flette. Il palazzo dei Massimo sorge proprio qui dove la strada inizia a curvare. Il Peruzzi non ignora l’inflessione, cioè non erige la facciata del palazzo come una superficie piatta che si disinteressa dell’andamento curvo della via, bensì piega il suo fronte strada a tener conto della situazione urbana di fatto. Nell’alzato dimostra di non aver perso la sua sensibilità pittorica e interpreta la facciata come una superficie luminosa: questa infatti è tutto un gioco di chiaroscuri.
L’idea guida è unire al bugnato dei palazzi borghesi fiorentini gli elementi architettonici delle ville medicee. Partendo dalla base s’incontra la fascia racchiusa fra il piano stradale e il marcapiano, una superficie mossa dal chiaroscuro più tenue creato dal leggero rilievo delle lesene e da quello più intenso prodotto dal porticato che ne segna l’ingresso. Passando al secondo ordine il chiaroscuro si arricchisce di modulazioni luminose. Contrasti più forti e continui sono nel cornicione, più lievi e spezzati negli architravi delle finestre lunghe e nelle cornici delle finestre a tabella; il tutto è rapportato alla delicatissima vibrazione chiaroscurale dell’elegante bugnato di fondo.
Il Peruzzi è il primo architetto a concepire Roma come una città dove si vive e non già come una città dove si va solo per pregare e far visita alle sacre reliquie dei numerosi martiri della Chiesa. Se la città è il luogo dove si svolge la vita degli individui l’architettura è il mezzo che ne deve allestire le quinte. In altri termini l’architettura è un linguaggio flessibile nelle mani dell’architetto al quale spetta il compito di adattarlo alle circostanze. Una poetica questa che può essere definita professionale e che ben si addice alle esigenze del momento.
Roma, palazzo Farnese
Antonio da Sangallo il giovane
FACCIATA (post 1534)
Dopo la morte del Peruzzi nel 1536, nella interminabile fabbrica di San Pietro è il turno del Sangallo. Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) aveva già lavorato per Paolo III in occasione del progetto e della realizzazione del palazzo di famiglia, in Via Giulia: palazzo Farnese (oggi ambasciata di Francia). Il palazzo Farnese è la dimostrazione visiva del mutato clima culturale della società romana dopo il Sacco. La prima stesura del progetto risale al 1517, quando Alessandro Farnese (nato nel 1468) era ancora un semplice cardinale. Divenuto papa, il suo architetto cambia idea. Il palazzo sontuoso diventa un enorme parallelepipedo definito dal ricorso di tre marcapiani, un cornicione fortemente aggettante e dei conci bugnati ad ogni spigolo della superficie laterale: in sostanza un maniero camuffato da reggia.
All’interno, dopo un lungo androne colonnato in ordine dorico a tre navate, si apre un cortile quadrato a tre ordini, di cui il primo avente funzioni di disimpegno porticato. All’esterno quello del Farnese è una riedizione del palazzo Strozzi, solo di dimensioni gigantesche e senza bugnature; al posto di queste ultime a qualificare pittoricamente la superficie esterna ci pensa il mattonato a vista. L’interno è una riedizione aggiornata del cortile della Cancelleria. La bellezza monumentale di palazzo Farnese è in realtà ostentazione di grandezza a scopo intimidatorio: il potere assolutistico della famiglia Farnese si deve far sentire anche attraverso l’imponenza della propria dimora.
Passato il Sangallo a dirigere la fabbrica di San Pietro, Paolo III mette Michelangelo (1475-1564), tornato a Roma da un paio d’anni, a completare il proprio palazzo-fortezza. Il genio termina il piano nobile con il finestrone centrale, sul quale colloca gli stemmi dei Farnese, e aggiunge l’ultimo piano che chiude con un poderoso cornicione, infine porta a compimento anche il cortile interno con l’aggiunta dell’ultimo ordine.
Abbiamo detto dell’avversione di Michelangelo per i Sangallo; in modo particolare non riesce a digerire Antonio il giovane. Il motivo sta nel fatto che il genio non sopporta il suo servilismo, o, ancora più probabile, il fatto che Antonio interpreta l’arte come puro strumento al servizio del committente. Insomma ciò che il toscano non riesce a mandar giù non è tanto l’ideologia del Sangallo quanto il fatto che non abbia un’ideologia. Tuttavia la posizione di Antonio è quella vincente, mentre quella di Michelangelo, benché più profonda e degna di considerazione, resta isolata e destinata a perire con l’autore.
Roma, castel Sant’Angelo, sala Paolina
Perin del Vaga
ALESSANDRO TAGLIA IL NODO GORDIANO (1545/1547)
Affresco
Della prestigiosa equipe di Raffaello l’unico a tornare a Roma dopo il Sacco è Perin del Vaga (1501–1547), il più giovane e brillante degli allievi. Torna nel 1537, proveniente da Genova, per decorare i nuovi appartamenti papali, ricavati nella fortezza, questa volta autentica, di castel Sant’Angelo. Insieme a lui e alla sua bottega ci sono i giovani pittori dell’ultimissima generazione, tutti nati negli anni venti: Pellegrino Tibaldi (1527–1596), Gerolamo Siciolante da Sermoneta (1521–1586), Marco Pino da Siena (1525–1586). Nel 1545 Perino decora l’appartamento di Paolo III, ma ormai si tratta appunto soltanto di decorazione. Non è importante il contenuto di quello che si mette in figura quanto piuttosto la brillantezza, la scorrevolezza, la scioltezza della pronuncia pittorica: l’arte si è ormai declassata a semplice contenitore di messaggi.
ULTIMO SOGGIORNO DI MICHELANGELO A ROMA
Roma, palazzi Vaticani, cappella Sistina
Michelangelo
GIUDIZIO UNIVERSALE (1536/1541)
Affresco, altezza mt. 13,70 – larghezza mt. 12,20
Nel 1534 a Firenze i Medici tornano al potere e Michelangelo riparte per Roma. Ha 59 anni.
Lo ha chiamato di nuovo nella capitale, molto probabilmente un anno prima, Clemente VII, l’ultimo papa Medici, per un altro incarico prestigioso: questa volta deve affrescare la parete alle spalle dell’altare della cappella Sistina. Ventitre anni dopo Michelangelo torna dunque nella cappella Sistina. Il soggetto è il Giudizio Universale: nel 1508 aveva affrescato l’inizio dei tempi, ora affresca la fine.
Il Buonarroti arriva nella capitale a settembre. Due giorni dopo il suo arrivo Clemente VII muore. Il nuovo papa Paolo III Farnese appena eletto si premura di far visita personalmente al genio. Scortato dal suo seguito di sette-otto cardinali va, prende visione del progetto che Michelangelo aveva preparato per Clemente, e, col suo fare deciso e imperioso, approva. Il 26 aprile dell’anno successivo è tutto pronto per dare inizio ai lavori, ma il loro tempo non è ancora venuto.
Stando a come la vede il genio per il Giudizio ci vuole l’intera parete, allora occupata da due sue stesse lunette, affrescate all’epoca della volta, due riquadri con due storie del Perugino (1450-1523), quattro ritratti di papi e delle finte nicchie. Ordina d’imbiancare tutto; e nessuno osa opporsi: Michelangelo è l’unico artista che ha ancora la libertà di fare quel che gli pare: ormai è diventato una leggenda vivente; il suo prestigio lo esenta dal rispettare le etichette in nome della superiorità creativa.
Del Giudizio si inizia subito a parlare ancor prima che Michelangelo inizi a metterci mano. Addosso al genio si abbatte una valanga di consigli e suggerimenti su come impostarlo iconograficamente e sulle tecniche da usare, ma che lui, naturalmente, non segue. Nel 1537 gli giungono anche le esortazioni di Pietro Aretino (1492-1556). Il genio le aggira rispondendogli che l’affresco ormai è quasi finito: una bugia grande come una casa, dal momento che il Giudizio sarà terminato nel 1541.
Il Vasari, a proposito di questo interessamento generale suscitato dall’opera, riporta un ennesimo squarcio di vita di quei tempi e dei rapporti tra artisti raccontando della rottura dell’amicizia del Buonarroti con Sebastiano del Piombo (1485–1547). Durante il periodo di stesura del progetto di decorazione della parete Sebastiano convince il papa a far eseguire il Giudizio ad olio anziché a fresco. Ma quando sottopone la proposta a Michelangelo, lui non se ne mostra affatto entusiasta. Però è certo che il genio medita sull’idea per ben due, tre mesi; poi, sollecitato ad esprimersi, decide per l’affresco, dicendo, con i suoi soliti modi da orso, che il colorire ad olio è arte da donna e da persone agiate e infingarde come Bastiano; e così perde un amico.
Intanto, tra un aneddoto e l’altro, giunge il 18 maggio del 1536, giorno in cui Michelangelo sale sull’impalcatura e da inizio al Giudizio Universale. Il genio ha 61 anni.
Nel grande affresco Michelangelo non cerca più la sintesi operativa ma la continuità delle esperienze. Il suo percorso astrattivo è un pezzo avanti e gli causa due stravolgimenti importanti. Il primo è che all’amata scultura viene preferita l’odiata pittura. Motivo? Rende meglio l’idea della spiritualità della forma: questo perché la pittura non ha a che fare con una materia così consistente come il marmo o il bronzo. Il secondo si verificherà di lì a poco, quando il genio troverà nell’architettura il punto d’arrivo del suo percorso artistico.
Come al solito Michelangelo fa tutto in gran segreto; neanche il Papa lo può disturbare. Durante una visita di Paolo III col solito seguito, uno dei cardinali, Biagio da Cesena (1463–1544), il maestro di cerimonie, si sbilancia in un commento. Scandalizzato afferma che un’opera con tanti nudi che mettono in mostra le loro vergogne non è da cappella papale ma da bagno e da osteria. Michelangelo, che come al solito non accetta commenti gratuiti, si vendica del suo denigratore e lo dipinge, in basso a destra, come Minosse avvolto da un serpente che gli morde il pene. È davvero un po’ troppo, ma a un genio si perdona tutto.
IL TEMA FONDAMENTALE DEL GIUDIZIO
Il tema fondamentale del Giudizio è la salvezza; e siccome la salvezza è anche l’argomento su cui si sono divisi i cristiani, non si può certo dire che il tema del Giudizio non sia attuale. Un tema che tocca Michelangelo anche personalmente dal momento che il pensiero del peccato lo assilla sempre più spesso, non meno di quello della morte. Certo lui, gran lavoratore, non si sente minimamente di accettare l’idea che il lavoro non salva, ma solo la fede. Ad accentuare il suo stato di tormento concorre in maniera determinante l’amore platonico per Vittoria Colonna (1490 c. – 1547) e la conoscenza dei circoli della riforma cattolica che fanno capo a Juan de Valdès (1500-1542 c.). La rinascita della Roma imperiale vagheggiata da Giulio II e Leone X è un sogno che si è ormai infranto; non è più il tempo dei fasti e delle grandezze, ma quello della riflessione e della salvezza. È la crisi: e infatti nel Giudizio c’è la coscienza della crisi.
Quando Michelangelo affronta la resa dei conti finale l’affronta con l’anima combattuta fra riformismo e controriformismo. Lui che aveva espresso in modo così sublime la via universale alla salvezza attraverso il lavoro individuale sente in vecchiaia messa in discussione la stessa sua salvezza per il continuo venir meno della fede nel lavoro salvifico.
Naturalmente il Giudizio michelangiolesco è diverso da tutti gli altri Giudizi. Nessun trono fra gerarchie celesti e terrene; tutto fa corona al gesto imperioso di un Gesù Cristo atletico e irato che domina la composizione in mezzo ad un alone di luce. Gesù è anche il nucleo intorno a cui orbita una ridda di corpi di beati e di dannati: gli uni tirati su da una forza misteriosa che ne annulla la gravità fisica, gli altri tirati giù di peso da demoni impietosi, emersi dalle viscere della terra.
Roma, piazza del Campidoglio
Michelangelo
VEDUTA D’INSIEME (iniziata nel 1537)
Roma, palazzi Vaticani, cappella Paolina
Michelangelo
CONVERSIONE DI SAN PAOLO E CROCIFISSIONE DI SAN PIETRO (1542/1545)
Affresco, altezza mt. 6,25 – larghezza m 6,61
Finito di lavorare nella Sistina Michelangelo passa a dirigere i più importanti lavori sulla “piazza” romana dopo la fabbrica di San Pietro, come la sistemazione del Campidoglio, il già ricordato completamento del palazzo Farnese, la fortificazione dei borghi e la decorazione della cappella privata del papa, la cappella Paolina. Con l’avanzare dell’età Michelangelo porta più a fondo il suo “attacco” alla materia, e qui, nella decorazione della Paolina, si vede come le figure inizino a perdere massa plastica, nonché colore, e tendano a risolversi sempre più nel tracciato lineare che ne delimita il perimetro e lo spazio fra l’una e l’altra, ovvero nel disegno. L’affresco della cappella Paolina è l’ultimo lavoro di Michelangelo pittore. Da questo momento fino alla morte il genio si occupa prevalentemente di architettura. È la logica conseguenza del suo assunto poetico. La ricerca artistica sulla morfologia della spiritualità umana è giunta alla sua ultima formulazione: l’identità fra spirito e forma architettonica, puro spazio che si fa pura geometria.
Il 18 febbraio del 1564 Michelangelo si spegne. Ha quasi novant’anni. A lui e solo a lui Dio ha voluto concedere di restare vivo per vedere tutta la storia del trionfo e della caduta della grande stagione rinascimentale italiana. Il genio muore sul lavoro. La Pietà Rondinini è l’ultima opera, quella che completa la sua parabola professionale e umana.
Roma, basilica di San Pietro
Michelangelo
PROGETTO, ESTERNO E INTERNO DELLA CUPOLA (progettata fra il 1558 e il 1561)
Il disegno del progetto è del 1558 ed è conservato ad Ille, nel Musée d’Art et Histoire
Michelangelo è ritenuto generalmente un maestro classico. In realtà con lui si matura definitivamente una nuova concezione dell’arte: non più rappresentazione della natura, ma rappresentazione di momenti esistenziali. È la più lontana, autorevole e cosciente concezione moderna dell’arte. L’arte non è il risultato finale di un processo di intercettazione su un piano sezionante di raggi visivi provenienti dall’esterno, è un processo di visualizzazione legato alle reazioni dell’artefice insorte durante lo svolgimento dell’esperienza creativa; non è applicazione di una teoria e neanche pratica professionale, è esistenza in atto.
Questa idea dell’arte come esistenza in atto non è propria di Michelangelo; nuovo in Michelangelo è il superamento del concetto di opera come oggetto finito. Per lui le opere sono solo le testimonianze, le tappe dell’esistenza stessa e l’opera si potrà dire finita solo con la fine dell’esistenza, ovvero con la morte.
L’arte classica è conoscenza, quella di Michelangelo è azione; la natura dell’arte classica è intellettuale, la natura dell’arte michelangiolesca, moderna, è morale, si giudica dagli atti e non dai dati. Essa sarà tanto più valida quanto più vero sarà il comportamento, autentico e coerente. Con Michelangelo dunque, e qui sta la radice di tutto il pensiero moderno sull’arte, l’artista non si giudica in base alle verità che afferma, ma in base al significato che dà alla propria esistenza. Ciò che conta non è la cultura né il profilo professionale, ma la genuinità degli atti: e ciò significa passare dall’opera alla persona, dal risultato all’intento, all’idea, al processo creativo.