CLASSICISMO E REALISMO SEICENTESCHI, DUE PROPOSTE ANTITETICHE PER USCIRE DALLA CRISI MANIERISTA
IL REALISMO SEICENTESCO
FUNZIONE STRUMENTALE
VEROSIMIGLIANZA E REALISMO
CARRACCI E CARAVAGGIO: PIONIERI DEL SECOLO CHE VERRÀ
LA GALLERIA FARNESE
UT PICTURA POESIS, OVVERO ANALOGIA FRA ARTE E POESIA
IL COSTO DELLA GALLERIA
RELAZIONE DELL’INNOVAZIONE CARRACCESCA COL TARDO MANIERISMO
CONSEGUENZE: IL NUOVO VALORE DELL’IMMAGINAZIONE
SITUAZIONE STORICA: IL FENOMENO DELLA CONTRAPPOSIZIONE DI REGOLA E CAPRICCIO NELLA CULTURA ARTISTICA DEL TARDO MANIERISMO
IL TARDO MANIERISMO A ROMA
ARCHITETTURA TARDO CINQUECENTESCA
ANNIBALE CARRACCI PRIMA DELLA GALLERIA FARNESE
L’ULTIMO CARRACCI
LE CONTROTENDENZE NELLA ROMA DI FINE CINQUECENTO
LA FORMAZIONE DI CARAVAGGIO
LE PRIME TELE DI SOGGETTO STORICO-RELIGIOSO
IL REALISMO CARAVAGGESCO
CLASSICISMO E REALISMO SEICENTESCHI: DUE PROPOSTE ANTITETICHE PER USCIRE DALLA CRISI MANIERISTA
Roma, piazza Farnese
VEDUTA D’INSIEME
Il Seicento è il secolo del Barocco; la corrente barocca riprende, rafforza, rinnova la concezione umanistica dell’arte come mimesi, trasformando la rinascita del linguaggio classico in reinvenzione del classicismo. Dall’epoca precedente l’epoca barocca eredita la questione etica. Nel Cinquecento il problema fondamentale dell’arte era diventato la condotta dell’artista nei confronti del mondo, e non più, come nel Quattrocento, la sua conoscenza; nel Seicento svanisce la questione gnostica, rimane quella etica. A questa problematica si dà nuova soluzione; la nuova soluzione è la concezione dell’arte come retorica. La retorica è l’arte di spostare l’attenzione dai fatti alle parole (nelle arti figurative dai contenuti alle forme). La strada che porta all’eloquenza linguistica ha origine nel periodo manierista dove la fede nelle verità rivelate era venuta meno; nel periodo barocco si assiste invece ad un generale rinnovamento, nonché rafforzamento dell’ideologia religiosa. Il motivo è giustificato dal credere nella necessaria funzione della fede, fondata sulla convinzione che l’uomo non può accettare una vita terrena senza uno scopo, un esito in un mondo trascendente. Non ha importanza se il mondo divino sia vero o no, l’importante è confidare nella sua esistenza. Così per lo meno la pensa la maggior parte della gente, e l’arte barocca è fatta per le masse, non per pochi intellettuali.
La concezione dell’arte come retorica muta il fine strumentale dell’arte classica; si attinge alla cultura classica non già per mostrare com’è fatto il Creato, bensì per far sembrare vero un mondo che potrebbe anche non esistere; attraverso l’arte si vuole indurre l’osservatore a pensare vera una finzione anche se c’è il fondato sospetto che si tratti di una messinscena.
Nel Rinascimento la rappresentazione del Creato doveva far riflettere, rendere consapevoli; l’ordine ideale doveva indurre negli uomini un atteggiamento contemplativo, onde pervenire ad una reazione misurata, equilibrata, razionale. Nel barocco la rappresentazione del Creato deve far smarrire l’osservatore, lo deve sbalordire, incantare, rapire, dilettare, estasiare. Come? Ricorrendo ad immagini brillanti, ricche di movimento e fantasia. Manifestando attraverso l’arte il proprio modo di affrontare la realtà si vuole stimolare in chi guarda a comportarsi nello stesso modo in cui si comporta l’artista nel realizzare la sua opera: non è più importante sapere come è fatto il mondo, importante è sapere come affrontarlo.
Il nuovo indirizzo ha radici profonde. Il rinnovamento della fede dopo la crisi cinquecentesca spinge la Chiesa a riarmarsi e andare alla riscossa. La nascita della scienza empirica aveva gettato ombre sulle realtà scientificamente non dimostrabili, la diffusione del protestantesimo aveva minato il ruolo di guida della Chiesa verso la salvezza finale dell’umanità. Il Barocco è la riaffermazione del sodalizio fra arte e religione cattolica, arte e Chiesa, un antico sodalizio il cui bacino d’utenza è rappresentato dalla comunità intera e non dal singolo o da una classe. Infatti se il manierismo era arte di potere per il potere il Barocco è arte di potere per la massa.
Nel Seicento non c’è solo il Barocco, c’è anche il realismo. Dire che l’arte è sempre espressione di una determinata società di un determinato periodo storico non significa dire che tutti la pensano allo stesso modo, significa solo che è espressione dell’opinione dominante; ciò non esclude affatto un’attività creativa fondata su opinioni completamente opposte.
L’arte come retorica ha lontane ascendenze. Nella storia dei linguaggi visivi si parla di retorica per l’arte ellenistica, per l’arte della seconda metà del Quattrocento, in particolare per le opere di Melozzo da Forlì (1438–1494), Bramante (1444-1514), Perugino (1450-1523), Luca Signorelli (1445 c. – 1523), e l’ultimo Raffaello vaticano. All’esatto opposto in Lombardia, sull’esempio del Lotto (1480–1557 c.), si va originando un’arte concepita come muta testimonianza di fatti. Allo stesso modo in epoca barocca ad un’arte concepita come strumento dell’immaginazione si contrappone un’arte concepita come testimonianza visiva.
Nel nuovo quadro culturale che si va delineando alle soglie del Seicento, si pongono le basi per la separazione dell’arte dalla scienza. Infatti l’arte non avendo più, con il manierismo, la funzione di organizzare gli elementi costruttivi in modo tale da render giustizia dell’essere si concentra sul compito di orchestrare gli stessi elementi per il solo piacere degli occhi.
La funzione strumentale dell’arte nel Seicento non è più quella di spiegare la natura mediante le immagini (per questo ormai si sta sviluppando una disciplina autonoma, l’illustrazione), ma di stimolare forti emozioni, e le emozioni saranno tanto più forti quanto più vere sembreranno le più ardite fantasie.
Prima di passare all’analisi storica ci dobbiamo porre ancora una domanda: se l’arte barocca è visualizzazione dell’immaginazione come si spiega la sua tendenza alla verosimiglianza?
Scopo della retorica è persuadere, non provare. Ci sono molti modi di persuadere. Lo si può fare trascinando gli osservatori con l’enfasi del discorso figurato, oppure lo si può fare sbalordendo con l’impressionante evidenza della rappresentazione. Anche il realismo può essere considerato uno dei tanti modi di persuadere che un qualcosa di immaginario stia per accadere proprio qui, ora, davanti ai nostri occhi. Quindi anche se si cercherà di aderire con assoluta fedeltà al vero, lo si farà per impressionare maggiormente lo spettatore e non per il bisogno di dire tutta la verità, nient’altro che la verità, e così l’immaginazione sarà tanto più vissuta quanto più vera sembrerà. Dunque magniloquenza e realismo sono, come d’altro canto lo erano stati durante il periodo ellenistico, due aspetti della stessa concezione retorica dell’arte.
CARRACCI E CARAVAGGIO: PIONIERI DEL SECOLO CHE VERRÀ
I primi sintomi del nuovo corso dell’arte emergono già allo scadere del Cinquecento nell’opera di due pittori, il Carracci (1560-1609) e il Caravaggio (1571-1610).
Stando allo stile il Carracci e il Caravaggio sembrano due artisti distantissimi tra loro, e infatti lo sono. Ma la differenza fondamentale tra i due non sta tanto in una diversa concezione dell’arte, quanto piuttosto in una diversa condotta artistica. Il Carracci ricorre alla cultura classica per dar vita ad immagini brillanti il cui unico scopo è quello di creare ritmi e assonanze cromatico-formali per indurre l’osservatore ad evadere nell’immaginazione; il Caravaggio ricorre alla cultura sperimentale per indurre l’osservatore ad immergersi dentro la realtà e viverla in tutta la sua verità, in tutta la sua violenza, onde approfondire il suo impegno nel mondo concreto. Caravaggio e Annibale Carracci non rappresentano dunque tanto due concezioni diverse della natura strumentale dell’arte, ma due modi diversi di intendere il loro impegno di pittori. Di fronte al soggetto, natura o storia che sia, per il Caravaggio il pittore deve essere un muto testimone, per il Carracci invece deve essere un’interprete libero di inventare, senza tuttavia rappresentare l’impossibile (intendendo per impossibile le bizzarrie sofistiche dei manieristi). Per il Carracci l’artista si deve distaccare dal mondo terreno per attingere alla propria immaginazione, per il Caravaggio l’artista deve affrontare la realtà e viverci dentro, astenendosi dal commentarla e giudicarla. Il dibattito interno all’arte si sposta così definitivamente dal piano della conoscenza a quello dell’etica: da questo momento in poi l’arte non sarà più rappresentativa dell’essere, ma rappresentativa di un modo di essere nel mondo.
Queste le premesse. Ma andiamo per ordine cominciando a vedere cosa succede a Roma negli ultimissimi anni del Cinquecento.
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Annibale Carracci
ERCOLE AL BIVIO (1595 c.)
Olio su tela, altezza mt. 1,67 – larghezza mt. 2,37
Roma, palazzo Farnese
Annibale Carracci
DECORAZIONE DELLA VOLTA DELLA GALLERIA DI PALAZZO FARNESE (1597/1600)
Affresco
Il XVI secolo si chiude nella capitale con un avvenimento di portata rivoluzionaria. In un ambiente dove ormai non succede più niente di nuovo, proprio allo scadere del Cinquecento, un artista bolognese, Annibale Carracci, apre il nuovo corso dell’arte occidentale.
Siamo nel 1596, il cardinale Odoardo Farnese (1573–1626), successore di Alessandro (1520-1589), l’anfitrione di Caprarola, morto da sette anni, decide di far affrescare la galleria posta al primo piano del palazzone romano, fatta appositamente allestire per raccogliervi la ricca collezione di dipinti e sculture antiche di proprietà della famiglia.
La galleria Farnese strutturalmente è molto semplice: non è altro che un parallelepipedo coperto a botte. Funzionalmente è un salone, ma con una prerogativa che lo rende molto speciale: non si trova in un edificio come tutti gli altri, ma in un concentrato di prestigiose testimonianze artistiche. Nel palazzo Farnese infatti vi avevano messo mano Antonio da Sangallo il giovane (1484-1546), Michelangelo (1475-1564), forse Bramante, nonché il Vignola (1507-1573): il meglio del professionismo cinquecentesco. Questa eccezionalità impone al proprietario l’obbligo di trovare maestranze all’altezza della situazione.
Per eseguire il lavoro Odoardo si rivolge a maestri di comprovata affidabilità, in grado di assolvere al compito in tempi rapidi e con uno stile il più vicino possibile a quello promosso dalla famiglia Farnese negli ultimi anni. Per andare sul sicuro il cardinale punta nuovamente sul fantasioso manierismo emiliano, visti e considerati gli ottimi risultati che aveva dato nella villa di Caprarola. La scelta ricade su uno dei Carracci, il più giovane ed estroso: Annibale.
Quando Annibale assume l’incarico ha 36 anni, ma già parecchie esperienze da pittore alle spalle; inoltre ha insegnato arte insieme al fratello Agostino (1557-1602) e al cugino Ludovico (1555–1619) nella scuola da loro fondata: l’Accademia dei Desiderosi.
L’Accademia dei Desiderosi è una scuola d’arte, molto simile alle accademie artistiche attuali. In essa oltre che a lezioni di tecnica vengono impartite lezioni di cultura generale, come scienze matematiche, letteratura, storia e filosofia; viene fondata da Ludovico Carracci nel 1580. I suoi docenti sono gli stessi Carracci: tutti insegnano le discipline artistiche; Agostino, il più colto, anche quelle umanistiche. L’accademia dei Carracci non è un’eccezione, ma la regola. All’epoca della sua fondazione a Bologna è tutto un fiorire di accademie. Quella dei Desiderosi, così chiamata in riferimento al desiderio di imparare l’arte con l’obiettivo di non metterla da parte, si distingue da tutte le altre per la diversa politica seguita. Infatti i rettori, ma soprattutto Ludovico, contrariamente a quanto avviene negli altri istituti, non impone agli allievi l’imitazione dei grandi maestri del Cinquecento, ma fa copiare loro la natura dal vero. Lo scopo, diversamente da quanto si potrebbe essere indotti a pensare, non è quello di imprimere un nuovo corso alla pittura, orientandola ad abbandonare il linguaggio classico in favore di un linguaggio realistico, bensì quello di liberare il linguaggio dei grandi maestri del Cinquecento dalle aggiunte dei manieristi. Cioè, in altri termini, si vuole recuperare il linguaggio dei sommi artefici cinquecenteschi attraverso un’operazione di decantazione della pittura dell’epoca dalle distorsioni culturali operate dagli operatori attivi allo scadere del secolo, dunque una vera e propria operazione di recupero dei valori classici, di altissimo profilo culturale.
Nel 1585 l’accademia dei Desiderosi si trasforma in quella degli Incamminati: il nome questa volta fa riferimento al fatto che ormai il desiderio di imparare ha lasciato il passo all’esercizio del mestiere, fondato su un solido bagaglio culturale e tecnico. Lungo tutto l’arco d’esistenza delle due accademie, Annibale ha dato sempre segni di mal sopportazione nei riguardi dell’impegno didattico. Al contrario del fratello e del cugino non è un tipo metodico, né ama molto teorizzare l’arte. A lui piace dipingere, farla l’arte non parlarne, realizzare opere non progettarle. Cosicché a 25 anni lascia definitivamente l’insegnamento per dedicarsi completamente alla bottega.
Tornando alla galleria, benché i lavori impegnano Annibale a partire dal 1596, l’artista si trova a Roma già da un anno, e sempre al servizio di Odoardo. Per lui attende alla decorazione dello studiolo, il camerino Farnese, sito al piano terra del palazzo. Il dipinto più pregiato di questo ciclo decorativo è il quadro noto con il titolo di Ercole al bivio, oggi esposto al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli. In questa tela gli studiosi vedono il preludio linguistico alla ben più impegnativa decorazione della galleria.
A Roma Annibale ha la “folgorazione sulla via di Damasco”. All’improvviso decide di cambiare rotta. Abbandona il naturalismo della sua prima maniera e abbraccia la causa del classicismo. La svolta si spiega con l’improvvisa, inaspettata, travolgente vocazione insorta a contatto con il mondo classico rinascimentale, di cui Roma è il centro. Suo angelo ispiratore è Raffaello (1483-1520).
Questa scelta lo pone subito in antitesi col Caravaggio, ma in compenso lo riavvicina ai parenti. Tuttavia la sua adesione all’idealismo non è un’erudita assunzione di forme pagane per contenuti cristiani, bensì entusiasmante, sconvolgente riscoperta del linguaggio classico. Questa scelta si rivela fondamentale non solo per lui, ma per tutta l’arte del suo tempo. Comunque ciò non basta a salvarlo dal destino che lo attende.
Il progetto iniziale della galleria prevede tematiche legate ai fasti della famiglia: praticamente si ripropone la decorazione della villa di Caprarola. Ma prima di dar luogo ai lavori, non si sa bene per quale motivo, forse ispirato dal matrimonio del nipote Ranuccio (1569–1622), Odoardo ci ripensa e decide di dedicare l’intero ciclo all’amore degli dèi.
Finalmente nel 1598 partono i lavori. Annibale chiama suo fratello Agostino a dargli una mano, ma tra i due è subito scontro: il dotto Agostino mal sopporta l’impostazione sbrigliata dettata dall’estroso fratello. I contrasti cessano dal momento in cui Agostino fa ritorno a Bologna. A Roma restano con Annibale alcuni giovani allievi, due dei quali diventeranno in seguito fra i massimi protagonisti del Barocco romano: il Domenichino (1581-1641) e il Lanfranco (1582–1647). Dopo due anni dall’inizio dei lavori la volta è terminata. Riprenderanno qualche mese dopo con la decorazione delle pareti, per chiudersi definitivamente nel 1602.
Con la decorazione della galleria Farnese Annibale Carracci compie il salto di qualità. Infatti in quest’opera non si tratta più di liberare dalla pittura ammanierata l’insegnamento dei maestri del Cinquecento, il Correggio (1489 c. – 1534), primo fra tutti, e Tiziano (1488 c. – 1576), ma si tratta di rifondare la grande pittura classica sulla base del loro insegnamento, ricominciare a dipingere utilizzando quanto di più adatto c’è nei mezzi e nei modi espressivi dei grandi maestri, per riportare la pittura allo splendore di una volta. Fine di questa “restaurazione” è creare immagini smaglianti, belle a vedersi, edificanti, per ottenere una reazione di smisurata ammirazione, non già la conoscenza del Creato: l’arte dunque appartiene alla sfera della comunicazione, non della natura.
Non è una trovata assoluta: in ciò Annibale è stato preceduto dal Correggio. Nuova è l’adozione di un linguaggio universale. Per il Carracci la cultura classica è qualcosa di generale, è un’idea, non è come per l’Allegri (Correggio) una cultura fondata sui dati storici di Raffaello e Leonardo (1452-1519). Nel Correggio c’è ancora la concezione manieristica del linguaggio artistico come lingua selezionata, critica; nel Carracci non c’è più selezione, la scelta è diventata ormai fra linguaggio classico e anticlassico.
Attraverso l’uso della prospettiva, elemento principe del linguaggio classico, Annibale non cerca di mostrare come ogni singola creatura sia in proporzione col tutto, né se ne serve per spiegare all’osservatore la vicenda rappresentata, bensì la utilizza per stupirlo facendogli credere reale ciò che è frutto solo di un’abile messa in scena, frutto di una tecnica figurativa scaltra che riesce a far figurare uno spazio tridimensionale laddove c’è solo una superficie dipinta. Per il resto trascina lo spettatore nell’estasi con la brillantezza dei toni, lo confonde con l’intreccio dei corpi, lo fa perdere in lontananze atmosferiche indefinite. Scopo di tutto ciò? Il semplice piacere degli occhi.
Il classicismo con tutto il suo carico di verità viene ripreso e rivitalizzato per porlo al servizio dell’immaginazione. E si badi bene che così facendo non è che si degrada il patrimonio di immagini classiche, anzi, al contrario, si riqualifica, proprio nell’istante in cui lo si reinveste per creare tutta una serie di nuove, importanti sensazioni; non si vuole trascendere l’esperienza per cogliere l’idea assoluta, si vuole, invece, vestire l’idea assoluta con gli abiti dell’esperienza per rendere percettibile l’intelligibile; e si vuole fenomenizzare l’intelligibile per arrivare agli occhi di tutti e non solo dei colti: quella seicentesca è un’arte per la massa.
Il modello ispiratore della volta è palese. Ci sono richiami alla Cappella Sistina nelle figure di ignudi e telamoni, nonché, in senso più generale, nella struttura anatomica dei singoli personaggi, quindi ci sono richiami a Raffaello, in particolare agli affreschi della Farnesina, nella invenzione dei quadri che imitano sé stessi. Ma la novità bruciante sta nella prevedibile combinazione, alla quale però nessuno aveva mai pensato prima, di unire la fantasia creativa, propria del manierismo, al Classicismo come fonte d’ispirazione filologica, proprio dei maestri cinquecenteschi.
A partire dal Mantenga (1430 c. – 1506) il mito è un soggetto che, più di quello sacro, permette all’artista di sconfinare nella fantasia. Ma nel Rinascimento non si era mai arrivati a disgiungere il fine morale da quello puramente estetico; il mito come il monumento ci rimanda ai valori eterni dell’uomo; la forma non è apprezzabile indipendentemente dal contenuto. Al contrario Annibale disgiunge la forma dal contenuto; la forma diventa il contenuto stesso dell’immagine artistica. Non ha importanza sapere cosa viene raffigurato, ciò che conta è il piacere che la raffigurazione procura all’osservatore. La pittura diventa un modo per agire sull’animo umano senza il bisogno di rifornirlo di informazioni vere; l’obiettivo è la sensibilità di chi guarda e le sensazioni trasmesse dalla raffigurazione non mutano con la conoscenza del contenuto.
UT PICTURA POESIS, OVVERO ANALOGIA FRA ARTE E POESIA
Nella galleria le immagini hanno lo stesso ruolo che hanno le parole in una poesia, e cioè suscitare, stimolare, rendere visibile l’immaginazione. Non si tratta, come nel classicismo rinascimentale, di rendere visibile quel che si pensa essere, ma utilizzare quel che si pensa essere per dar corpo alla libera interpretazione dei temi d’immagine. All’artista si riconosce dunque la libertà d’immaginazione, così come la si riconosce al poeta, e, come la poesia, l’arte sta nel ritmo con cui si succedono le singole figure nell’orchestrazione generale dell’immagine, il cui unico scopo è quello di piacere: si mettono insieme forme e colori al solo fine di creare rime visive. A questo assunto è facilmente obiettabile che così facendo l’arte si occupa solo della forma. Ma è proprio questo ciò di cui d’ora in poi si dovrà occupare l’arte: la forma. Nelle mani di Annibale l’arte diventa un mezzo per procurare piaceri ludici, una sorta di teatro virtuale. Vediamo allora come funziona questo teatro virtuale.
Roma, palazzo Farnese
Annibale Carracci
IL TRIONFO DI BACCO ED ARIANNA
Particolare della decorazione della volta della galleria di palazzo Farnese
Affresco
Al centro del salone si trova l’affresco con l’episodio delle nozze di Bacco con Arianna. I due sposi siedono su due carrozze dorate dalle forme ridondanti, trainate da una coppia di capre, quella di Arianna, e da una coppia di tigri, quella di Bacco. La vicenda viene rappresentata come un corteo festante che sta per attraversare un palcoscenico. La macchina scenica della rappresentazione carraccesca ha una sua logica funzionale. Lo sguardo entra nel riquadro scivolando lungo i piani prospettici delle quinte laterali e del terreno dove poggia l’intera schiera di personaggi, al di là della folla si riesce ad intravedere uno sfondo paesaggistico; fra questi quattro punti di orientamento prospettico si svolge il fregio col baccanale. Quando l’occhio raggiunge le figure danzanti allora inizia a perdersi fra il groviglio delle linee, quindi viene stordito dalla contrapposizione delle tinte smaltate. È qui che comincia il linguaggio barocco, in questo smarrimento dell’occhio provocato dall’accavallamento delle figure. Una volta entrati nell’intreccio dei contorni non ci si chiede più quale porzione di spazio occupano le singole figure, dove finisce l’una e dove inizia l’altra, cosa rappresentano; tutto viene dimenticato, tutto passa in secondo ordine per cedere al rapimento estatico, al senso di meraviglia creato dal ribollire dell’insieme.
L’arte del Carracci potrebbe sembrare, ma non lo è, il ritorno ai principi informatori del pensiero artistico umanista. È, invece, la rivalutazione artistica dell’immagine naturalistica e della sua interpretazione classicista sulla base di nuovi principi estetici. Nella volta l’artista rilancia la forma classica, ma scevra da ogni rigore filologico, da ogni schema metafisico, ogni regola accademica.
Resta da chiarire un punto però: come mai se per Annibale il fine dell’arte è quello di creare libere interpretazioni su qualsivoglia tematica non ricorre ad un linguaggio diverso da quello classico?
Ma perché a Roma il problema principale interno al discorso artistico di quest’epoca è proprio quello linguistico, cioè la rivalutazione di un linguaggio universale, indipendente dalle interpretazioni dei singoli artisti, fondato sul concetto di arte come fonte impersonale. Allora le scelte non possono che oscillare fra due soluzioni opposte: classicismo o realismo. Carracci che è stato realista sceglie di essere classicista.
La galleria dimostra come l’inconoscibilità dell’arte attraverso la natura o le interpretazioni ritenute esemplari non possono far decadere l’importanza artistica delle immagini naturalistiche e classiche, dunque l’attualità dei linguaggi universali su quelli individuali, di quelli oggettivi su quelli soggettivi.
Quanto costa al cardinale la decorazione della galleria? 10 scudi al mese più vitto e alloggio, cioè pane e vino più una stanza all’ultimo piano del palazzo, sotto il tetto, il piano della servitù: niente!
Per Annibale sono cinque anni d’inferno, in cui oltre alle ristrettezze economiche deve mettere in conto i deludenti rapporti con il committente e la rottura con il fratello Agostino.
RELAZIONE DELL’INNOVAZIONE CARRACCESCA COL TARDO MANIERISMO
Il merito più grande che va ad Annibale è quello di aver intuito proprio in quest’opera la soluzione per uscire dalla situazione di ristagno culturale in cui versa l’intera Europa. Egli capisce che per fare un passo avanti occorre ripensare alle problematiche che dominano il dibattito del momento. Non si tratta più di interpretare, commentare e confrontarsi col linguaggio dei grandi maestri del Cinquecento, quanto piuttosto reinterpretare la cultura figurativa classica nella sua globalità, e non nella particolare versione di quello o quell’altro autore rinascimentale.
L’arte di fine secolo è un’arte povera di fermenti, è un’arte fatta per pochi eruditi, non esce dalla cultura manieristica, che è una cultura intellettualistica e raffinata, costruita su basi critiche di interpretazione e commento dei maestri del primo Cinquecento. Inoltre è un’arte che si perde facilmente in sterili poetiche di contrapposizione fra una volontà incline a definire nuove regole e una volontà spinta, di contrappunto a disattenderle. Il suo scopo spesso rimane esclusivamente legato al fatto di suscitare meraviglia e stupore nell’osservatore facendo leva anche sui contenuti, alquanto inverosimili, stravaganti. Il mito non è più un tema che aiuta a prendere coscienza del passato eroico, ma un modo per evadere dalla realtà e sbalordire. Nella decorazione della volta Annibale supera con un sol colpo tutte queste problematiche; riporta alla comprensione della gente comune il linguaggio espressivo attraverso la proposizione dei temi più classici, nei chiari termini di un codice universale, riconoscibile da tutti, dotti e volgo, la parlata rinascimentale.
Annibale non vuole cancellare la libertà creativa propria dei manieristi, la vuole semplicemente conciliare con la necessità di creare un’arte poco problematica, comprensibile ad ogni livello culturale. L’arte del Carracci nasce dunque come reazione al formalismo tardo manierista, ma, al di là di esso, come risposta ad una crescente esigenza di semplificazione del linguaggio manierista, divenuto di difficile comprensione ai più, riservato solo a pochi colti capaci di intenderlo. Ma non è solo questo.
Il pittore trova la sintesi fra la tesi classicista che vuole ricondurre l’arte ai solidi principi classici e l’antitesi anticlassicista che vuole l’arte libera da ogni schema a priori. Cosicché il linguaggio carraccesco è fatto di parole strutturate classicamente, ma il suo tessuto connettivo è fondato sulla loro libera associazione.
CONSEGUENZE: IL NUOVO VALORE DELL’IMMAGINAZIONE
Le conseguenze immediate della nuova impostazione carraccesca sono di vasta portata. L’immagine artistica non viene più considerata il punto di arrivo di un sistema di relazioni con il mondo naturale, ma il punto di partenza. Questo significa che l’opera d’arte dipende dal modo in cui vengono messi insieme i vocaboli visivi, e non dal modo in cui essi si trovano già aggregati nell’immagine naturale.
Ci sono tanti modi per mettere insieme le parole di un discorso, dipende dal discorso che si intende fare. Se ci si propone come fine quello di allietare l’uditore allora occorre affidarsi alla fantasia, se lo scopo è quello di richiamare l’uomo alle proprie responsabilità allora si può seguire un criterio realistico, se l’obiettivo è invece il controllo dei fenomeni, allora va invocata la ragione. Nei primi due casi c’è l’arte a pensarci, nel terzo c’è la scienza.
Quanto detto spiega il sorgere dei cosiddetti generi. C’è il genere sacro, quello storico, il mitologico, la natura morta, ognuno caratterizzato da uno stile preciso; ad esempio: realistico nei quadri dove compaiono frutta e verdura, di fantasia dove abbonda la mitologia decorativa.
Il Barocco sceglie il criterio della verosimiglianza. Il mondo dell’arte è un mondo fatto esclusivamente di immagini; immagini artistiche e immagini naturali hanno lo stesso identico valore. Stante l’universalità dell’immagine nel mondo puramente visivo dell’arte tutte le immagini posseggono la stessa importanza e possono figurare le une accanto alle altre. Non ci sorprenderà dunque più di tanto veder comparire in un complesso scultoreo, accanto a statue di marmo rocce naturali, sfondi paesaggistici reali, brani di natura reali: cos’altro è l’ambientazione naturale se non la testimonianza dell’avvenuto riconoscimento di questa parità di valori.
Non ha neanche più senso distinguere il passato in antichità classica prima della rivelazione di Cristo e antichità cristiana dopo la rivelazione di Cristo. Il mondo classico è un mondo poetico chiaramente perduto, ci rimangono di esso solo i resti archeologici, le testimonianze di una cultura passata, dunque lo si può ricostruire solo con l’aiuto dell’immaginazione. Come immagini del passato, tanto la classica che la cristiana hanno identico valore e possono figurare insieme a suppellettili e cornici.
Ma l’immaginazione barocca non è, come quella rinascimentale, il mezzo a cui far ricorso per svelare il mistero dell’essere, per dire che così è la realtà. Il classicismo barocco non ha la pretesa di spiegare com’è fatta la natura, si limita a renderla immanente, presente nello stesso tempo, nello stesso spazio dell’osservatore. A questo modo di raffigurare si ricorre per il piacere di vedersi proiettati in mondi e situazioni irreali, cosicché il distacco, il diaframma che separa l’arte trascendente, quella classica, quella universale, dalla contingenza, dal presente, nell’arte barocca si annulla.
Stoccolma, castello di Skokloster
Giuseppe Arcimboldi
RITRATTO DI RODOLFO II COME VERTUNNO (1590 c.)
Olio su tavola, altezza cm. 70,5 – larghezza cm. 57,5
Vienna, Museo di Storia dell’Arte
Giuseppe Arcimboldi
ALLEGORIA DELL’INVERNO (1563)
Olio su tavola, altezza cm. 67 – larghezza cm. 52
A partire dalle due concezioni opposte di Piero della Francesca (1410 c. – 1492) e del Pollaiolo (1431 c. – 1498) uno degli argomenti ricorrenti nella cultura rinascimentale è quello sulla priorità fra teoria e prassi. Cosa è più importante in un’opera d’arte la teoria o la prassi?
Per artisti come Piero della Francesca e il Mantenga la teoria precede e guida la prassi. Per il primo il principio teorico si identifica nella razionalità geometrica, per il secondo si identifica nella cultura antica, nella perfezione ideale delle testimonianze classiche. Per artisti come il Pollaiolo, il Lippi (1406-1469) e il Verrocchio (1435-1488) invece la prassi precede la teoria. Per tutti costoro la pratica operativa si identifica con l’esperienza che l’artista fa della natura o della storia lavorando. Con i neoplatonici la prassi si identifica con l’esistenza stessa dell’artista: tale è infatti per il Botticelli (1445-1510), per Leonardo e per Michelangelo. C’è chi come Raffaello tenta di equilibrarle, ma a dispetto di ogni sforzo profuso i due momenti vanno sempre più divergendo: è lo stesso divario che c’è fra la lingua che si studia sui libri e la lingua che effettivamente si usa per scrivere romanzi o poesie. Cosicché la divergenza fra teoria e prassi produce sul finire del XVI secolo opere come i trattati di architettura, tutta teoria e niente prassi, e opere come paesaggi e nature morte, tutta prassi e niente teoria. A loro volta i trattati, che hanno la pretesa istituzionale di dettare regole, generano per reazione il capriccio, ovvero l’anti-teoria. A generare il capriccio è la fantasia, però non la fantasia del Dosso (1489 c. – 1542), presa in prestito dall’Ariosto (1474–1533), bensì la fantasia come antilogica e anti-regola. Ma per fare un’opera che sia tutta il contrario di un’opera logica ci vuole altrettanta logica che farne una in piena regola, dunque l’anti-logicità del capriccio dimostra l’universalità della logica.
A foraggiare il capriccio non può che essere l’allegorismo, il “furore” che lascia all’artista la più ampia libertà d’invenzione, quindi l’ornato a grottesche in cui la bizzarria diventa legge, nonché l’arte proveniente dalle Fiandre con le sue eccezioni alle regole controriformiste.
Tra gli esempi più noti di “capricci” figurano i famosi dipinti a doppio senso e i ritratti fatti con l’assemblaggio dei più svariati oggetti dell’Arcimboldo, artista lombardo che risponde al nome di Giuseppe Arcimboldi, nato nel 1527 e morto nel 1593 all’età di 66 anni.
Fanno parte della stessa categoria le cosiddette anamorfosi, vale a dire immagini che risultano deformate guardandole di fronte come si guarda normalmente un quadro, ma che riacquistano la loro regolarità se le si osservano in prospettiva.
I capricci non interessano solo la pittura, ma anche la scultura. Per vedere dei capricci in scultura non bisogna cercare lontano da Roma, basta andare a Bomarzo, vicino Viterbo, e far visita al parco della villa Orsini. Qui si fa l’incontro con mostri, draghi e mascheroni di peperino, il cui fine più che quello di spaventare i visitatori è quello di sorprenderli e stupirli. Ci sono anche capricci in architettura, basta andarsi a fare una passeggiata a piazza di Spagna, salire a Trinità de’ Monti attraverso la scalinata per vedersi comparire, una volta arrivati in cima, il palazzotto Zuccari, con le sue porte e finestre fatte a mo’ di mascheroni. Spesso i Capricci non sono opere di grande contenuto, ma la loro presenza in un determinato periodo è indice di un clima culturale restrittivo della libertà di espressione, quale a tutti gli effetti è quello di fine Cinquecento.
Roma, Galleria Borghese
Scipione Pulzone
RITRATTO DI GENTILDONNA (metà XVI secolo)
Olio su tela
A Roma, in piena controriforma, il manierismo diventa accademia. L’ultima espressione delle libertà rinascimentali muore insieme a Michelangelo. Nonostante le commissioni fiocchino in seguito alla nuova politica culturale controriformista della curia capitolina per gli artisti che lavorano nella situazione romana della seconda metà del Cinquecento diventa veramente difficile operare liberamente. In questo clima di contrazione si assiste ad una produzione artistica abbondante ma di scarsa qualità. Impera nella capitale un descrittivismo naturalistico finalizzato alla resa decorosa della rappresentazione sacra.
Gli astri del momento sono i fratelli Zuccari, Taddeo (1529-1566) e Federico (1539-1609), e il Cavalier d’Arpino (1568-1640). Il modello dichiarato degli Zuccari è Michelangelo, ma il loro impegno si limita all’enunciazione normativa del neoplatonismo michelangiolesco.
Come era logico attendersi il michelangiolismo provoca l’antimichelangiolismo. Alla ricerca tormentata di Dio attraverso il superamento dei limiti della natura umana, si oppone il quieto devozionismo osservante e fiducioso; alla via personale, il sentiero tracciato dalla Chiesa.
Sarebbe lungo l’elenco degli artisti che s’inquadrano in questa cornice. Ne basta menzionare due per tutti: il già ricordato Cavalier d’Arpino e Scipione Pulzone (1545–1598 c.), tanto per citare i più quotati.
Del Pulzone si possono ricordare i ritratti, ovvero quel che di più originale è rimasto di lui. In essi, come in quello di gentildonna della Galleria Borghese, il pittore oppone all’ideale astratto di Michelangelo l’obiettività ottica dei fiamminghi: in sostanza un rinnovato iconismo sociale, puntiglioso e minuzioso nei particolari.
Perugia, duomo
Federico Barocci
DEPOSIZIONE DALLA CROCE (1569)
Olio su tela, altezza mt. 4,12 – larghezza mt. 2,32
Lo stretto controllo della Chiesa sull’arte, limitando la libertà espressiva, produce una drastica riduzione della diversità e dell’originalità dei manufatti. Ciononostante, anche in questa situazione poco favorevole, c’è sempre chi non può fare a meno della creatività. Questa in un clima repressivo si esercita a vari livelli di temerarietà. Pochissimi sono gli artisti che coraggiosamente riescono ad emergere almeno un po’ dal piattume generale. Uno di questi è Federico Barocci (1535 c. – 1612), poco audace ma degno di rispetto per aver avuto il coraggio di mantenersi coerente con il suo modo d’essere.
Il Barocci propone come riferimento culturale Raffaello (più precisamente Correggio) al posto di Michelangelo. Federico è il rappresentante di una nuova prorompente religiosità, la religiosità di san Filippo Neri (1515-1595), una religiosità che rifugge dalla comunicazione oratoria dei fasti del potere per intraprendere un colloquio più confidenziale, capace di toccare l’animo dei fedeli e spingerli alla devozione. Con metodo da filologo Federico analizza il meccanismo attraverso cui si esprime il sentimento religioso naturale del Correggio. Per prima cosa lo depura di ogni motivo profano e sensuale, quindi ne trasforma il fine allegorismo in facili allusioni di comprensione immediata. Precisa la prospettiva senza nulla togliere al suo effetto suggestivo, studia la composizione, trasforma le sfumature chiaroscurali in trasparenti trascorrimenti cromatici, e infine volge la grazia naturale del Correggio in gesti e fisionomie ponderatamente scelte sulla base dell’effetto desiderato. Si potrebbe dire che l’opera del Barocci risponde ad un programma di zelo religioso più che di espressione del sentimento. E infatti è proprio così! Lo conferma il successo che ha avuto. Per la cattolicità è molto più utile e opportuno in questo momento particolarmente nero promuovere quegli artisti la cui poetica non ponga problemi ma ribadisca le verità della fede. Il Barocci, infatti, oppone all’individualismo religioso del protestantesimo la devozione collegiale: e questo risponde agli intenti della Chiesa.
Venezia, Galleria dell’Accademia
El Greco
GUARIGIONE DEL CIECO (1570 circa)
Olio su tela, altezza cm. 50 – larghezza cm. 61
Spirito svisceratamente religioso, irrimediabilmente individualista è quello di El Greco (1541-1614), l’artista che più di ogni altro ha saputo spingersi nella deformazione espressiva della realtà in funzione della materializzazione del proprio modo soggettivo di vivere la trascendenza religiosa.
Domenico Theotokópoulos, questo è il suo vero nome, nasce a Fodele nell’isola di Creta (in quest’epoca sotto il dominio della Serenissima), nel 1541. Nel 1566, all’età di 25 anni, lascia la sua patria per recarsi a Venezia, ivi frequenta la bottega di Tiziano. L’incontro che da una svolta alla sua carriera avviene a Roma, nel 1570, ed è quello con Luis Castilla. È lui a raccomandarlo al fratello Diego, decano del capitolo della cattedrale di Toledo. Nella città spagnola dà vita alla sua strepitosa pittura; qui morirà nel 1614, all’età di 73 anni.
Giulio Cesare Mancini (1559 c. – 1630) racconta che durante il suo pontificato, dal 1566 al 1572, Pio V decise di far coprire le parti nude dei personaggi che affollavano il Giudizio Universale di Michelangelo. A detta di costui El Greco avrebbe affermato che se gli avessero affidato l’incarico, avrebbe saputo fare i ritocchi senza che nessuno si sarebbe mai accorto dell’aggiunta. Ciò fu interpretato come un atto di superbia e come tale indignò tutti gli estimatori del divino maestro, ma anche tutti gli amanti di pittura e tutti i colleghi pittori. Tale dichiarazione lo rese antipatico a tante persone dell’ambiente e gli compromise il lavoro in Italia, tanto che fu costretto a partire per la Spagna.
ARCHITETTURA TARDO CINQUECENTESCA
Roma, chiesa del Gesù
Vignola
INTERNO (1568/1571)
Roma, chiesa del Gesù
Vignola
FACCIATA (1571/1584)
L’attacco al michelangiolismo palesa l’attacco più generale ai valori laici del Rinascimento. In architettura questa linea si configura nell’abbandono dell’idea umanistica del tempio cristiano in favore di un ritorno alla struttura basilicale della tradizione. Ma l’arte che si sussegue nel corso della storia, come l’acqua dei fiumi che passa sotto i ponti, non è mai la stessa. Così il ritorno alla pianta ecclesiale presenta delle sostanziali differenze con quella delle origini storiche.
Prima ancora che il Maderno (1556-1629) sia chiamato a chiudere il cantiere secolare della Basilica Madre, l’ultima più sublime opera di Michelangelo passa per le mani di Giacomo della Porta (1532-1602), lombardo, e Jacopo Barozzi detto il Vignola, emiliano.
Spetta proprio al Barozzi (uomo giusto, capitato al momento giusto) fissare la nuova tipologia ecclesiale della controriforma. Questa ha il suo prototipo nella chiesa del Gesù, del 1571/1584.
L’opera, lo dice il nome stesso, è stata affidata al Vignola dalla potentissima Compagnia del Gesù, la quale vuole una chiesa destinata alla devozione collettiva e alla predicazione. Il Vignola risponde alla richiesta inventandosi un organismo a schema longitudinale che si vive come un organismo a schema centrale. La chiesa del Gesù appare all’interno come un’unica grande aula a forma di parallelepipedo coperta a botte, il cui spazio viene risucchiato dall’incombente vuoto della cupola e della grande abside di fondo, ampia quanto l’intera larghezza del presbiterio. L’esterno rivela però l’artifizio: infatti è ben visibile l’ala sinistra del transetto, nonché i corpi, alti la metà, delle navate laterali.
Il prodigio è stato possibile poiché il Vignola ricorda bene il Sant’Andrea di Mantova e il suo monumentale complesso di volumetrie in equilibrio. Ricorda anche come nell’Alberti (1404-1472) la sommatoria di tutti gli spazi facessero un unico grande spazio unitario. Ma al contrario del suo illustre predecessore l’architettura non è un simbolo dell’universo, bensì esprime il percorso della comunità cristiana verso la salvezza eterna enunciato in termini allegorici. A rendere più efficace il senso di trasporto verso Dio, il Baciccio (1639-1709), poi, sfonderà in modo illusorio il soffitto per mettere in contatto la terra col cielo, popolato di angeli e santi. Naturalmente per far sembrare più ampia la navata il Vignola non può far sporgere più di tanto le membrature architettoniche, cosicché all’articolazione degli elementi strutturali nello spazio succede la parete plastica: questa sarà il principio costruttivo fondamentale della chiesa barocca.
Roma, villa Giulia
Vignola
FACCIATA (1550/1555)
Caprarola, Viterbo, villa Farnese
Vignola
ESTERNO (1559)
L’antimichelangiolismo di Jacopo si era già palesato nella villa di papa Giulio III (1550-1555), villa Giulia, appunto. Qui il Vignola, memore forse delle ville cinquecentesche capitoline, rinnova la soluzione di un organismo aperto alla natura circostante, fulcro e forma elettiva ad un tempo.
Si può dire che il Vignola sia l’equivalente in architettura del Barocci: anche lui parte dal Correggio. L’antico è per Jacopo linguaggio che in virtù della sua storia e della sua idealità eleva a spazio soprannaturale lo spazio concreto dell’esperienza quotidiana. L’antimichelangiolismo attraverso le sue costruzioni si diffonde anche in provincia. Nel 1559 viene incaricato da Alessandro Farnese di portare a compimento la villa di Caprarola, iniziata dal Sangallo nel 1540.
Antonio l’aveva concepita, seguendo la moda del momento, come una fortezza: un poderoso prisma pentagonale che si erge sul punto più alto del crinale litico dove è arroccato il paesino di Caprarola. Jacopo non segue il suo predecessore, anzi dissolve la compattezza del progetto originario attraverso una serie di modifiche. Muove le superfici del prisma con arcature, architravi e lesene lievemente aggettanti, quindi antepone alla gran mole dell’edificio altrettante ampie rampe ricurve che fanno da invito ad un forte prospetto bugnato, col risultato di allontanare l’edificio verso l’orizzonte. Questo fa si che il blocco si leghi al paesaggio di fondo, costituito dal castagneto naturale che ricopre i rilievi emergenti alle spalle della villa. Dunque si passa da un edificio chiuso ad uno aperto, quasi un allentamento della tensione fra spazialità chiusa dello spazio umano e quella aperta dello spazio naturale.
Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi
Giacomo della Porta
FACCIATA (1589)
Nel 1564, sulla scena vaticana, rimasta orfana del suo ultimo mostro sacro del periodo d’oro dell’arte rinascimentale, Michelangelo, compare Giacomo della Porta. È il primo architetto lombardo di tutta una serie di architetti lombardi che sul finire del Cinquecento e gli inizi del Seicento concorrono a definire il volto della nuova Roma a cavallo fra l’epoca tardo manierista e l’epoca barocca. Con loro Michelangelo torna di moda: non è un caso che il compito di portare a termine la cupola del genio fiorentino tocchi proprio al della Porta, suo allievo. Il genio si era fermato al poderoso tamburo, Giacomo innalza le tre calottone di progetto, modificando il profilo dell’ultima, la più esterna, da emisferico ad ogivale.
Strano destino il suo; lo potremmo definire il “Terminator” degli architetti di fine secolo. Tuttavia, i suoi interventi, benché limitati, sono sempre decisivi, cioè quelli che danno il volto definitivo alle opere, il volto che ancora oggi tutti noi vediamo allorquando passeggiamo per le vie della capitale.
Sempre a lui è affidato il compito di portare a termine la facciata del Gesù, progettata dal Vignola, come sua è l’idea di trasformare la cupola. È sua anche l’idea di allargare leggermente la facciata e ridurne a puro disegno il movimento chiaroscurale programmato. La stessa cosa fa nella chiesa di San Luigi dei Francesi dove riduce alla purezza del tratto la ricerca dell’effetto chiaroscurale iniziale, ritardando con ciò l’insorgenza del nuovo linguaggio barocco.
Roma, basilica di San Pietro
Carlo Maderno
FACCIATA (1607/1612)
Anche Carlo Maderno è lombardo; anche lui è un michelangiolesco; anche lui ha il culto del disegno; anche lui concepisce la facciata in funzione dello spazio urbano antistante. Ma in San Pietro, prima, e in Santa Susanna, poi, ritrasforma l’essenzialità grafica del della Porta nella corposità plastica che sarà tipica dell’architettura barocca.
ANNIBALE CARRACCI PRIMA DELLA GALLERIA FARNESE
Roma, Galleria Colonna
Annibale Carracci
MANGIATORE DI FAGIOLI (1583/1584)
Olio su tela, altezza cm. 57 – larghezza cm. 68
Oxford, chiesa di Cristo
Annibale Carracci
MACELLERIA
Olio su tela, altezza mt. 1,85 – larghezza mt. 2,66
Molto più che l’architettura lombarda è la pittura padana a porsi in maniera polemica rispetto al linguaggio tardo manierista romano, ritenuto tronfio e scarsamente ispirato. Rientra nei termini di questa prospettiva anti-romana l’opera tracciata dai Campi e dal Passarotti (1529–1592), i quali a loro volta si allineano alla visione realistica che anima la pittura fiamminga e olandese della fine del Cinquecento. Tace la scultura. Fanno parte dello stesso fronte anti-romano anche i Carracci, i quali si collocano criticamente fra il manierismo di fine Cinquecento e il Barocco seicentesco. Ludovico e Agostino sono riformisti, mentre Annibale anticipa il nuovo secolo.
Anche se spesso è portato come esempio per didascaliche differenziazioni fra idealismo e realismo seicenteschi in realtà Annibale non è un artista idealista, non ricerca la forma ideale come farà invece il Reni (1575–1642) suo allievo. Cerca invece di vestire con forme classiche le elucubrazioni della mente: in ciò consiste il Barocco. In realtà egli è, insieme al Caravaggio, il primo artista a rispondere in modo nuovo e disinibito alle mutate esigenze espressive del tempo.
Prima di ricevere l’incarico dal Farnese, Annibale ha all’attivo parecchi lavori. Ma se si guarda a questi saggi si stenta a credere che siano opera sua, tanto sono diversi dalla decorazione della galleria. Nelle sperimentazioni giovanili la linea di Annibale non si discosta da quella seguita dal cugino Ludovico e dal fratello Agostino. Fra i primi saggi si distinguono, per originalità, i quadri di genere. In queste operette il punto di partenza dell’autore è lo stesso che in tutti gli altri specialisti del settore, dimostrare che l’arte non è nel soggetto, ma nella pittura, il risultato finale però è sorprendente. L’arte non è nell’interpretazione personale del linguaggio artistico, si trova nel linguaggio artistico indipendentemente dall’interpretazione personale. Questo significa tornare ad un discorso visivo fatto di termini universali, costituito da vocaboli che superano la visione particolare dei singoli, un linguaggio oggettivo e univoco. I primi quadri sono eseguiti nello spirito polemico che anima tutto il tardo manierismo padano. Si vuole fare un’arte che si mostri allineata alle posizioni della nuova tendenza etica, fondata sulla religiosità umile e praticante dei santi Neri e Borromeo (1538-1584).
Per capirlo analizziamo due fra i più noti dipinti di Annibale: il Mangiatore di fagioli e la Macelleria.
Del secondo soggetto esistono due versioni, di cui una, quella che ci apprestiamo ad analizzare, è conosciuta come la Grande Macelleria o Macelleria Oxford, e si trova appunto ad Oxford. La tela è stata eseguita a Bologna negli anni ottanta del Cinquecento e ritrae la macelleria del cugino Gianmaria. Il tono riprende le tele fiamminghe con le grandi scene di genere importate dalle Fiandre da Joachim Beuckelaer (1530–1575) e Pieter Aertsen (1508-1575).
La loro presenza ripropone l’antitesi fra costruzione fiamminga e italiana. Carracci, italiano, opta per la sintesi: ecco dunque spiegato come mai nei suoi quadri di genere la classicità si rivela, è immanente nelle immagini che riflettono la realtà quotidiana, quella fatta di cose particolari, episodiche, vicende senza alcuna importanza per la storia, usuali. Ma in che cosa si identifica la classicità per il Carracci giovane lo si vede a partire dal tema. Tipica della pittura di genere è la presa diretta di un momento di ordinaria esistenza, un momento del tutto occasionale, quale potrebbe essere appunto il portarsi il cucchiaio ricolmo di fagioli alla bocca o la spesa dal macellaio. C’è in questa istantanea la ripresa diretta della colorita realtà sociale di tutti i giorni, quella che fa da contorno all’altra realtà sociale, la realtà che fa la storia, quella il cui svolgimento determina il corso degli eventi. Però negli spaccati di vita quotidiana del Carracci c’è qualcosa che negli altri quadri dello stesso genere non compare: c’è la rivelazione, al di là dell’immagine pittorica, della struttura universale dello spazio; una struttura che conferma l’intuizione dei grandi maestri del Cinquecento, una struttura che ha l’aspetto della forma geometrica, ma che nello stesso tempo è una forma semplificata, senza complicazioni prospettiche. Si guardi a tal proposito il breve accenno di prospettiva nel mangiatore di fagioli, limitata alla sola inferriata della finestra, alla sinistra del dipinto, oppure l’ordito ortogonale su cui si struttura l’intera composizione nella Macelleria.
Dunque, stando a quanto esposto in queste opere, non sembrano esserci dubbi: per il Carracci la classicità si identifica con la misura, lo schema di verticali e orizzontali che strutturano lo spazio, la prospettiva che ci dà conto esatto della profondità occupata dalle cose e che relaziona il molteplice all’universale; elementi strutturali che Annibale non trae dall’osservazione del vero, ma dai veneti, dagli emiliani, dai romani. Tuttavia c’è una profonda differenza: l’idealismo carraccesco si fa immanente non già per spiegare l’essere universale, come avveniva nel Rinascimento, ma per far sembrare più vera una realtà virtuale, un’immagine, una finzione che si vuole rendere credibile: è il principio della retorica barocca.
Annibale Carracci con queste opere estende il concetto di classicismo. Questo non si rivela più solo nei grandi avvenimenti storici e nelle figure eroiche, ma anche nelle situazioni più semplici, contingenti. In altri termini amplia smisuratamente l’idea di classicismo, fino a comprendere quegli aspetti che prima venivano emarginati. Tutta la sua carriera verrà spesa a dimostrare questa tesi: la metrica classica riguarda la struttura dell’immagine, non quella della natura, ed è indipendente dai contenuti, sia tematici che tecnici. Fede ne fa egli stesso col suo impegno ad applicare questo principio in più direzioni, che vanno dall’affresco alla pittura su tela, dai soggetti allegorici a quelli sacri.
Roma, Galleria Doria Pamphili
Annibale Carracci
FUGA IN EGITTO (1603 c.)
Lunetta della villa Aldobrandini
Olio su tela, altezza mt. 1,22 – larghezza mt. 2,30
A dimostrazione di quanto testé affermato andiamo ad analizzare la tela semilunata con la fuga in Egitto. Finita la decorazione della galleria Farnese Annibale viene incaricato di dipingere sei grandi lunette per la cappella di palazzo Aldobrandini, al corso.
È il 1604 e l’artista inizia ad elaborare una nuova visione del paesaggio, un paesaggio che si fa protagonista assoluto della scena. La figura umana con le sue vicende diventa sempre meno importante; storia e personaggi entrano a far parte dell’ambiente alla stessa stregua di alberi, rocce, acqua, terra, cielo e pecore. Ancor più che in Giorgione (1477 c. – 1510), qui, in queste lunette, viene a perdersi ogni grandezza eroica. È il paesaggio tipico dell’Arcadia, quello che caratterizzerà tutto il Settecento, fino a sfociare nel paesaggio romantico: siamo all’ultimo canto del cigno. Dopo questa data Annibale non tocca più pennello. Cade in una devastante depressione che lo porta alla morte in cinque lunghi e dolorosi anni.
Della sua grandezza sono già consci i contemporanei; anzi, su di lui, i suoi epigoni, sostenuti dal Bellori (1615-1696), influente intenditore d’arte, uno dei più famosi critici del XVII secolo, fonderanno la “scuola bolognese”, da cui discenderanno molti fra i più rinomati artisti dell’epoca. Tutti riconobbero in Annibale un pittore pari a Raffaello, ma di questi assai meno fortunato. A suggello di tale similitudine, le sue spoglie riposano nel Pantheon di Roma, accanto a quelle del maestro urbinate.
LE CONTROTENDENZE NELLA ROMA DI FINE CINQUECENTO
Roma, via di Pallacorda
VEDUTA
Per niente d’accordo con la tesi dell’arte come immaginazione brillante e fugace del Carracci, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, dal luogo dove trascorre la sua infanzia, fonda l’antitesi alla concezione del bolognese interpretando l’operazione pittorica come testimonianza obiettiva: all’arte fantasia di Annibale, Michelangelo oppone la sua arte verità.
Dopo l’età classica greca l’attività creativa è stata sempre considerata un patrimonio culturale d’immagini; con Caravaggio si cambia: non è più cultura storica ma empirica. Il Merisi è dunque il primo artista, dopo i Greci dell’età classica, che pone le basi dell’arte nel linguaggio della natura e non nel linguaggio culturale tramandato. Per Caravaggio l’arte deve tendere al vero, ma anche per lui lo scopo ultimo dell’attività figurativa non è la conoscenza, bensì quello di dire le cose come stanno; non c’è giudizio, ma solo testimonianza. Si potrebbe obiettare che questa è scienza, non arte. Che l’arte caravaggesca sia per molti aspetti portatrice del nuovo spirito sperimentalista del secolo è fuori dubbio, ma la sua intenzione non è quella di descrivere i fenomeni, bensì quella di esprimerne il contenuto suggestivo.
Nonostante l’assunto per cui la pittura è una tecnica al servizio della verità, l’opposizione di Caravaggio all’opera di Annibale non è di ordine conoscitivo, ma morale. Infatti per il lombardo la pittura non deve mostrare ciò che potrebbe essere vero similmente, ma ciò che realmente è; non deve allietare lo spettatore con il gioco delle luci, con il cangiamento dei colori, con il ritmo delle storie, ma deve mettere lo spettatore di fronte ai fatti, affinché prenda coscienza della realtà, qualsiasi essa sia, indipendentemente dall’essere bella o brutta. Caravaggio ci restituisce l’essere nel suo sembiante fenomenico, come nella restituzione prospettica, però il percorso è diverso; parte dal fenomeno, lo studia, lo comprende e ce lo restituisce come fenomeno.
Roma agli inizi del Seicento è, come agli inizi del Cinquecento, l’indiscussa capitale dell’arte d’avanguardia. Ci sono anche le Fiandre, ma il carnet delle offerte è limitato al realismo. Via di Pallacorda è uno dei vicoli che irrorano la zona di Campo Marzio. Qui, in un giorno di maggio del 1606, si svolge una partita a palla fra due gruppetti di giovinastri, di cui uno capitanato da un certo Ranuccio Tomassoni e l’altro da Caravaggio. L’artista ha già 35 anni, dunque non è proprio un ragazzino, ed è noto sia come pittore che come soggetto. Alle spalle ha accumulato parecchi fatti e fattarelli di quel particolare genere di cui non c’è d’andarne certo fieri. A suo carico, a partire dall’inizio del secolo, ha parecchi episodi che lo vedono protagonista di risse, sfregi a soldati, aggressioni a notai, gendarmi, garzoni di osteria ecc. ecc. Lo scontro è vinto dal Tomassoni; la posta è fissata in 10 scudi. La sera i due contendenti si rincontrano a Campo Marzio. Forse il Tomassoni schernisce Caravaggio, il quale, molto probabilmente reagisce insultandolo a sua volta. Si sfoderano le spade e ne nasce uno scontro dalle conseguenze mortali. Entrambi i contendenti ne escono feriti, ma il Tomassoni in modo più grave, tanto da non resistere a lungo e morire alcuni giorni dopo. A decesso avvenuto il Merisi diventa un omicida.
Ricercato dalla giustizia Caravaggio prende con sé le poche cose che gli necessitano, abbandona lo studio di Vicolo San Biagio, a pochi passi dal luogo dello scontro, e si va a rifugiare nei feudi laziali dei Colonna, i quali gli danno asilo in virtù del vincolo di parentela che costoro si ritrovano con i marchesi di Caravaggio. Ma in questo nascondiglio, più o meno sicuro, il Merisi non ci resta a lungo e dopo due mesi dal fattaccio passa a Napoli, espatriando dallo stato pontificio.
Dal giorno dell’omicidio Caravaggio è costretto a fuggire in continuazione, ma la lunga mano della giustizia lo raggiunge ovunque. Da Napoli passa a Malta; di qui va in Sicilia, poi di nuovo a Napoli, quindi si imbarca per i presidi napoletani in Toscana. Grazie alle sue conoscenze altolocate riesce a sfuggire alla giustizia degli uomini, ma inesorabile lo raggiunge la giustizia divina. Sbarcato alla metà di luglio a Porto Sant’Ercole, sull’Argentario, si prende la malaria e il 18 luglio, a causa di una pressoché totale mancanza di assistenza, muore. Si spegne così, a soli 39 anni, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Presto su di lui si cominciano a diffondere molte leggende; tutte pongono l’accento sulla sua vita particolarmente violenta e trasgressiva. Si inizia così a distillare quell’immagine, tanto cara ai biografi, di un Caravaggio artista maledetto, emarginato, violento, in conflitto con le idee e gli uomini del tempo, isolato: insomma il primo bohémien della storia.
In realtà Caravaggio è un artista colto, intellettualmente superiore ai suoi contemporanei, cosciente del proprio valore e della propria poetica rivoluzionaria, per questo non si vuole confondere con gli altri artisti, che probabilmente giudica inferiori a lui. Caravaggio è un artista che sa cosa vuole, fin dagli esordi. Vuole fondare un nuovo stile tragico, più vero, molto più aderente allo spirito della sua epoca.
L’epoca in cui si consuma la vicenda caravaggesca è l’epoca della dominazione spagnola in Italia, l’epoca dei bravi di don Rodrigo, dove per le strade si gira armati, dove è facile proferire e ricevere insulti. Artisticamente parlando è l’epoca del ritorno all’ordine imposto dalla politica pontificia di Clemente VIII (1592-1605), improntata all’austerità, specialmente in campo artistico, dove la libertà espressiva aveva assunto i toni della licenziosità gratuita. L’artista che al momento, a Roma, riscuote maggior successo è il Cavalier d’Arpino, artefice corretto, senza efferatezze, pieno di dovizioso decoro.
Naturalmente nella città capitolina non c’è solo la committenza papale, c’è anche una quanto mai florida committenza privata che non nasconde affatto la propria simpatia per le opere che intraprendono nuove strade; una committenza aperta e illuminata, in cui spesso figura l’avanguardia intellettuale dell’epoca. Ammiratori del Caravaggio sono innanzi tutto il cardinal Del Monte (1549–1627), suo benefattore, Scipione Borghese (1577–1633), grande collezionista d’arte, il marchese Vincenzo Giustiniani (1564–1637) e il Grande Maestro dei Cavalieri di Malta Alof de Wignacourt (1547–1622).
Firenze, Galleria degli Uffizi
Caravaggio
RAGAZZO MORSO DA UN RACANO (1593)
Olio su tela, altezza cm. 66 – larghezza cm. 34
Firenze, Galleria degli Uffizi
Caravaggio
BACCO ADOLESCENTE (1596/1597)
Olio su tela, altezza cm. 95 – larghezza cm. 85
Michelangelo Merisi non nasce a Caravaggio, come lascerebbe pensare il soprannome con cui è universalmente noto, ma a Milano il 29 settembre del 1571. Suo padre si chiama Fermo, è natio di Caravaggio, paesino in provincia di Bergamo, e fa il curatore degli immobili del marchese Francesco I Sforza da Caravaggio (morto nel 1576), nobile discendente di un ramo illegittimo di Ludovico il Moro (1452-1508). Muore quando Michelangelo è ancora un bambino di soli 6 anni. La madre si chiama Lucia Aratori, anch’essa di Caravaggio. Seconda moglie di Fermo, resta vedova a 27 anni. Rimasta sola con cinque figli la donna, benché molto giovane, non si lascia travolgere dalla situazione e riesce a portare avanti ugualmente la famiglia. In questa impresa è aiutata da Muzio II Sforza-Colonna (1576-1622), figlio di Francesco I: di qui la spiegazione dell’interessamento dei Colonna in occasione dell’omicidio Tomassoni.
In base a recentissimi studi Caravaggio giunge a Roma poco più che ventenne, dunque già formato dal punto di vista professionale. È l’anno in cui viene eletto papa Clemente VIII Aldobrandini, timorato e bigotto successore di Sisto V (1585-1590), altro papa famoso in quanto a bigotteria: è lui il papa che ha fatto mettere le “braghe” ai nudi del Giudizio Universale di Michelangelo. Primo maestro materiale in terra lombarda è Simone Peterzano (1535-1599 c.), un tardo manierista che si attiene scrupolosamente agli schemi dei suoi tempi. Ma i veri maestri del Caravaggio, quelli che incidono profondamente sul suo stile, sono i naturalisti lombardi del Cinquecento, dai più recenti come i fratelli Campi, ai più stagionati come il Savoldo (1480 c. – 1548 c.), il Moretto (1498 c. – 1564), il Moroni (1522 – 1579 c.), su su fino alle radici lottesche.
La formazione caravaggesca è dunque lombarda, ma egli si discosta dai maestri cinquecenteschi in quanto volge l’espressività lirica e prosaica del loro linguaggio in espressività drammatica. Questo significativo passaggio il Caravaggio l’ottiene accentuando il contrasto fra luce e ombra: ai riflessi intensi del lume battente contrappone il buio più assoluto. È un fatto importante per la storia dell’arte non solo perché l’interpretazione caravaggesca si qualifica come modo assolutamente inedito di rappresentare un soggetto tradizionale, nonché tradurre vecchi contenuti in un nuovo linguaggio espressivo, ma soprattutto perché riflette il senso e lo spirito più avanzato della nuova era che si va affermando, cioè a dire il senso tragico della vita dell’uomo e il nuovo spirito d’indagine scientifica che investe le coscienze più illuminate di quest’epoca.
Quando il Caravaggio stipula il contratto di apprendistato nella bottega del Peterzano ha 13 anni. L’accordo impegna il maestro a tenere il giovane apprendista per quattro anni. Non si sa quasi nulla di questo periodo. È certo che guardando alcune opere del Peterzano non si può negare che al giovane Michelangelo più di qualcosa del manierista lombardo gli sia rimasto. Passati i quattro anni (forse prima) Michelangelo lascia la sua bottega e va a cercar fortuna a Roma.
Quello della capitale è senz’altro il mercato d’arte più fiorente d’Italia. Si fa di tutto: si affresca, si fanno grandi tele sacre, si fanno quadri da cavalletto. A Roma si sta procedendo ad una grandiosa opera di restaurazione del vecchio splendore d’inizio Cinquecento, e inoltre nella Città Eterna si concentrano le più grandi famiglie di mecenati del periodo. Più in particolare, sul finire del secolo, il richiamo dell’Urbe sui centri periferici si fa ancora più forte. Ma non è solo per le prospettive di guadagno che arrivano in città molti artisti padani, c’è anche il fatto che parecchi dei signori di Roma non sono romani, ma del Nord, e amano circondarsi di artisti delle loro parti.
Arrivato nella capitale Caravaggio transita per la bottega di un certo Lorenzo Siciliano, che lo paga per dipingere teste: tre al giorno al prezzo di un grosso. Poi c’è un interludio nella bottega di Antiveduto Grammatica (1571 c. – 1626), dove si mette a fare mezze figure (e non più teste, dal momento che erano la specialità del suo datore di lavoro): incontro fondamentale per la sua scelta stilistica futura. Poi passa a lavorare per i d’Arpino. Nella bottega del Cavalier d’Arpino viene messo a dipingere nature morte, un genere che inizia a riscuotere un discreto successo anche a Roma. Ma tutte queste esperienze non possono che andar strette al talento del giovane lombardo: difatti durano poco. A tutto ciò si aggiunga poi un caratterino alquanto difficile ed ecco completato il ritratto di un giovane rampante proiettato alla conquista del mercato romano.
Dopo otto mesi di permanenza presso i d’Arpino Caravaggio lascia la bottega: sembra per malumori insorti fra lui e i datori di lavoro a causa della malattia che lo colpisce durante il periodo di permanenza nell’atelier dei “ciociari”. Uscito, sia dall’ospedale che dalla bottega dei d’Arpino, decide di mettersi in proprio. Così si pone in cerca di un luogo dove risiedere e lavorare. Trova una momentanea sistemazione presso monsignor Pandolfo Pucci, da lui soprannominato “monsignor insalata”, dal momento che in casa sua non si mangia altro che insalata. Con la pancia povera di proteine, ma la testa ricca di immaginazione, Caravaggio comincia a sfornare una serie di operette fatte per racimolare qualche soldo e limitare le privazioni. La prima di queste è il Ragazzo morso da un racano (dove “racano” sta per ramarro). Seguono il Mondafrutta, il Bacchino malato, il Bacco degli Uffizi, la Musica dei ragazzi del Metropolitan, il Fruttaiolo Borghese. Tutti piccoli capolavori di pittura di genere.
Gli anni 1595/1996 sono gli anni del “passaggio del treno”. Durante la convalescenza, Caravaggio è ospite di monsignor Fantin Petrignani; di qui va a stare nella dimora del cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte, niente meno che a palazzo Madama, il futuro palazzo del Senato della Repubblica.
Caravaggio e il del Monte si erano già conosciuti tramite le opere: il Suonatore di liuto di Leningrado, il già ricordato Musica dei ragazzi e I bari di Fort Worth erano stati dipinti per lui.
Grazie all’interessamento del cardinale Caravaggio riesce a soffiare al Cavalier d’Arpino la commissione per la decorazione della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. È l’occasione tanto attesa. Da questa prova dipende tutto il suo futuro; se fa opere di altissima qualità per lui è la gloria, altrimenti l’oblio. L’altissima posta in gioco non distoglie Caravaggio dal suo impegno morale con sé stesso e con la propria intelligenza. Il suo programma culturale prevede di proporre un modo nuovo di raccontare i fatti di storia, anzi la tematica lo vede stimolato nella ricerca dell’inedito. E così nascono i primi tre capolavori del nuovo realismo seicentesco. Da queste tele in poi abbiamo un altro Caravaggio, il Caravaggio tragico che tutti noi conosciamo.
LE PRIME TELE DI SOGGETTO STORICO-RELIGIOSO
Berlino, Già al Museo dell’imperatore Friedrich
Caravaggio
SAN MATTEO E L’ANGELO (1599)
Olio su tela, altezza mt. 2,32 – larghezza mt. 1,83
Il programma iconografico prevede la raffigurazione di tre episodi fondamentali della vita di san Matteo: la vocazione, l’ispirazione, il martirio. Quando Caravaggio inizia a metter mano all’impresa, il XVI secolo è ormai agli sgoccioli. Il primo soggetto ad esser dipinto è il San Matteo e l’angelo.
San Matteo e l’angelo è il primo lavoro in cui Caravaggio affronta il soggetto storico. Come è logico aspettarsi da una forte personalità quale la sua il Merisi non ci presenta un personaggio vestito alla maniera antica che in estasi si accinge a scrivere il Vangelo. Ci presenta invece un individuo dai lineamenti piuttosto grevi, un santo che non ha i tratti fini e curati di un nobile, ma quelli pesanti e grossolani di un contadino, i piedi nudi, sporchi; le vesti, se così si possono definire gli stracci che porta in dosso, non sono quelle di un signore, ma quelle di un poveraccio. Fin qui niente di estremamente stravolgente: in fondo l’identità fra santità e povertà non è affatto nuova in campo dottrinale. Ciò che fa gridare allo scandalo è invece un’altra cosa: il san Matteo del Caravaggio non scrive, tiene solo in mano la penna d’oca che l’angelo pensa a muovere. Molti critici si sono interrogati sul cosa volesse dire il Merisi con questa inedita interpretazione dell’evangelista. Oggi si sa per certo che l’artista non vuole insinuare che l’autore di uno dei quattro vangeli riconosciuti come testi sacri dalla Chiesa è un analfabeta, vuole semplicemente renderci testimoni oculari del fatto che a scrivere la vera storia della vita e della passione di Gesù non è un uomo, ma un messaggero di Dio. Ecco il significato dell’angelo e di quel suo gesto aggraziato che muove la mano erta e callosa del santo. Ma non c’è solo questa di eterodossia; un’altra, molto appariscente sta nel constatare dove si appoggia san Matteo per scrivere uno dei documenti più importanti di tutta la cristianità: sulle proprie ginocchia, non c’è neanche un tavolaccio a fargli da sostegno. Anche qui c’è una spiegazione quanto mai acuta: l’ispirazione divina è un momento che arriva all’improvviso, coglie l’uomo impreparato, non gli dà neanche il tempo di cercarsi un sostegno per posarci il grande tomo comparso per miracolo. Ma non basta ancora. Dove lo scrive Matteo il suo Vangelo? In un ambiente desolato, uno spazio vuoto, riempito solo dalla presenza di una savonarola, un uomo in carne ed ossa e un essere ultraterreno. Uno spazio fatto dunque di cose concrete, cose che si possono vedere, toccare con mano; persino l’angelo dal profilo apollineo, presenza metafisica, richiama molto più la fisicità delle divinità pagane piuttosto che la trascendenza di quelle cristiane. Angelo, santo e sedia hanno tutti la stessa concreta evidenza nonché consistenza; sono tutte e tre realtà rivelate dalla luce, immagini, e come immagini uguali tra loro. Anche lo spazio è immagine; la sostanza dell’immagine è la luce; la luce si percepisce come colore, dunque lo spazio si rivela nel colore. Ma il colore si percepisce solo se ci sono cose concrete ad intercettare i raggi luminosi: nello spazio del San Matteo le pareti bigie del cubicolo in cui si trova il santo.
L’esordio nell’arte sacra del giovane pittore non viene accolto molto bene. La tela viene respinta dal committente perché ritenuta indecente. Ma non c’è nulla di indecente, c’è solo una coerentissima scelta dei mezzi espressivi propri dell’arte pittorica per esporre un’idea originale, alquanto controcorrente. In effetti il quadro non è giudicato da tutti allo stesso modo; al contrario è ritenuto eccezionale dagli intenditori dell’epoca, ma, con l’aria controriformista che tira, sconveniente per essere esposto in una chiesa.
Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli
Caravaggio
SAN MATTEO E L’ANGELO (1602)
Olio su tela, altezza mt. 2,95 – larghezza mt. 1,95
La tela è sostituita con una seconda versione, la stessa che si trova oggi sull’altare della cappella. La prima, che si trovava a Berlino nel Kaiser Friedrich Museum è andata distrutta durante l’ultima guerra mondiale a causa dei bombardamenti sulla capitale (a quell’epoca ancora non esistevano i missili intelligenti).
La pala sostitutiva ci ripropone un san Matteo sempre intento a scrivere il Vangelo, ma con parecchi aggiustamenti rispetto alla versione precedente. Ad esempio stavolta il Caravaggio ci presenta un santo che scrive la storia di Cristo di suo pugno, anche se sempre dietro dettatura dell’angelo, ed è appoggiato su un tavolo. Tuttavia la posizione in cui egli scrive è piuttosto scomoda: il corpo si avvita e cerca l’appoggio su uno sgabello in bilico. L’aspetto del santo è più nobile e la tunica in cui è avvolto richiama i manti della tradizione rinascimentale, dunque un san Matteo molto più ammanierato e un Caravaggio molto più cedevole, ma non su tutto.
Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli
Caravaggio
LA VOCAZIONE DI SAN MATTEO (1599/1600)
Olio su tela, altezza mt. 3,22 – larghezza mt. 3,40
Nella Vocazione di san Matteo l’immagine è realistica, ma ciò che appare non è reale: come è possibile che Gesù e Pietro si trovino in un posto dove figurano uomini contemporanei al Caravaggio? Realismo non significa rinunciare alla libertà poetica: l’anacronismo sta ad indicare che la vocazione non è soggetta al tempo, non è un fatto che riguarda il passato, ma il presente. Nel dipinto Caravaggio non descrive l’ambiente dove si svolge l’episodio, lo accenna attraverso pochissimi elementi: un tavolo, una finestra, due pareti e una luce che irrompe sulla scena senza rivelare la sorgente che la emette. Si tratta di un’apparizioni istantanea e la realtà si rivela come puro fenomeno e non come dato gnostico. La struttura dello spazio è completamente nuova: il piano della tela è molto vicino ai personaggi, alcuni dei quali si trovano a ridosso della nuda parete di fondo. Questa scelta annulla l’effetto di profondità prospettica, mentre favorisce l’effetto di profondità tattile dovuto alla particolare illuminazione.
Come i riflettori in una scena teatrale, la luce illumina improvvisamente il palcoscenico: si tratta del raggio di luce rivelatore. Tutta la vicenda della vocazione è congelata nell’attimo in cui Gesù appare sul palco colto nel gesto di chiamare Matteo; tutto viene fissato dal fascio di luce che filtra dalla fonte misteriosa. Cosa rivela la luce? Stranamente le interpretazioni di quello che avviene sulla scena non sono univoche. Ad esempio non si sa esattamente dove si svolge l’evento, se all’interno di un posto di guardia, come si legge su autorevoli pubblicazioni, quali la Storia dell’arte italiana dell’Argan, o intorno ad un banchetto delle imposte, in un vicolo, all’aperto, come a me sembra più plausibile. Non solo per quello che c’è scritto sul Vangelo di san Matteo, ma soprattutto per considerazioni di tipo ottico. Infatti se si guarda attentamente la finestra si può notare che i cardini del telaio mobile sono nascosti dalla spalletta, il che può essere solo se l’anta apre verso l’interno, un interno che non è al di qua della parete, ma al di là. Quindi se si passa ad osservare lo spazio dietro la figura che si trova a capotavola, china a contare i soldi, risulta troppo esiguo per contenere lo schienale della sedia su cui è seduta se fosse delimitato da una parete che si prolunga verso l’osservatore, mentre sarebbe sufficientemente capiente se la parete si dirigesse in senso opposto.
Ancor più oscura è la questione dell’identificazione di Matteo. I protagonisti oltre a Gesù e san Pietro sono, nell’ordine da sinistra a destra: un uomo seduto a capotavola, chinato, abbigliato alla moda del 1600; un vecchio munito di occhiali, in piedi e piegato in avanti; tre personaggi in abiti seicenteschi, armati, un maturo con barba e cappello senza piume, un giovinetto con berretto piumato, poco più che adolescente, un giovane di spalle, anch’esso con berretto piumato. Secondo la maggioranza delle interpretazioni l’azione parte da Gesù. il Redentore, raffigurato con il btaccio destro parallelo alla parete di fondo e la mano destra rivolta verso la parete di rimpetto, starebbe chiamando l’uomo maturo con barba e cappello: “Ei, tu!”. Il maturo, sentendosi additato, con l’indice rivolto verso se stesso risponderebbe: “Chi, io?” Di rincalzo Pietro, sempre con la mano destra, ribadirebbe: “Si, tu!”. Questa versione che assai discutibilmente viene accolta dalla maggioranza degli interpreti, difetta per via di alcuni importanti elementi. Innanzi tutto Gesù ha gli occhi puntati verso il personaggio chinato a contare i denari e con la sua mano sta chiamando proprio lui. Il vecchio e Matteo non si accorgono dell’irruzione di Gesù e Pietro e continuano imperterriti ad occuparsi delle loro faccende. Al contrario gli altri tre personaggi si accorgono degli intrusi e cercano di reagire. Ognuno di loro ha una risposta diversa. Il maturo ad esempio, guardandolo negli occhi e con il dito rivolto in direzione dell’uomo a capotavola, risponde a Gesù chiedendo: chi lui? Il giovane di spalle sembra come spaventato da quella improvvisa apparizione e ha una specie di sobbalzo che lo porta tosto a metter mano alla spada. L’altro, il ragazzetto, ha un attimo di smarrimento e per istinto si ritrae, come a cercar protezione, dietro al maturo. E fin qui tutto lascerebbe intendere che Matteo dovrebbe essere l’uomo chinato a contare i denari. Però c’è Pietro, figura che le analisi hanno stabilito essere stata aggiunta, ad interrompere il filo logico, poichè con il “no, tu!” Indica il maturo. Dunque se si sta al gesto di Gesù Matteo dovrebbe essere l’uomo chinato a contare i denari; se si sta invece all’indicazione di Pietro dovrebbe essere il maturo con barba e cappello senza piume. Potrebbe essere il vecchio? Impossibile! Al momento della vocazione Matteo doveva stare sui trent’anni. Una terza interpretazione si imperneerebbe sul gesto dell’apostolo. Parte Pietro rivolgendosi all’uomo maturo, il quale risponderebbe dicendo: “Chi, io?”, Gesù preciserebbe indicando l’uomo chinato a capotavola: “No, tu!” A sostegno della tesi che vedrebbe Matteo nel personaggio seduto a capotavola ci sarebbe il fatto che Matteo era un pubblicano, un esattore, qualifica che si addice, stando all’analisi dei gesti, più all’uomo seduto a capotavola, intento a contare i denari, che non il maturo con barba e cappello, colto nell’atto di versare moneta. Come si scioglie allora questo nodo? A soccorrerci potrebbe tornare vantaggioso osservare che Pietro non sta guardando in direzione dell’uomo barbuto. Conclusione: che Pietro non abbia capito chi Gesù sta chiamando? Ma ci potrebbe essere anche un’altra, ultima spiegazione: che Caravaggio abbia di proposito lasciata nell’ambiguità l’identità di Matteo? Non sarebbe la prima volta che percorre questa strada. Infatti nella Madonna dei Pellegrini, in Sant’Agostino, a Roma, non è chiaro chi il Bambinello stia benedicendo dei due pellegrini inginocchiati davanti a lui e Maria, come non è altrettanto chiaro verso chi siano rivolti gli sguardi di madre e figlio.
Qualsiasi sia la soluzione la cosa certa è che davanti a questa tela si ha l’impressione di stare ad assistere ad un avvenimento che si svolge dinnanzi ai nostri occhi, una sorta di fotografia nella quale si coglie l’attimo fuggente della vocazione, ma non è così. Tutto è scrupolosamente studiato, tutto è messo a punto in studio, dove viene ricostruita sperimentalmente la scena che alla fine dovrà apparire nel dipinto. E non è neanche vero che è tutto frutto dell’immaginazione dell’artista e che la cultura non c’entri. Il Merisi non ignora la storia dell’arte, per questo cita i grandi maestri. Ad esempio nella mano protesa di Gesù si ritrova la mano di Adamo nella creazione dell’uomo sistino, mentre nella trasposizione del tempo storico addirittura Masaccio (1401-1428).
Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli
Caravaggio
IL MARTIRIO DI SAN MATTEO (1599/1600)
Olio su tela, altezza mt. 3,22 – larghezza mt. 3,40
Cosa significa dunque realismo tragico per Caravaggio? Nei quadri di storia il pittore non rappresenta un fatto reale, ovviamente, ma visualizza una vicenda del passato come se fosse una realtà contingente, un fatto che accade davanti ai nostri occhi. Questo fatto a sua volta non è un fatto casuale, che ha un senso esplicito, al contrario, è il fenomenizzarsi in termini di immagine di un pensiero astratto.
Nel Martirio di san Matteo il soggetto religioso, lo dice il titolo stesso, è il sacrificio estremo di Matteo, altro tema molto comune. Ma Caravaggio ce lo presenta come l’assassinio di un povero vegliardo inerme. Nessuno prima di lui aveva espresso l’uccisione di un paladino della fede in maniera così cruda, rinunciando a rappresentare il santo come un eroe che cade in battaglia. Ebbene Caravaggio rappresenta san Matteo come un comune mortale di fronte alla morte, il quale non può fare a meno di cedere al gesto istintivo di ripararsi dal colpo fatale: e questo già è tanto. Ci si aggiunga poi che il tema viene visto come un fatto di violenza gratuita piuttosto che come la fine eroica di un uomo eccezionale: non è l’eroismo a dominare è la violenza. Cioè il Merisi non si ferma a filmare il fatto, non si limita a registrare il fenomeno della luce che investe i corpi dei personaggi, ché se si limitasse a questo non sarebbe un artista ma un illustratore; egli vuole spingersi oltre, vuole darci il senso della violenza dell’evento, la stessa violenza che permea il suo mondo. Caravaggio la vede così la morte di un santo, come un momento di cruda violenza. Non è il primo artista a rappresentare gli eventi storici come eventi altamente drammatici, è il primo artista nella storia a interpretare eventi storici drammatici senza eroi: è il dramma senza la catarsi.
Questo per quanto riguarda l’interpretazione del soggetto. Per quanto riguarda la scelta del linguaggio formale Michelangelo si riallaccia agli artisti del Cinquecento e al loro linguaggio impostato sull’esperienza dei sensi. Per questi artisti l’arte non deve spiegare i fenomeni, si deve limitare a rivelarli. La forma dunque non è nozione dell’oggetto, ma osservazione, rilevamento. Non si passa dalla sensazione luminosa al concetto universale ed eterno, si resta a quel che è desumibile dall’analisi dell’esperienza personale; non si passa dal rilevamento del fenomeno alla costruzione dei grandi sistemi, ci si attiene al fenomeno rilevato.
Per lui, dunque, realismo significa stare al fenomeno, non passare da questo ai concetti. Ciò potrebbe indurre a pensare che il pittore ritragga la realtà casualmente, così come gli capita, e invece non è così. Anche nell’arte di un classico come Piero della Francesca si sta al fenomeno, ma il momento particolare scelto per ritrarlo è quello in cui il fenomeno rivela l’essere universale, la forma oggettiva. In Caravaggio il fenomeno non rivela l’essere universale, il dato elaborato in concetto, ma l’essere così come appare nel particolare momento in cui un occhio lo rileva. E non è che questa realtà sia più superficiale dell’altra perché non svela tutto il Creato, anzi diventa tanto più preziosa quanto più nell’istante in cui accade esprime tutto il suo significato.
Insomma, in conclusione si può dire che il realismo caravaggesco è un realismo già romantico, in quanto nasce da un sentimento e non dall’intelletto, nasce dal bisogno di stare a ciò che si vede, dal bisogno di rapportarsi con il mondo e non dalla necessità di conoscere l’universale; non ha a che fare con la scienza, ma con l’etica.
Le ultime opere di Caravaggio sono contrassegnate da un incipiente processo di riduzione all’essenziale; cosa comune a molti artisti, ma che in lui, forse, è legato allo stato di disagio in cui si trova spesso ad operare, fra una fuga e l’altra.
Roma, chiesa di Santa Maria del Popolo, cappella Cerasi
Caravaggio
CROCIFISSIONE DI SAN PIETRO (1600/1601)
Olio su tela, altezza mt. 2,30 – larghezza mt. 1,75
Roma, chiesa di Santa Maria del Popolo, cappella Cerasi
Caravaggio
CONVERSIONE DI SAN PAOLO (1600/1601)
Olio su tela, altezza mt. 2,30 – larghezza mt. 1,75
All’inizio del Seicento, a Roma, gli artisti più famosi sono il Caravaggio e il Carracci. I due pittori, proprio durante questo periodo, si ritrovano fianco a fianco nella cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo quali autori delle tele che ne decorano l’interno. Monsignor Tiberio Cerasi (1544–1601) è un personaggio di spicco nella nomenclatura pontificia, riveste la carica di tesoriere del papa ed è amico del cardinal Borromeo. È quanto mai desideroso di decorare la cappella di famiglia, e vuole per questo lavoro i migliori artisti del momento, così ingaggia sia Michelangelo che Annibale. La commissione che impegna il Merisi prevede la realizzazione di due tele: una con la crocifissione di san Pietro, l’altra con la conversione di san Paolo.
Curiosità: nel contratto il Caravaggio viene definito “Egregius in urbe pictor”.
La storia di questi quadri è davvero strana. Essi rappresentano i primi saggi di tutta una serie di opere stravolgenti, che suscitano sempre una ridda di polemiche per il loro spiccato anticonformismo, ma che procurano all’artista maledetto anche un crescente stuolo di estimatori: valga come esempio per tutte La Morte della Vergine che fu respinta dai committenti, i padri di Santa Maria della Scala, ma fu acquistata poco dopo dal Rubens (1577-1640), per conto del duca di Mantova.
Anche questa volta le prime due versioni vengono respinte dal richiedente, ma stavolta però non se ne capisce proprio la ragione. Le sostituiscono i due quadri che sono tutt’ora in loco, sicuramente ancora più rivoluzionari. Anche in questo caso i critici si chiedono come si spiega che vengano preferite le versioni più spinte. Forse il rebus è sciolto dall’improvvisa morte di monsignor Cerasi, avvenuta prima che le tele sostitutive fossero ultimate. Si ignora comunque chi le abbia volute collocate nella cappella di famiglia e perché.
La conversione di san Paolo è un tema comunissimo in arte, specialmente in pittura. Dopo la lapidazione di Stefano, il primo martire cristiano, a Gerusalemme scoppia la prima grande persecuzione contro la Chiesa che costringe i cristiani a fuggire dalla città; alcuni di essi trovano asilo a Damasco. Per riacciuffarli Paolo (Saulo), che in quel momento era un feroce persecutore dei cristiani, si fa rilasciare dal sommo sacerdote di Gerusalemme un mandato di estradizione per il sacerdote capo di Damasco, e con questo “pezzo di carta” si mette in viaggio per la capitale siriana. Nel 35 d.C. (o 34) Paolo s’incammina alla volta di Damasco. Durante il tragitto gli appare improvvisamente la figura di Gesù risorto, quanto basta per convincerlo a convertirsi all’istante al cristianesimo. Da allora diventa il tredicesimo apostolo, il più grande di tutti. Con lui la religione cristiana esce dai confini della Palestina e si diffonde in moltissimi territori dell’impero romano, Siria, Asia Minore, Macedonia, arrivando perfino in Grecia e all’interno delle mura della stessa Roma. nel 65 (o 67) subisce il martirio presso le Aquae Salviae (le Tre Fontane), nei pressi dell’attuale E.U.R. All’epoca regnava Nerone (54-68 d.C.).
La prima versione della Conversione di san Paolo, la cosiddetta “Conversione Odescalchi”, che si trova nell’omonimo palazzo romano della famiglia Odescalchi, presenta ancora evidente la triade classico-cristiana di umanità-santità-divinità. Il momento prescelto dal Caravaggio per il suo dipinto è quello in cui il divino irrompe improvvisamente sulla via di Damasco. Alla sua apparizione improvvisa il cavallo si imbizzarrisce e disarciona Saulo, che cade a terra accecato dalla visione celeste. Nello stesso istante interviene l’armigero, il quale, senza capire assolutamente niente di quello che sta accadendo, cerca di difendere il santo riparandolo con lo scudo e facendosi contro le figure divine con la lancia in pugno.
Nella seconda versione nessun angelo, nessun Salvatore piove dal cielo. Le uniche presenze fisiche sono le cose e la luce. Forse angelo e Salvatore li vede solo Saulo, dentro di sé, sigillati nei suoi occhi privi di pupille. Un’interpretazione della divinità assai più avanzata, assai più intelligente di tutte le altre in vigore in quest’epoca; una visione senza dubbio più moderna, molto più vicina alla sensibilità attuale: appartenendo solo a san Paolo la visione non coinvolge lo staffiere che si limita a tener fermo il cavallo per il morso.
La composizione prospettica, elemento irrinunciabile per giudicare il buon livello di un quadro, qui cede il posto ad una strutturazione per diagonali. Lo scopo è chiaro: avvicinare il fatto, concentrare l’attenzione sull’evento senza distoglierla. Le due direttrici non sono quinte architettoniche, ma massicci corpi in scorcio. Il cavallo con la sua grande massa rischiarata dalla stessa luce che colpisce Saulo non fa altro che sottolineare la struttura di quello spazio ristrettissimo in cui si concentra l’evento miracoloso, ed è anche l’unica traccia di azione nella metafisica sospensione della scena: la schiuma alla bocca fa pensare ad una corsa da poco arrestata.
La vicinanza fisica nella cappella Cerasi delle opere del Carracci e del Caravaggio spinge gli esperti al confronto diretto. Per far risaltare le differenti personalità i critici di tutti i tempi hanno ribattuto sempre sullo stesso tasto: il Carracci ricerca l’ideale, Caravaggio il reale. Sebbene i quadri della Cerasi non lascino dubbi sulla fondatezza del giudizio non bisogna dimenticare che, prima della conversione di Annibale al classicismo, le analogie fra i due artisti erano molto più numerose delle differenze.
La principale di queste analogie era senz’altro la comune fede naturalista. In effetti entrambi gli artisti muovono dallo stesso ambiente lombardo-emiliano. Il programma esplicito in tutte le opere del periodo giovanile è quello di contrapporre alla grande pittura di rappresentazione epica della capitale una più umile ma vera pittura lirica. Ma il realismo giovanile del Carracci è confidenziale e narrativo, quello del Caravaggio è invece lirico. Giunti alla maturità Carracci volge al classicismo, Caravaggio ad un realismo tragico.