IL NEOCLASSICISMO: ESPRESSIONE DELL’IDEALISMO ILLUMINISTA
PENSIERO ARTISTICO: LE TRE RAGIONI DELL’ARTE NEOCLASSICA
RUOLO STRUMENTALE DELL’ARTE NEOCLASSICA
RUOLO ETICO DELL’ARTE NEOCLASSICA
ASSUNZIONE DEL MODELLO CLASSICO
RELAZIONE CON L’ANTICHITÀ CLASSICA
DIFFERENZA FRA IDEALISMO NEOCLASSICO E IDEALISMO CLASSICO
LINEAMENTI TEORICI
LA PITTURA NEOCLASSICA: JACQUES LOUIS DAVID
ANALISI DELL’OPERA IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI
LA MORTE DI MARAT
IL RITORNO DI DAVID AL SUCCESSO
LA SCULTURA NEOCLASSICA: ANTONIO CANOVA
MONUMENTO DI CLEMENTE XIV, OVVERO RAPPORTO FRA SCULTURA NEOCLASSICA E ALDILÀ
INGRES E IL BELLO LAICO
L’ARCHITETTIRA NEOCLASSICA DI BOULLÉE E LEDOUX
L’ALTRO NEOCLASSICISMO
LE RADICI DEL ROMANTICISMO STORICO: GOYA
FANGO E SANGUE NELLE TELE DEL 1808
IL SOGGETTO
ANALISI DELL’OPERA FUCILAZIONE
L’ULTIMO GOYA


IL NEOCLASSICISMO: ESPRESSIONE DELL’IDEALISMO ILLUMINISTA

Parigi, Museo del Louvre
VEDUTA D’INSIEME DALLA COUR NAPOLÉON

A Parigi l’epoca romantica si apre con la reazione antipittoresca neoclassica. Fra i motivi scatenanti c’è la nascita dell’estetica, ovvero la scienza del bello. La nascita dell’estetica si inquadra nella fase idealistica della speculazione illuminista, la stessa che da origine al sublime Preromantico al di là della Manica. Dunque l’humus culturale da cui muove la poetica neoclassica è lo stesso da cui muove la poetica preromantica del Sublime. I due idealismi hanno in comune la tendenza alla sublimazione, la struttura intelligibile dell’immagine artistica, il motivo dominante dell’aspirazione alla perfezione classica, l’opinione sulla questione della relazione col contesto socioculturale e il senso che pervade la rievocazione del passato; differisce per il fatto che l’idealismo neoclassico è un idealismo razionale, mentre l’idealismo del Sublime è un idealismo irrazionale. Ciò significa che le vistose differenze fra Neoclassicismo e preromanticismo sono solo apparenti e che in realtà i due orientamenti sono espressione dello stesso pensiero, il pensiero romantico.

PENSIERO ARTISTICO: LE TRE RAGIONI DELL’ARTE NEOCLASSICA

Il più delle volte il termine neoclassicismo viene usato per indicare un’arte imitativa dell’antichità classica, un’arte poco creativa, poco originale: e in effetti le opere neoclassiche sono spesso fredde, glaciali ripetizioni e anche un po’ paradossali. Se si va poi a considerare il fatto che questo indirizzo domina in un periodo rivoluzionario la sua affermazione ci lascia addirittura stupefatti: come è stato possibile elevare Prassitele (400–326 a.C. c.) a modello di bellezza in piena Rivoluzione francese?
Ci sono tre ragioni fondamentali che inducono gli artisti neoclassici ad assumere l’arte classica come modello; la prima riguarda il rapporto arte civiltà.
Contrariamente a quanto vanno affermando le due correnti preromantiche del Pittoresco e del Sublime, per i neoclassici l’arte non è assolutamente un’opinione personale. È invece un fatto oggettivo; non naturalistico, ma storico: l’arte è espressione di civiltà. Ma nella storia ci sono state tante diverse espressioni artistiche per tante diverse civiltà. Per il pensiero artistico neoclassico non tutte le civiltà si sono espresse ai massimi livelli; una in particolare è stata espressiva di un perfetto equilibrio fra arte e società: la civiltà classica.

RUOLO STRUMENTALE DELL’ARTE NEOCLASSICA

La seconda ragione riguarda il ruolo strumentale dell’arte. Nei confronti della scienza il pensiero neoclassico è esplicito: se lo scopo della scienza è quello di ricercare il vero, lo scopo dell’arte è quello di ricercare il bello. La ricerca del bello mediante la ragione è l’oggetto fondamentale di una branca particolare della filosofia: l’estetica. L’arte durante il periodo neoclassico si mette sulla strada della filosofia e si costituisce come scienza del bello. Ma la verità scientifica è dimostrabile, il bello no. Come si potrà giungere allora a definire un bello oggettivo?
Come per la filosofia non si può giungere alle verità filosofiche se non in quanto elaborate dalla speculazione filosofica, così anche per l’arte non si può giungere a definire il bello se non in quanto realizzato dall’arte. In altre parole per definire il bello bisogna guardare alla storia dell’arte e cercare in quei periodi in cui si ritiene che l’arte abbia raggiunto l’ideale della bellezza.
Il Winckelmann (1717-1768), l’ideologo del Neoclassicismo, indica l’arte del periodo classico dell’antica Grecia come l’arte che ha definito il bello; ma naturalmente non c’è solo un periodo a candidarsi.
Uno dei problemi su cui si svolge il confronto fra gli artisti neoclassici è quello di stabilire con quale modello identificare l’ideale artistico. Così per Canova (1757-1822), il massimo scultore neoclassico, l’ideale artistico si identifica con il bello naturale degli antichi Greci, mentre per David (1748-1825), il maggior pittore neoclassico, l’ideale artistico s’identifica con il bello morale, il bello eroico degli antichi Romani. Per Ingres (1780–1867), il miglior allievo di David, il bello s’identifica con il bello rinascimentale di Raffaello (1483-1520) che è insieme bello naturale e bello morale. È curioso ma la famosa polemica fra Ingres e Delacroix (1798-1863), capo riconosciuto del Romanticismo, ha avuto il suo momento di massima intensità proprio sulla scelta dell’ideale artistico che vedeva la contrapposizione, a distanza di tre secoli, dell’ideale classico di Raffaello e di quello eroico di Michelangelo (1475-1564).
Rimane comunque comune a tutti i maggiori artisti neoclassici il fatto che il modello, qualsiasi esso sia, è visto come un archetipo, cioè un modello a cui ispirarsi, un modello teorico a cui tendere, e non un modello da imitare.

RUOLO ETICO DELL’ARTE NEOCLASSICA

Il terzo ed ultimo punto fondamentale riguarda il ruolo etico. A partire dalla seconda metà del Settecento, uno dei compiti più pressanti che spetta agli artisti che si trovano ad operare nella nuova situazione socioculturale venutasi a determinare in seguito agli stravolgimenti politici ed economici provocati dalla rivoluzione industriale è quello di ridefinire il ruolo etico dell’arte nella nuova civiltà, scientifica e tecnologica.
La domanda a cui gli artisti più impegnati tentano di dare una risposta è se l’arte classica sia in grado di rappresentare ancora un modello di comportamento per l’uomo dell’epoca degli opifici. In altri termini ci si chiede per la prima volta se la manifestazione del bello, naturale o eroico che sia, può stimolare una condotta sociale virtuosa. Può l’artista neoclassico col suo modo di affrontare il lavoro artistico costituire un modello di comportamento per gli altri membri della comunità?
In quanto manifestazione di ideali l’arte neoclassica ha questo potere. In quanto tale si pone al di fuori della dimensione ordinaria, non si occupa di questioni pratiche, tuttavia rimane parte integrante del contesto socioculturale. Come la filosofia non si cura di risolvere i problemi della vita quotidiana, non fungerà più da modello tecnico al fare produttivo, ma servirà ad indicare modelli procedurali utili all’elevazione spirituale dell’individuo, contribuendo così all’innalzamento del grado di civiltà umana della nuova società.

ASSUNZIONE DEL MODELLO CLASSICO

Agganciare le finalità etiche ad un’arte appartenuta ad una civiltà scomparsa da secoli è possibile sul piano pratico trasponendo l’arte classica in un ambito soprastorico, fuori del tempo e dello spazio storici. Infatti, al di là del suo valore contingente di momento artistico particolare di un particolare periodo della storia dell’arte greca, l’arte classica presenta dei valori assoluti e universali al di fuori dello spazio e del tempo storico che sono quelli di ordine, precisione, controllo, misura, equilibrio e oggettività. Ma c’è dell’altro: nel mondo preindustriale, guidato dall’arte, ciò che era pratico era anche estetico; ora, nel mondo industriale, guidato dalla scienza, pratica ed estetica si separano, e ciò che è pratico non deve essere necessariamente estetico. Questa semplice constatazione comporta il rischio che la nuova società rimanga priva di bellezza, quindi per far fronte a questo inconveniente si fa ricorso ad un modello sicuro, come quello classico.
Con gli artisti neoclassici d’ora in poi si guarderà all’antichità classica come ad una via maestra, una strada per l’alienazione dalla realtà ordinaria, priva di qualsiasi valore estetico, al fine di raggiungere un piano di superiorità contemplativa, onde ritrovare la perduta armonia. Più che per trarre insegnamenti formali e tecnici da investire nell’esercizio professionale (cioè ad una precettistica) all’Antico si guarda come ad un modello teorico cui indirizzare la prassi creativa.

RELAZIONE CON L’ANTICHITÀ CLASSICA

Ma che cos’è esattamente l’Antico per gli artisti neoclassici? L’Antico è per loro una dimensione bella e perduta che la società moderna, voltando le spalle al passato, ha smarrito per sempre. Apparentemente, il Neoclassicismo sembrerebbe l’ultimo, disperato tentativo di far sopravvivere la concezione classicista dell’arte a dispetto dei cambiamenti operati in seno alla società dalle nuove forze produttive, invece, ad onta del nome, il Neoclassicismo non s’inquadra in una prospettiva storica di riproponimento dell’arte classica, bensì in una prospettiva storica di crisi dei valori classici; ed è proprio grazie a questo astoricismo che esso si può proporre come modello assoluto.

DIFFERENZA FRA IDEALISMO NEOCLASSICO E IDEALISMO CLASSICO

Il Neoclassicismo si qualifica come linguaggio idealistico, ma l’idealismo neoclassico, contrariamente a quello classico, non rientra nella prospettiva di una procedura orientata alla conoscenza della natura, bensì in quella orientata alla definizione di un’idea di bello, i cui capisaldi sono l’eticità dell’operazione estetica e il controllo della tecnica, come dire: bisogna spiegare il significato delle cose e comunicarlo con chiarezza. Ma il fine di questa operazione non è trasmettere l’emozione che provoca la contemplazione della perfezione del Creato, bensì l’emozione che provoca la visione della perfezione di un processo, tanto più sublime quanto meno utile, tanto più bello quanto meno contaminato dal legame con la realtà contingente.
Il Neoclassicismo fonda il processo operativo dell’arte sulle sensazioni; sostiene l’elaborazione mentale in forme universali dell’esperienza visiva; trascende la percezione visiva. Non per questo rifugge anche da situazioni di particolare suggestione; cambia solo l’oggetto che provoca la reazione emotiva. Nell’arte neoclassica la reazione emotiva si ricompone in una visione superiore, distaccata e contemplativa; le emozioni non sono più stimolate dalla suggestione di particolari aspetti della natura, ma dalla contemplazione di un ordine e di un’armonia trascendenti.

LINEAMENTI TEORICI

Parigi, Museo del Louvre
SALA DEDICATA AL DAVID

I lineamenti teorici del Neoclassicismo vengono tracciati in Germania, nella seconda metà del Settecento, da uno scrittore di Stendal, figlio di un povero calzolaio, Johann Joachim Winckelmann, divenuto famoso per aver dato vita a due opere letterarie assurte ben presto a manifesti della poetica neoclassica. La prima è un saggio del 1755, scritto all’età di 38 anni, intitolato «Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst», vale a dire «Pensieri sull’imitazione delle opere dei greci nella pittura e nella scultura»; la seconda è la più consistente «Geschichte der Kunst des Altertums» e cioè «Storia dell’arte dell’antichità», pubblicata nel 1764 all’età di 47 anni, quattro anni prima di morire assassinato. Questa seconda opera è il primo libro di storia dell’arte in senso moderno, cioè concepito come tentativo di delineare in modo unitario lo sviluppo dell’arte dagli Egizi agli antichi Greci: il suo capolavoro.
I due maggiori artisti neoclassici sono il Canova e il David; i due centri principali Roma e Parigi.
In Jacques Louis David è lo stesso percorso che in Antonio Canova, di diverso c’è solo il fatto che il primo lo compie da pittore, il secondo da scultore. Per David l’Antico non è un modello estetico come per Canova, ma etico; il classicismo non è l’esempio di una perfezione perduta, un‘ispirazione poetica, ma è l’esempio di un’arte libera da pregiudizi, cosciente della sua fondatezza nella natura e della sua finalità civile; non è l’arte classica un modello formale che ispira l’attività creativa ma un modello morale. Se per Canova l’ideale classico si identifica col bello naturale, per David si identifica col bello eroico, cioè un bello che non si misura con il metro, ma con il modo attraverso cui si comunicano le virtù di un personaggio o l’eticità di un’azione; un bello che non è fatto di proporzioni geometriche ma di gesti; un bello che non stimola l’ammirazione per la perfezione fisica ma per le qualità umane; un bello a cui si giunge non già idealizzando la realtà naturale, ma manifestando solide virtù: insomma più un bello ellenistico che classico. Se per il Canova l’arte deve indicare valori estetici, per David deve indicare valori etici; se per il primo deve indicare modelli di bellezza, per il secondo deve indicare modelli di vita; se Canova vede l’uomo bello come una divinità dell’Olimpo, David lo vede grande come un imperatore capitolino.
Nonostante le differenze sia per David che per Canova il modello classico è un modello di procedura il cui valore sta nel rigore metodologico, universale ed eterno, indipendente dalla tecnica adottata: più che altro una sorta di modello teorico. Per Canova l’immagine neoclassica è l’immagine di una bellezza che si avvia a tramontare per sempre; per David, per lo meno nel periodo rivoluzionario, l’immagine neoclassica è l’immagine di un ordine sempre attuale, l’ordine razionale, incarnato dalla rivoluzione francese. Non ci si limita solo a prendere ad esempio le forme antiche, ma si assume nei confronti del fare artistico lo stesso impegno che si presume assumessero gli Antichi nella realizzazione delle loro opere. L’arte è un modo di esperire la realtà; bisogna farlo con lo stesso atteggiamento tenuto dagli artisti del passato, cioè superare la fase emotiva della fase sensitiva, per guardare alla realtà dal piano superiore della ragione; l’arte è sollevamento dalla contingenza, sublimazione della realtà in concetto. Per entrambi comunque il classicismo non è statue da imitare.
Bene! Fermiamoci qui e andiamo a fare la conoscenza di questi due massimi interpreti della poetica neoclassica.

LA PITTURA NEOCLASSICA: JACQUES LOUIS DAVID

Parigi, Museo del Louvre
Jacques Louis David
IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI (1784)
Tela, altezza mt. 3,50 – larghezza mt. 4,17

Il Neoclassicismo nasce in Francia, prima in pittura poi in scultura; iniziamo quindi con il David. Per analizzarne i principali capolavori facciamo partire il racconto performante dalla sua storia, portandoci nel contempo al Louvre nel padiglione a lui dedicato.
David nasce a Parigi il 30 agosto. I genitori hanno una merceria che gli dà di che vivere più che dignitosamente. Il padre lo lascia quando è ancora bambino (muore in un duello). Rimasto orfano, di lui si prendono cura nonni e zii materni. Fatalità vuole che molti di loro sono costruttori edili e per professione hanno a che fare con pittori e scultori, in quest’epoca spesso chiamati a decorare edifici pubblici e privati. Inoltre la famiglia adottiva vanta una parentela prestigiosa, pur se molto alla lontana: sembra che siano imparentati con il più acclamato pittore rococò del momento, François Boucher (1703-1770). Ma non basta. In questo stesso periodo il giovanissimo Jacques Louis incontra un nuovo padre, Michel Jean Sedaine (1719–1797), un uomo che si è fatto da solo, dal niente, l’uomo che si accorge delle sue doti e lo fa ammettere nel prestigiosissimo Collège des Quatre Nations. Da questo momento il destino di Jacques Louis è segnato: farà il pittore. Dopo gli studi di rito viene messo ad irrobustirsi le ossa da Joseph Marie Vien (1716-1809); e intanto che si svolge la sua formazione professionale la moda del tempo inizia a cambiare. Si affaccia alla ribalta della storia un nuovo gusto, stanco dei capricci alla Fragonard (1732-1806), più incline alla rappresentazione compita e informata di un Batoni (1708-1787). È l’epoca di Claude Nicolas Ledoux (1736–1806) e della sua architettura avveniristica, ed è anche l’epoca dei primi scavi di Pompei ed Ercolano (1738-1765) e della nascita dell’archeologia (1764).
Giunti gli anni Settanta, acquisita sicurezza, per Jacques Louis è arrivato il tempo di mettersi in gioco sul mercato della pittura, così decide di partecipare al grande concorso Prix de Rome, un concorso molto importante che come premio da diritto al vincitore ad un soggiorno di quattro anni presso l’Accademia di Francia a Roma, in quest’epoca a Palazzo Mancini in via del Corso, e non a Villa Medici, a Trinità de’ Monti, dove si trova attualmente. Dopo tre tentativi andati a vuoto finalmente al quarto Jacques Louis riesce a portare a casa l’ambito premio con l’opera Antioco e Stratonice. Così nel 1775, all’età di 27 anni, fa i bagagli e parte per la Città Eterna: David arriva a Roma ai primi di novembre. Ora i viaggi all’epoca di David non erano come quelli dei nostri giorni: duravano mesi. Prima di arrivare a destinazione Jacques Louis passa per Torino, Parma, Bologna, Firenze. Qui ha occasione di fare la conoscenza diretta dei maestri italiani. Lo colpiscono in modo particolare il Correggio (1489 c. – 1534) e Guido Reni (1575-1642); a Roma rimane incantato davanti al Caravaggio (1571-1610), al Carracci (1560-1509) e al suo connazionale Poussin (1594-1665). Due anni dopo, il suo maestro Vien, divenuto direttore dell’Accademia di Francia a Roma, introduce l’usanza di allestire una mostra annuale delle opere degli allievi dell’accademia; le migliori vanno in Francia per essere valutate da una commissione per l’ammissione al Gran salon d’automne. Per l’occasione David presenta il bozzetto per I funerali di Patroclo, opera che però non verrà mai eseguita.
Il soggiorno a Roma si prolunga di un anno oltre il tempo regolamentare. Al suo rientro a Parigi qualcosa è cambiato; arriva il primo successo e il suo nome non è più uno tra i tanti.
Non ha ancora compiuto 34 anni che sposa Marguerite Charlotte Pécoul (1764-1826), la quale gli darà quattro figli. Il matrimonio non è solo un matrimonio d’amore, lo introduce infatti nel giro della borghesia agiata della Parigi Luigi XVI e gli procura una certa tranquillità economica. Con l’aiuto di parenti e amici mette su un atelier e inizia a ricevere incarichi importanti: i tempi per il capolavoro sono ormai maturi. L’occasione gli viene fornita dal re in persona Luigi XVI (1774-1792) che lo incarica di eseguire una tela avente come soggetto il giuramento degli Orazi.
David si appresta a lavorare al quadro nell’autunno del 1784; lo termina nell’estate del 1785, appena in tempo per esporlo al salon. La tela viene eseguita a Roma e qui esposta nel suo atelier capitolino prima di essere spedita in Francia. Il successo è strepitoso: per David è il primo atto di una carriera stellare.

ANALISI DELL’OPERA IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI

Dopo un esordio alla Boucher, David passa decisamente all’avanguardia. Il giuramento degli Orazi è il quadro che inaugura la pittura neoclassica. Il soggetto prende spunto da una pièce teatrale ispirata ad una tragedia di Corneille (1606–1684) del 1640: la qual cosa ci dice in una maniera non poco eloquente sul come Jacques concepisce le sue opere. Per lui il lavoro del pittore è simile a quello del regista di teatro, un lavoro in cui ci si deve preoccupare del soggetto, delle scenografie, delle luci, il tutto al fine di suscitare comportamenti emulativi negli spettatori. Il dipinto è una rappresentazione immaginaria ma verosimile di un evento ambientato in uno spazio immaginario ma verosimile, il cui scopo è quello di avere un certo effetto sulla comunità. Ciò è molto vicino a quello che vanno facendo gli artisti rococò, la differenza sta nei valori e nel modo di comunicarli. Il valore fondamentale che si vuole comunicare con Il giuramento degli Orazi è la fedeltà alla repubblica a costo dell’estremo sacrificio.
Sebbene suggerito da Corneille il dipinto ha come modello probabile Il giuramento dei tre confederati di Füssli (1741-1825), eseguito appena quattro anni prima per la città di Zurigo.
La vicenda è nota: racconta della sfida dei tre fratelli Orazi, Romani, contro i tre fratelli Curiazi, di Albalonga, per la difesa delle libertà repubblicane. L’immagine coglie i tre Orazi nel momento in cui giurano solennemente davanti al padre di combattere per la salvezza di Roma fino all’estremo sacrificio; al lato opposto tre donne sono affrante dal dolore a causa della irrevocabile decisione dei loro uomini. La figura in primo piano è Camilla, amante di uno dei Curiazi, mentre la seconda è Sabina, sposa di uno degli Orazi e madre dei due bambini abbracciati dalla donna velata in nero; l’episodio è ambientato in quello che sembra essere un portico di un edificio classico più che l’atrium di una domus repubblicana. La composizione fa leva su tre blocchi di figure separate tra loro ma uniti dalla chiara espressione delle singole volontà da una parte e i sentimenti dall’altra che ne determinano l’agire. Ogni gruppo è inquadrato nell’arcata del portico di fondo; la luce piove dall’alto e dalla parte sinistra ad illuminare la scena della muta dichiarazione di fedeltà alla causa. Non trapela in questo lavoro un filo di emozione. La tecnica è impersonale e asciutta, ma non perché David sia insensibile quanto perché per lui le emozioni vanno virilmente disciplinate. La struttura è impostata su uno schema di piani ortogonali; l’accostamento dei tre fratelli e dell’anziano padre con le colonne di fondo hanno un senso esplicito: la solidità di quella promessa è simile alla solidità di quei marmorei sostegni.
Il classicismo di David in quest’opera consiste in un realismo orchestrato per incidere sul presente, non già in un’anacronistica applicazione di canoni classici alla realtà contingente; un realismo indirizzato a dar conto degli epiloghi, a volte paradossali, delle vicende umane, comunicato attraverso un ordito invisibile ma non impercettibile di elementi linguistici perfettamente misurati.

LA MORTE DI MARAT

Bruxelles, Musei reali delle belle arti
Jacques Louis David
LA MORTE DI MARAT (1793)
Tela, altezza mt. 1,60 – larghezza mt. 1,28

Artista ormai affermato, lo scoppio della rivoluzione coglie il David intento a dare gli ultimi ritocchi al quadro intitolato I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli. L’opera eseguita su commissione del re, date le circostanze, acquista significati rivoluzionari e Jacques Louis diventa il pittore della rivoluzione. Nel 1792 è eletto deputato alla Convenzione Nazionale. Per due settimane ne detiene la presidenza, firmando numerosi mandati di comparizione di fronte al tribunale della rivoluzione. Nel gennaio del 1793 vota insieme agli altri la condanna a morte del più prestigioso dei suoi committenti, Luigi XVI. Ma la sua partigianeria, sulla cui genuinità si sta ancora indagando, gli fa perdere molti amici e la moglie, che infatti divorzia da lui nel 1794.
È questo il contesto storico in cui matura il suo capolavoro: La morte di Marat, eseguito nel 1793, all’età di 45 anni; la sua opera più alta, che per volontà del fato non sta al Louvre.
Il titolo, stando al suggerimento lasciatoci dall’autore sul dipinto stesso, non è proprio quello con cui è universalmente noto: in realtà dovrebbe avere il suono laconico di una dedica: “a Marat. David”. Il soggetto fa riferimento all’assassinio di Marat (1743-1793) avvenuto per mano di Carlotta Corday (1768-1793). La tela riporta la data del 1793, dunque viene dipinta lo stesso anno dell’assassinio del rivoluzionario. Tuttavia, benché l’avvenimento venga presentato come un fatto di cronaca, come se l’artista stesse ad operare sulla scena del delitto, la tela non ritrae l’accaduto dal vero, ma esibisce la ricostruzione del fatto.
Jean Paul Marat, giornalista e capo rivoluzionario fra i più influenti, è uno dei nove membri del terribile comitato di salute pubblica, l’organo che si rende responsabile del più sinistro periodo della rivoluzione francese, il cosiddetto periodo del terrore. Si pensi che sotto il suo potere in un mese e mezzo vengono ghigliottinate circa 1.400 persone (una trentina di persone al giorno). Fra le tantissime vittime innocenti figurano anche illustri personalità del mondo della scienza e dell’arte, come il chimico Lavoisier (1743-1794) e il poeta Andrea Chenier (1762-1794), mandati a morte solo perché colpevoli di appartenere a classi agiate.
Anche Carlotta Corday, come Marat, è una rivoluzionaria, ma fa parte dei cosiddetti Girondini, gruppo di oppositori che forma l’ala moderata della rivoluzione. Come è noto fra Girondini e Giacobini, il partito a cui appartiene Marat, non corre affatto buon sangue, e quando questi ultimi assumono il controllo della rivoluzione la loro azione repressiva si rivolge anche contro i cugini della sinistra moderata. La Corday per vendicarsi delle numerose morti mietute fra i suoi compagni di “partito”, giustiziati proprio dai rivoluzionari del comitato di cui Marat è parte attiva, lo uccide, colpendolo con un coltello mentre questi si trova nella vasca da bagno per lenire i dolori causatigli da una grave forma di dermatite. L’omicidio risale al 13 Luglio del 1793. All’epoca della morte Marat ha 50 anni. Come ce lo racconta David il fatto?
Il quadro ci presenta Marat nella vasca da bagno, appoggiato sullo schienale, col capo riverso a destra, con la penna d’oca ancora stretta fra le dita e due lettere, di cui una di supplica, per ottenere un sostegno economico a favore di una cittadina in gravi difficoltà sottopostagli dalla stessa assassina, e l’altra, appena finita di scrivere, con l’ordine di consegnare l’assegnato (un assegno) alla cittadina bisognosa. A terra, sulla sinistra, l’arma del delitto, a destra, la penna, l’arma del tribuno.
Il dipinto ha senza dubbio un intento testimoniale, ma quello che si propone David non è certo limitato a rilevare la disposizione degli oggetti, come farebbe un inviato speciale in un’inchiesta. Insomma David non si propone di fare soltanto da testimone oculare del delitto; non è un cronista, è un artista, e come tale si sente in dovere di trascendere i fatti per ricomporli sul piano superiore dei concetti: e nella dimensione concettuale anche la casualità deve essere ricomposta. Ma non si può ricomporre la casualità senza esprimere dei giudizi di valore, per cui Louis non si attiene alla cronaca dei fatti ma li ricompone nella logica superiore dell’epilogo morale.
Quello che lui intende per realismo è la restituzione della vicenda con l’aggiunta della riflessione filosofica. Lo spunto, la realtà empirica uguale stimolo, è un avvenimento di cronaca, David lo trasforma in significato universale, la realtà concettuale uguale il vero.
Il messaggio globale di David è il senso filosofico morale di questa amara immagine attraverso cui la storia ci insegna che sono sempre i giusti a pagare.
Come viene comunicato tale contenuto?
Ogni dettaglio racconta qualcosa del personaggio. La vasca dice della malattia, l’ordine appena finito di scrivere dice della generosità del compagno cittadino, la situazione contingente fa capire come neanche la sofferenza procuratagli dal male gli impedisce di pensare ai più bisognosi; le poche cose che arredano la stanza da bagno, la cassetta su cui è poggiato il calamaio, una penna di riserva, danno la misura dell’integrità morale del politico, il quale non ha approfittato della sua posizione sociale per migliorare le proprie condizioni economiche; la lettera di supplica il tradimento della bontà. Lo spazio che sovrasta Marat non è il vuoto, ma il nulla, il non essere che si contrappone all’essere. Come Caravaggio all’incirca due secoli prima, il passaggio dalla morte al nulla è affidato alla luce. Il braccio disteso di Marat morto è palesemente ripreso dal braccio del Cristo che sta per essere calato nella fossa raffigurato nella Sepoltura di Cristo della Pinacoteca Vaticana, dipinta fra il 1602 e il 1604. Là indicava il nulla, qua indica l’epilogo morale: la luce dell’intelletto contro la cecità di quel delitto ingiusto.
Di fronte a quest’opera ci si chiede dove sia il neoclassicismo, dove sono capitelli, frontoni, templi classici. Marat morto non è certo un modello di bellezza; non c’è nulla della fredda interpretazione storicista del Winckelmann; l’immagine è piuttosto realistica, l’aspetto del rivoluzionario non è affatto idealizzato. Tuttavia è idealizzata la situazione. Infatti David non ce la presenta come un brutale assassinio politico, ma come l’assassinio della ragione e della generosità. La compostezza con cui il corpo esanime di Marat si da all’osservazione evoca la misura classica; ma questa compostezza non è nella natura, bensì nell’autore che s’impone di resistere ai sentimenti. Fine dell’arte è trasporre l’ordine dei fatti a quello superiore della morale, e Marat morto non sarà bello come una divinità dell’Olimpo, ma muore come un eroe il quale induce a riflettere sul fatto che sono sempre i giusti a pagare. Dunque nella morte di Marat c’è ancor più che nei lavori precedenti tutto il senso della poetica del David che vede nel bello neoclassico un bello morale piuttosto che un bello naturale: per lui l’evasione dell’arte dal sociale è finalizzata ad una maggiore chiarezza del contesto storico in cui si opera.

IL RITORNO DI DAVID AL SUCCESSO

Parigi, Museo del Louvre
Jacques Louis David
CONSACRAZIONE DI NAPOLEONE I (1805/1808)
Tela, altezza mt. 6,09 – larghezza mt. 9,18

La mattina del 9 Termidoro (27 luglio) dello stesso anno dell’assassinio di Marat, all’assemblea della Convenzione ci dovrebbe essere anche Jacques Louis, ma lui non c’è. Una soffiata provvidenziale gli consiglia di darsi malato e rimanere a casa. Robespierre (1758-1794), Saint-Just (1767-1794) e una ventina di giacobini vengono arrestati e il giorno dopo ghigliottinati. David è un ardente seguace di Robespierre, pronto a farsi tagliare la testa, a parole, ma non nei fatti. Nei fatti lui la testa non la vuole perdere, e non la perde. Viene arrestato tre giorni dopo e portato davanti al tribunale e qui rinnega il suo tribuno. La controrivoluzione lo rinchiude in carcere fino alla fine dell’anno. In carcere Jacques Louis non rinuncia alla pittura, dipingendo un autoritratto e un piccolo paesaggio, una veduta del giardino del Luxemburg, l’unico paesaggio dipinto in vita sua. La prigionia lo riavvicina alla famiglia e agli amici, quelli rimasti con la testa sulle spalle; ma la libertà riacquistata è una libertà sorvegliata. Il 26 ottobre 1795 un’amnistia cancella i reati di cui continua ad essere accusato.
Come ogni cosa al mondo anche la rivoluzione passa. Nel periodo post rivoluzionario David è un altro David. La sua ricerca volge ad ideali di bellezza grecizzante; le anatomie si fanno di marmo e gli sfondi si arricchiscono di decoratissimi templi e particolareggiati ornamenti. Nel 1797 Jacques Louis incontra per la prima volta Napoleone (1804-1814) ed è l’inizio della sua rinascita. L’opera che ne segna il culmine è la gigantesca Consacrazione di Napoleone I, avvenuta il 2 dicembre 1804, di oltre 6 mt. di altezza per circa 10 mt. di larghezza. Iniziata nel 1805, viene portata a termine nei primissimi giorni del 1808.
La caduta di Napoleone segna il suo declino definitivo. Con il ritorno dei Borboni sul trono di Francia (1814) Jacques Louis è costretto a scegliere fra chiedere il perdono e rimanere o imboccare la via dell’esilio. Sceglie la seconda strada. Muore a Bruxelles, per un colpo apoplettico, il penultimo giorno del 1825, all’età di 77 anni.

LA SCULTURA NEOCLASSICA: ANTONIO CANOVA

Parigi, Museo del Louvre
Antonio Canova
AMORE E PSICHE GIACENTI (1787/1793)
Marmo, altezza mt. 1,55 – larghezza mt. 1,68

Come è avvenuto per tante altre poetiche che sono state teorizzate nel corso della storia anche per quella neoclassica tra la teorizzazione e l’interpretazione operata dai singoli artefici c’è una certa differenza. Così è tra il Neoclassicismo teorizzato dal Winckelmann e quello realizzato dal Canova.
Il Canova e il David non interpretano il Neoclassicismo come imitazione di modelli passati, ma, da romantici idealisti, lo interpretano come sublimazione, della natura il primo, della storia il secondo; nessuno dei due interpreta il classicismo in senso archeologico. Entrambi concepiscono la classicità quale percorso di trasposizione della realtà contingente dall’ordine dei fatti all’ordine delle idee. E questo trasporre le cose dal fisico al metafisico rivela la stretta parentela del Neoclassicismo col Sublime preromantico; c’è solo una piccola differenza: il Sublime preromantico prescinde dall’esperienza dei sensi.
L’arte per Antonio Canova è l’arte classica, così come vuole il Winckelmann, ma non solo e sempre quella dei Greci antichi. Secondo lui il Classicismo non è cultura storica da investire nella costruzione del presente, né un mondo da rivitalizzare con la fantasia; è invece una dimensione da evocare tramite la sensibilità moderna. L’importanza del Canova sta tutta qui: ridare attualità alla mitologia, animando le statue delle antiche divinità con la nuova sensibilità ottocentesca alla luce, al colore, al chiaroscuro.
Antonio Canova è stato l’artista dei papi e dei re; non ha servito nessuna rivoluzione, ma neanche nessuna restaurazione, ha servito solo l’arte. All’Arte ha dedicato anche il suo amore incondizionato, quell’amore che nessuna donna gli ha saputo donare. A Venezia si parla di una “lei” segreta, certa Laura; a Roma si lega a Domenica, figlia dello scultore Domenico Volpato, che lo lascerà per sposare un altro. Anche con lui come con il David prendiamo spunto dalla sua storia personale per raccontarne in una performance la parabola artistica.
Antonio è un enfant prodige. Nasce a Possagno il primo novembre del 1757. Suo padre Pietro e suo nonno Pasino sono, come tutti del resto in paese, tagliatori e scalpellini. A quattro anni resta orfano; la madre si risposa e lui cresce con i nonni. Presto il piccolo Tonin da segni del suo smisurato talento. La leggenda dice che ancora bambino tirò fuori un leone da un panetto di burro. Se ne accorse il nonno che in seguito al precocissimo mini-saggio iniziò ad attivarsi per avviarlo agli studi artistici. Così per il giovane Canova inizia l’apprendistato che ben presto lo porta a rivelare tutte le sue qualità.
Dal suo primo insegnante, il Torretti (1694 c. – 1774), impara la tecnica dello scolpire statue di qualsiasi misura. Questa si può riassumere in quattro passaggi fondamentali: il primo consiste nel realizzare il modello in creta, cera o stucco; il secondo nel rilevare i punti più sporgenti e riportarli sul blocco di marmo; il terzo nel procedere alla sbozzatura; il quarto ed ultimo nel rifinire il tutto.
Il contesto culturale in cui avviene la formazione del giovane Canova è dominato dai Longhi in pittura, Pietro (1701-1785), padre, Alessandro (1733-1813), figlio, e dai fratelli Morlaiter in scultura, figli di Giovan Maria (1699-1781), dunque in un clima ancora “pittoresco” e pieno di sentimento. Ma Tonin è attirato molto di più dagli scultori rinascimentali, come un Tullio Lombardo (1455 c. – 1532). A soli 17 anni arriva il primo impegno importante: l’Orfeo e Euridice. È un successo. Da questo saggio inizia la sua strepitosa carriera.
Il 4 novembre 1779 Antonio arriva a Roma. Qui entra in contatto con un contesto culturalmente più vivace e in grado di apprezzare al meglio il suo lavoro. A Roma fa anche la conoscenza delle nuove teorie del Winckelmann, morto assassinato 11 anni prima. In questo ambiente, saturo di antichità e del nuovo spirito archeologico, si è convinti che per ottenere una buona opera d’arte non si può far altro che imitare le statue antiche. Canova invece non intende il Neoclassicismo come una fredda applicazione di una teoria dell’arte all’arte, applicazione di principi astratti ad una attività concreta; non ne fa solo una questione di misure, ordine e simmetria. Per lui l’arte classica non è un prototipo, ma un archetipo, non è un modello, ma un ideale estetico, non imita le statue classiche, ne inventa di nuove, insomma per Tonin l’artista non imita modelli, fa modelli da imitare. Dunque il Neoclassicismo di Canova si presenta non già come un processo d’imitazione né di altre statue ne direttamente della natura. È un processo di idealizzazione, dall’esperienza emotiva all’ideale da contemplare; si identifica col processo di sublimazione dalla sbozzatura alla rifinitura, cioè nella spiritualizzazione della tecnica scultorea. Non si coglie solo nelle proporzioni delle singole parti col tutto ma principalmente nel ritmo con cui queste si dispongono in rapporto reciproco nella composizione generale.
Il processo da lui seguito va dalla sensazione visiva al pensiero, dal sentimento alla morale, dal piacere al dovere, dal suggestivo al bello. Per Antonio il classico è l’esito ideale a cui indirizzare un processo di sublimazione che fonda le sue radici nell’esperienza viva della realtà contingente e tende al piano superiore della pura speculazione; non ha alcuna funzione costruttiva nella situazione presente, semmai ha lo scopo di sollevare lo spirito dagli aspetti materialistici del mondo terreno per trasporlo in una condizione di imperturbabilità contemplativa. Il classico per Canova non è coincidenza fra proiezione dall’oggetto al soggetto e viceversa, ma un processo di decantazione il cui scopo è quello di separare le passioni dal pensiero, le impurità che circolano nella coscienza, intorbidendola, dalla purezza della poesia, espressione suprema del pensiero astratto: in arte la forma improntata nel bozzetto dall’opera finita, la statua.
Con Canova non si ricorre più al classico per fornire la società di un modello di tecnica da seguire nella produzione dei beni di consumo ordinari, ma vi si ricorre per curare un comportamento personale che funga da esempio per un costume riflessivo sociale: l’arte è una sorta di riflessione filosofica il cui fine è il dominio dei sensi. In ciò si accosta al pensiero davidiano: infatti tutti e due concepiscono il classico come atarassia speculativa. Per Canova come per David il classicismo si configura in un modello di comportamento che consiste nel distaccarsi dalla realtà per contemplarla dal piano superiore delle idee universali, solo che il Canova fa coincidere queste idee con l’arte classica dei Greci, fondata sul perfetto equilibrio fra ideale e natura, il David le fa coincidere con l’arte classica dei Romani, fondata sul perfetto equilibrio fra ideale e società. In tutti e due, comunque, il classicismo non è imitazione di modelli formali particolari, ma aspirazione ai principi di armonia, propri dell’arte classica.

Venezia, Museo Correr
Antonio Canova
DEDALO E ICARO (1779)
Marmo, altezza mt. 2,20

Dedalo e Icaro è l’opera che segna il momento della scelta fra contingente e metafisico. Il realismo persiste ancora nel volto di Dedalo (probabilmente quello di suo nonno Pasino), ma in Icaro è già la prova della decisione presa: la sua arte tenderà all’ideale. L’equilibrio in questo gruppo non è di forme, ma di forze. Intorno all’asse di simmetria si dispongono i due rami di un’iperbole generata dalle spinte equipollenti ma opposte segnate dalle movenze dei due corpi. Tuttavia la contrapposizione non è di masse, bensì di zone luminose: alla grande zona d’ombra creata dal corpo di Dedalo che si piega in avanti si contrappone la superficie aperta alla luce di Icaro che si ritrae.

MONUMENTO DI CLEMENTE XIV, OVVERO RAPPORTO FRA SCULTURA NEOCLASSICA E ALDILÀ

Roma, chiesa dei Santi Apostoli
Antonio Canova
MONUMENTO DI CLEMENTE XIV (1783/1787)
Marmo, altezza mt. 7,40

Che cosa intende il Canova per Neoclassicismo è possibile visualizzarlo analizzando una delle sue opere giovanili più impegnative, il Monumento funebre a papa Clemente XIV, eseguito tra il 1783 e il 1787, tra i 26 e i 30 anni. Si tratta della prima opera compiuta dopo gli studi fatti a Roma e a Napoli. In questo complesso sepolcrale, la cosa che risulta subito evidente è, come si è detto più volte, che per Antonio il classico non è un modello da copiare, bensì un archetipo di bellezza a cui ispirarsi. Qui il suo obiettivo non è realizzare una stele classica, ma riportare alla regolarità classica la versione berniniana del monumento funebre. In modo particolare l’artista si richiama al Monumento funebre di Urbano VIII iniziato dall’inventore del Barocco nel 1628 e terminato nel 1647. Rispetto all’opera del Bernini (1598-1680) il Canova crea un impianto molto più schematico, molto più severo, molto più statico. Tutto quello che in Gian Lorenzo era vigore tecnico, movimento, in Antonio è gelido rigore, immobilità assoluta. Sembrerebbe un’involuzione e invece è l’espressione di un nuovo atteggiamento, critico nei confronti della poetica barocca.
Nel tornare sull’opera del Bernini, il Canova esprime la sua opinione sulla tecnica statuaria. La scultura non deve dipendere dal virtuosismo dell’artefice; l’arte deve essere un processo di sublimazione, e in questo processo la tecnica deve essere il mezzo attraverso cui si passa dalla sensazione individuale al sentimento universale. Dunque il trevigiano vede nella tecnica, fredda, scientifica, il mezzo più adatto per arrivare al sublime; e la tecnica raggiunge il sublime quando nell’opera è scomparsa ogni residua traccia dell’intervento soggettivo dell’artefice. Questo processo si esprime col percorso seguito nell’esecuzione: dall’impronta dell’artista lasciata nel bozzetto, dove manifesta la sua sensibilità viscerale, alla rifinitura del tecnico, dove ogni residua emotività è scomparsa.
La prova che per il Canova il bello si identifica con l’impersonale ce la fornisce il fatto che l’artista si serve dei tecnici del marmo per rifinire le sue statue, proprio perché non traspaia nell’opera finita alcun segno che possa rivelare l’emotività dell’artefice. In questa sua posizione c’è il germe di un’idea modernissima, o se si preferisce il precorrimento della figura dell’artista moderno, il quale si limita a fornire l’idea, il “bozzetto”, che poi altri, i tecnici dell’impresa, realizzeranno.
Il monumento ripropone la struttura piramidale, con due figure allegoriche ai lati del sarcofago e il Papa assiso sul trono pontificio alla sommità dell’intera composizione. Canova ricorre allo schema piramidale poiché la piramide allude alla tomba, all’aldilà.
Anche se il monumento del Bernini è più mosso, il suo schema è assai più simmetrico di quello di Antonio. Sebbene equidistanti dall’asse verticale, le due figure allegoriche femminili presenti nel gruppo marmoreo, la mansuetudine, seduta ai piedi del sarcofago, e la temperanza, chinata, si dispongono su due livelli diversi: la seduta, sulla seconda articolazione del grande podio di base, l’altra, la piegata, sulla base superiore dello stesso. Questa disposizione suggerisce un percorso che dal centro dell’asse di simmetria sale, piegando prima a destra e poi a sinistra, fino a concludersi nella figura del Papa, provocando così nell’osservatore un senso complessivo di ascensione verticale. A questo movimento che sale, seguendo una traiettoria spezzata, se ne aggiunge un altro, che penetra dal piano di massima sporgenza, delimitato dalle ginocchia della statua seduta, al piano di fondo. Quest’ultimo è costituito apparentemente dallo schienale del seggio papale, ma in realtà è individuato dal piano della porta che si trova in basso, al centro dell’asse della struttura piramidale. Il doppio movimento che ne deriva allude al percorso sublimante dalla vita alla morte, che è ascesa, svolta, addentramento e, infine, innalzamento verso il cielo. Ma, allo stesso tempo, è anche allontanamento dal mondo dei vivi, dal piano della realtà contingente, verso il piano dell’immutabilità ideale: ancora un passo e poi il Papa, il quale ha il braccio destro alzato in segno di saluto, scomparirà dietro quella porta chiusa, che allude appunto all’oltremondo, su cui il Canova, laico, non si pronuncia. Ma il commiato del Papa non è solo un addio. Nel gesto di saluto di Clemente XIV (1769-1774) c’è l’immagine dell’arte, che può sopravvivere solo là, nella dimensione situata fra il piano dell’esperienza e l’oblio, fra la vita e la morte. Questo, secondo Tonin, è il piano d’esistenza dell’arte classica, un piano sospeso fra la dimensione dell’essere e del non essere.
A differenza del gesto, tutta energia, che spinge all’infuori il braccio di Urbano VIII (1623-1644), il gesto di Clemente XIV è la perpendicolare sia al piano frontale della nicchia, in cui si situa il monumento, sia all’asse verticale della piramide, in cui idealmente si racchiude. La calibrata rappresentazione ci rammenta che c’è una stretta affinità fra ordine e aldilà. Infatti è solo nell’oltretomba, dove i sensi ci lasciano, che si può incontrare il regno dell’assoluto. Dunque l’arte ha a che fare con la morte. Ecco spiegato perché il classicismo canoviano si esprime al meglio nei monumenti funebri; ecco spiegato perché nelle opere del Canova si respira sempre un leggero senso di fredda inanimatezza.
Questo monumento è il primo di una serie in cui l’artista affronta il tema della morte. Ad esso ne seguirà subito un altro, dedicato al predecessore di Clemente XIV, Clemente XIII (1758-1769), che lo vedrà impegnato per cinque anni, fino al 1792. E intanto arriva il tempo della rivoluzione.

Roma, Galleria Borghese
Antonio Canova
PAOLINA BORGHESE COME VENERE VINCITRICE (1804/1808)
Marmo, lunghezza mt. 2

Quel che sta accadendo in Francia non piace affatto ad Antonio, il quale, contrariamente a Jacques Louis, non è per niente entusiasta del rovesciamento violento del potere aristocratico. Tuttavia il colpo più duro per lui è l’occupazione del 1797 di Venezia da parte degli austriaci, e non solo perché vede la Serenissima cadere in mani straniere, ma anche perché si vede tagliare il vitalizio accordatogli dal senato veneziano. Comunque le afflizioni per il suo amato Paese non gli impediscono di intrecciare rapporti con i dominatori. L’epoca napoleonica non restituisce Venezia ai veneziani, però segna il culmine della sua fama che diventa davvero stellare. Dal 1803 al 1817 Canova è lo scultore ufficiale della famiglia Bonaparte; nel 1802 intanto arrivano anche gli incarichi di prestigio pubblici. Pio VII Chiaramonti (1800-1823) lo nomina ispettore generale delle Belle Arti in Roma e in tutto lo stato pontificio. Caduto Napoleone nel 1815 Tonin ritira fuori l’abito da patriota e s’impegna, su proposta dello stesso Pio VII, a recuperare il maggior numero di opere d’arte trafugate durante le campagne napoleoniche.
Il ritratto di Paolina Borghese come Venere vincitrice è senz’altro la sua opera più famosa. Il Canova la realizza in quattro anni, dal 1804 al 1808, il periodo in cui ritrae parecchi membri della famiglia Bonaparte nei panni di varie divinità.
Tonin era nato nel marmo, deve la sua fama al marmo, muore a causa del marmo. Le polveri respirate per una vita intera gli causano problemi ai polmoni che con l’andar del tempo si aggravano fino a condurlo alla morte, che bussa alla sua porta nel 1822 quando è molto prossimo a compiere 67 anni.

INGRES E IL BELLO LAICO

Parigi, Museo del Louvre
Jean Auguste Dominique Ingres
LA BAGNANTE DI VALPINÇON (1808)
Olio su tela, altezza cm. 146 – larghezza cm. 97

Nel Salon del 1855 due sono gli indiscussi protagonisti della rassegna: uno è Delacroix, l’altro Ingres. Ingres è generalmente ritenuto un artista neoclassico, ma più che un neoclassico è un antiromantico. Anche per lui come per Delacroix il bello non va più ricercato nella cultura bensì nell’esperienza visiva. Ma mentre per Delacroix l’esperienza dei sensi è uno stimolo per manifestare i propri sentimenti per Ingres l’arte consiste nel trovare un equilibrio fra tutte le componenti della raffigurazione. Ancor prima di Delacroix, Ingres guarda al presente, ma al contrario di questi fa della pittura una questione di visione, anticipando con ciò l’antiromanticismo dell’epoca romantica.
Allievo di David (tra i due corrono 32 anni di differenza, dunque una generazione), Ingres traduce la lezione del maestro come procedimento per raggiungere non già la contemplazione filosofica ma l’atarassia visiva. Jean Auguste Dominique Ingres nasce a Montauban, Francia, muore a Parigi alla veneranda età di 87 anni. Nelle sue opere, contrariamente a quanto avviene nelle opere del suo maestro, la figura umana non è più sentita come figura eroica; si capisce: Ingres è ormai lontano dalla concitazione del clima rivoluzionario; vive in un nuovo momento storico, un momento che vede l’ascesa e la disfatta di Napoleone e la restaurazione dei vecchi regimi accanto alla nuova classe di finanzieri e industriali. Anche per lui l’artista ha il dovere del bello, ma il suo bello, contrariamente a quello del Canova, non si identifica nell’operazione che trasforma l’immagine della realtà contingente nella visualizzazione di un modello teorico, ma nemmeno con il procedimento che trasforma il soggetto umano in soggetto eroico, come proponeva David. Dominique desume dalla realtà contingente il suo modello, senza trasformarlo in canoni formali o eroi; la sua azione si limita a sublimare in un ordine superiore quello che è il caos dell’effimero. In ciò si sente epigono di Raffaello e del suo classicismo moderno, universale, al di là di ogni accidentale contingenza storica e ambientale.
Per comprendere cosa significhi esattamente quanto testé detto andiamo ad analizzare a mo’ d’esempio La bagnante di Valpinçon, una tela del 1808, dipinta a Roma, durante il suo primo soggiorno nella Città Eterna, ospite dell’accademia di Francia. È l’epoca in cui indiscusso re dell’arte è il Canova.
Per il Canova il bello ideale appartiene alla figura, trascende l’esperienza personale; per Ingres il bello non è nella cosa in sé, bensì nel rapporto fra cosa e cosa. E anche questo si capisce: Canova è scultore, guarda alla statua come ad un elemento isolato da tutto il resto; Ingres essendo invece pittore è abituato a concepire la singola figura in rapporto a tutte le altre. Ciò è sufficiente a determinare una diversa interpretazione del bello. Per lui il bello non è un dato a priori; si rivela alla fine del processo creativo, quando tutti gli elementi costitutivi dell’immagine trovano una sintesi unitaria. Difatti se si guarda attentamente il quadro ci si accorgerà che la schiena risulta più larga del necessario (almeno questo è quello che dicono gli esperti). Ma l’errore non è altro che un espediente escogitato a bella posta per prolungare il tempo di godimento degli occhi per quell’effetto di luce che inonda le spalle della donna facendole apparire d’alabastro ambrato. La figura sembra essere perfettamente definita da una sinuosa linea di contorno, indispensabile alla determinazione dell’armonia formale dell’intero corpo. Eppure si provi ad isolarla dal contesto di luce ed ombra in cui è inserita e ci si accorgerà subito che risulta incredibilmente sproporzionata; le gambe risulteranno troppo piccole rispetto alle altre parti anatomiche. Si provi ora ad immaginare il quadro senza più il colore: l’effetto sarà quello di un appiattimento generale. Questo perché il chiaroscuro è generato dai rapporti cromatici, regolati sulla contrapposizione dei toni caldi della figura e freddi dello spazio ambiente.
La bagnante di Valpinçon ha un precedente diretto: La morte di Marat. Solo che nel dipinto di David vi sono implicate motivazioni ideologiche e morali, qui ciò che conta è la pittura, e solo la pittura. Affinché la cosa risulti esplicita, Ingres rappresenta la sua donna di spalle, onde evitare ogni suggestione emotiva e sensuale.
In conclusione il bello per Ingres è l’armonizzazione di un complesso di forme, di luci o di colori. È l’equilibrio di tutte queste cose messe insieme, sintetizzate in modo tale da non poterne isolare una senza che ne risenta l’intera struttura. Una concezione più vicina al Batoni che al David.

L’ARCHITETTIRA NEOCLASSICA DI BOULLÉE E LEDOUX

Parigi, Biblioteca nazionale
Ètienne Louis Boullée
PROGETTO PER IL CENOTAFIO DI NEWTON (1784/1785)
Penna e inchiostro sfumato, altezza cm. 44 – larghezza cm. 66

Parigi, Biblioteca nazionale
Claude Nicolas Ledoux
PROGETTO PER LA CASA DELLE GUARDIE CAMPESTRI (1790)
Incisione, altezza cm. 27 – larghezza cm. 43,3

Ètienne Louis Boullée (1728–1799) e Claude Nicolas Ledoux sono meglio conosciuti come gli architetti della rivoluzione, e in effetti la loro architettura è rivoluzionaria, talmente rivoluzionaria che molti dei loro progetti sono rimasti solo sulla carta. In un panorama dominato da chiese che sembrano templi classici, biblioteche che sembrano terme romane, mausolei che sono insieme tempio, pantheon e piramidi, la loro opera spicca per originalità. L’assunto dei due architetti è al pari di quello del David, pittore, di tipo etico, non estetico; la loro architettura non tende a rivestire di capitelli e architravi edifici che rispondono ormai a nuove esigenze funzionali, bensì a definire delle tipologie universali adattabili ai contenuti pratici particolari. Ciò spiega alcune fra le loro più strepitose invenzioni, uguali nell’ispirazione morfologica ma completamente diverse nella funzione: infatti una, quella di Boullée, riguarda una tomba monumentale, l’altra, quella di Ledoux, una casa per guardie campestri. Si tratta insomma del principio esattamente contrario a quello che si andrà diffondendo in seguito con un evidente riallacciamento all’architettura del periodo rococò e cioè adattare le funzioni alla forma e non la forma alle funzioni. Il cosiddetto Cenotafio di Newton doveva essere una gigantesca sfera vuota, mentre la Casa delle guardie campestri avrebbe dovuto essere un posto di guardia. Che cosa ci può entrare una sfera con un posto di guardia? E a che cosa può servire un’enorme sfera vuota? È evidente che la funzione non c’entra; ma neanche il simbolo. Quello che c’entra è invece il valore relativo al significato della sfera (oggi diremmo il suo potere evocativo) in rapporto al sepolcro e in rapporto al posto di guardia. La sfera è la forma perfetta, miniuniverso nel macrouniverso, forma razionale per eccellenza, fulcro rispetto allo spazio infinito, la cui forma è delimitata dall’orizzonte, circolare e non rettilineo, dunque la forma che manifesta meglio l’idea di ragione umana e antropocentrismo, i valori che si vogliono affermare nel nuovo contesto socioeconomico.
Se l’architettura deve fornire essenzialmente tipologie, allora vuol dire che la città non sarà più lo scenario che farà da sfondo alle residenze della nobiltà urbana, ma sarà la risultante del coordinamento dei diversi prototipi edilizi: è il principio urbanistico di tutta l’architettura neoclassica.

L’ALTRO NEOCLASSICISMO

Copenaghen, Museo Thorwaldsen
Bertel Thorwaldsen
EBE (1806)
Marmo, altezza Mt. 1,56

Tornando alla scultura, vediamo che ne è della statuaria dopo il Canova. L’altro interprete del Neoclassicismo è Bertel Thorwaldsen (1770-1844) seguace e competitore di Tonin. Thorwaldsen interpreta il Neoclassicismo come Canova non avrebbe mai voluto, cioè come modo di operare avendo in mente un archetipo; ma questo è il meno che potesse capitare al grande trevigiano. Il peggio è che dopo il danese la statuaria si va spegnendo nel più squallido accademismo. A dispetto del gran numero di statue che si vanno producendo pochissime raggiungono la qualifica di opere originali. Motivo? contrariamente a quel che avviene in pittura, in scultura scarseggiano obiettivi culturali. La crisi non colpisce solo la sponda neoclassica ma anche quella romantica. Françoise Rude (1784-1836), il massimo scultore romantico, è tutta oratoria e poca riflessione. Suoi sono i rilievi sull’Arc de Triomphe de Paris, dove l’impavida avanzata degli intrepidi Galli si risolve in fanfara da combattimento.
Una nota a parte va riservata all’italiano Lorenzo Bartolini (1777-1850). Lorenzo Bartolini si forma a Parigi con David; Napoleone lo stima a tal punto da permettergli di ritrarlo. Quando rientra in Italia risente della problematica linguistica ottocentesca, ma la risolve in termini di eloquenza non di struttura. La sua risposta è sostituire al linguaggio neoclassico, scaduto in dogmatismo, la lingua italiana, toscana naturalmente, improntando la statuaria su valori più naturalistici desunti dagli scultori del Quattrocento toscano come Desiderio da Settignano (1428 c. – 1464).

LE RADICI DEL ROMANTICISMO STORICO: GOYA

Madrid, Museo del Prado
SALE INTERNE RISERVATE A GOYA

Mentre a Parigi e a Milano i massimi artisti del momento come David, Gros (1771-1835), Ingres e Canova fanno a gara per immortalare Napoleone, a Madrid le truppe napoleoniche reprimono nel sangue, macchiandosi di brutali atti di violenza, la rivolta dei liberali spagnoli. A riprendere gli avvenimenti delittuosi c’è uno spettatore d’eccezione, un artista tra i maggiori della storia di Spagna, Francisco Goya (1746-1828).
È idea comune che compito del critico sia quello di etichettare autori ed opere: e in effetti così è. Ma se per molti artisti risulta abbastanza facile, per Goya è pressoché impossibile. A lui si deve gran parte dell’evoluzione dell’arte dal Rococò al Romanticismo. Nasce all’insegna del Pittoresco, matura nel clima del Sublime, fonda le basi del Romanticismo storico, invecchia prefigurando l’Espressionismo, muore intuendo l’Impressionismo. La sua parabola artistica si svolge nella Spagna retrograda e reazionaria dei Borboni. Dal punto di vista culturale s’inquadra in un periodo storico in cui, archiviata in fretta l’esperienza precedente del Velázquez (1599-1660), indesiderata per le sue possibili implicazioni illuministe, ci si orienta cautamente verso l’arte di moda nell’Europa del progresso, il Neoclassicismo.
Francisco José Goya y Lucientes nasce a Feuendetodos, un paesino rurale dell’Aragona, il 30 marzo. Il padre fa il doratore e tutto quello che si può permettere è una modesta casa rionale. Francisco compie le prime esperienze artistiche a Saragozza; di qui tenta invano di accedere all’Accademia di Madrid. All’età di 24 anni parte per l’Italia con la speranza di trovare maggiore accoglienza nelle istituzioni del Belpaese. Nel 1771 l’Accademia di Belle Arti di Parma gli conferisce il secondo premio per il saggio, andato perduto, Annibale attraversa le Alpi. Tornato in Spagna trova di che vivere con lavori di una certa rilevanza. Nel luglio del 1773, quando ha 27 anni, sposa Josefa Bayeu (1747 – 1812), ed è la svolta. Il fratello di Josefa, Francisco Bayeu (1734- 1795), è il più insigne pittore dell’intera Aragona. Dal 1763 il Bayeu si era trasferito a Madrid, chiamato da don Anton Raphael Mengs (1728-1779), primo pittore di Carlo III (1759-1788). Divenuti cognati Francisco si attiva per trovare a Francisco una buona sistemazione. Gliela trova facendolo diventare fornitore di cartoni per la manifattura reale di arazzi di Santa Barbara. Il Goya di questo periodo è un Goya ancora tutto rococò: la tavolozza è ricca, la pennellata spigliata, la luce intensa. Il modello è Bayeu, ma il punto di partenza è l’arte come limpida intelligenza di un Velazquez, nonché la critica sociale di un Hogarth (1697-1764), come pure il fasto con sottofondo ironico di un Tiepolo (1696-1770), né manca l’interesse per i lavori di un Gainsborough (1727-1788); c’è infine anche l’attenzione per il nuovo indirizzo neoclassico, ma poco entusiastico a dire il vero. La guerra con l’Inghilterra interrompe la collaborazione con le manifatture reali e ancora una volta il Bayeu viene in suo soccorso. Lo porta con sé a Saragozza, ma qui si consuma la rottura fra i due; intanto Francisco aveva cominciato a prendere confidenza con l’incisione. Dopo la disastrosa scissione col cognato, Goya tenta la fortuna come ritrattista e ben presto diventa un pittore alla moda: da questo momento inizia la sua fase ascendente. Nel 1785 diviene vicedirettore dell’Accademia di Pittura e nel 1786 ottiene la nomina di pittore del re. Subito dopo, con la morte di Carlo III e la nomina di Carlo IV (1788-1808), arriva anche quella di primo pittore di camera del re: è il momento più bello della sua vita, oltretutto Josefa gli regala un figlio, Javier. Sembra proprio che la felicità si sia definitivamente insediata in casa Goya e non debba avere mai fine. E invece nel 1792 Francisco è colto da una grave malattia da cui ne esce vivo però completamente sordo. Ma è proprio durante questo triste momento che scopre il soggetto horror. Sono di tale periodo quadri con scene di pazzi che lottano nudi in un manicomio, di naufraghi, di banditi che assaltano le diligenze trucidando i passeggeri, scene di esorcismo, preti che hanno a che fare col demonio, sabba, e i famosi Caprichos.
I Caprichos sono 80 stampe di soggetto satirico realizzate fra il 1797 e il 1799 in cui Goya manifesta per la prima volta la sua posizione politica. Con queste incisioni infatti intende lottare contro le superstizioni popolari, forme inibitorie che il potere monarchico e clericale utilizza a bella posta per tenere in stato di sudditanza il popolo spagnolo. Naturalmente il potere non accetta che qualcuno si intrometta in queste faccende e così attraverso il Tribunale dell’Inquisizione fa ritirare a 15 giorni dall’uscita tutte le copie. Il più celebre pezzo della serie si intitola il sonno della ragione produce mostri. Il titolo lascia poco spazio ai commenti: i mostri non esistono; è la superstizione che li genera.
Goya è sordo, non cieco; la sua attività non conosce soste. Mentre si dedica alla stampa continua a fare ritratti e persino un affresco: il Miracolo di sant’Antonio da Padova nella chiesa di Sant’Antonio de la Florida di Madrid. E intanto arriva l’Ottocento; Goya ritrae la famiglia di Carlo IV al completo.

Madrid, Museo del Prado
Francisco José Goya
LA FAMIGLIA DI CARLO IV (1800/1801)
Olio su tela, altezza mt. 2,80 – larghezza mt. 3,36

Per questa ragguardevole tela Francisco si ispira al Las Meninas del Velazquez, dipinto circa 150 anni prima. Ma a differenza del suo illustre predecessore svolge il tema per lungo, non in altezza, e soprattutto scava sottilmente nella psicologia dei personaggi lasciandone trapelare sotto l’ostentata pompa magna esteriore l’ottusità e la dissolutezza. Dunque non un ritratto freddo, lucido, esente da giudizi, ma coatto, ideologico.
In questi stessi anni Goya da alla luce anche le due celebri majas, la desnuda e la vestida; due quadri che fanno subito scandalo, specialmente il primo: non era mai accaduto che apparisse un nudo così smaccatamente provocatorio, con il pube in vista. Con la restaurazione vengono entrambe confiscate dal Tribunale dell’Inquisizione al suo legittimo proprietario, il Godoy (1767-1851), il “Principe della Pace”, e Goya viene accusato di oscenità. Questo fatto nulla toglie o aggiunge al valore artistico delle due majas, che sta nella straordinaria capacità dell’autore di trasmettere il senso della decadenza illiberale attraverso i segni dell’ammaliamento erotico. E siamo così giunti alle soglie dell’oblio spagnolo.
Il 1808 è solo l’inizio di una fase storica che farà ripiombare la Spagna nel Medioevo; è nel 1808 che accade qualcosa di molto importante che determina una svolta nella carriera artistica di Goya e nella storia del linguaggio artistico più in generale: l’insurrezione antifrancese del 2 maggio con la conseguente repressione. Naturalmente Goya è profondamente toccato dagli avvenimenti che si svolgono nei burrascosi anni che vanno dall’invasione napoleonica al Congresso di Vienna (1814-1815), ma la sua sentita partecipazione verrà espressa solo sei anni dopo.

FANGO E SANGUE NELLE TELE DEL 1808

Madrid, Museo del Prado
Francisco José Goya
LA FUCILAZIONE (1814)
Olio su tela, altezza mt. 2,66 – larghezza mt. 3,45

Il calendario di casa Goya segna il 1814, il Congresso di Vienna restituisce la Spagna al suo sovrano con grande gaudio da parte del popolo spagnolo. Al suo rientro Ferdinando VII (1813-1833) dà subito un saggio della sua politica di restaurazione ripristinando immediatamente il Tribunale dell’Inquisizione. Francisco non è molto contento di come si stanno mettendo le cose e inoltre non può sopportare il re. Per beffa del destino la corona lo conferma nel ruolo di pittore di corte e lui risponde con una proposta davvero singolare: celebrare la gloriosa sommossa antifrancese della primavera del 1808. Queste sono le premesse che vedono maturare le due famosissime opere intitolate Il 2 maggio 1808: lotta contro i mamelucchi e Il 3 maggio 1808: fucilazione alla montaña del principe pio, meglio nota come Fucilazione e basta.
Sono due opere importantissime; in esse è la radice del Romanticismo storico. Ma perché questa celebrazione postuma?
Il motivo non va ricercato nel patriottismo del pittore, quanto piuttosto nella paura di essere perseguitato per i suoi passati servigi all’usurpatore transalpino. Infatti all’epoca della sommossa Goya era ancora primo pittore di corte (titolo acquisito nel 1786). In quanto tale fu incaricato dal Consiglio della Città di Madrid di dipingere un quadro celebrativo dedicato al nuovo re di Spagna, Giuseppe I (1808-1813), cioè il fratello di Napoleone, e questo fatto poteva essere interpretato come collaborazionismo col nemico. Nel generale clima reazionario che imperversa al momento, la possibilità di essere accusato in tal senso non è da sottostimare. Meglio prendere le necessarie precauzioni. E così fa Goya.

IL SOGGETTO

Il soggetto delle due tele si riferisce ai fatti accaduti durante i giorni 2 e 3 maggio del 1808. Nel dicembre del 1807, col pretesto di difendere gli alleati spagnoli dalla minaccia d’invasione inglese, Napoleone entra in terra iberica alla testa di un esercito di 130.000 soldati. In realtà la sua intenzione è quella di soffiare il trono al debolissimo re di Spagna Carlo IV e metterci suo fratello Giuseppe. Nella primavera dell’anno successivo le truppe francesi entrano a Madrid e assumono il controllo della città. La cosa non piace affatto agli spagnoli che si sollevano in massa contro i transalpini e il governo filo-francese dei Borboni. Il 2 maggio le strade di Madrid vengono bagnate dal sangue degli insorti e da quello dei soldati francesi e dei mamelucchi che militano nelle fila dell’esercito napoleonico. Sul far della sera i tumulti sono sedati; il giorno dopo seguono le esecuzioni sommarie dei ribelli e con una immonda carneficina si mette fine alla sommossa.

ANALISI DELL’OPERA FUCILAZIONE

La ragguardevole tela con la fucilazione rappresenta un’autentica rivoluzione in campo figurativo: per la prima volta nella storia della pittura il soggetto è un’esecuzione di massa. Più precisamente: eccidi e massacri sono stati oggetto di raffigurazione anche in altri tempi, ma mai era capitato che l’artista si mettesse dalla parte dei massacrati; è stato sempre dalla parte dei massacratori. Non solo: in tutte le immagini di scontri, battaglie, stragi, l’arte ha sempre cercato di edulcorare i fatti, rabbonirli, placarne la reale violenza con la sublimazione metafisica, qui invece Goya vuole esporli in tutta la loro crudele verità. Anzi, vuole che l’arte partecipi, si faccia parte di questa violenza, trasformandosi da tecnica della sublimazione in tecnica della testimonianza espressiva. Infatti fucilazione non è un reportage fotografico, sono i fatti così come li sente l’artista.
I soldati non hanno volto, non sono individui, sono tutti uguali, li differenzia l’ombra, ora più chiara ora più scura in rapporto all’intensità della luce della lanterna che li colpisce, ora più forte ora più debole. Sono tutti colti nella stessa posa; non hanno niente di umano; non sono i rappresentanti di un’umanità semidivina, piuttosto sembrano marionette, e non già per via dell’allusione all’idea di manovrabilità degli eserciti: qui non c’è allusione ma viva realtà. Anche i patrioti più che individui sono categorie socio-espressive: c’è il liberale che affronta la morte con eroismo, il frate che cerca un sostegno nella preghiera ma il suo volto tradisce il cedimento al terrore; c’è chi è già morto trucidato e giace ai piedi dei compagni che stanno per cadere, tutti immersi in una poltiglia di fango e sangue; e intanto al centro avanza la ressa degli altri condannati. Fa da sfondo all’eccidio una città fantasma, spenta, senza vita, assente, in una notte che ha inghiottito la luna; il luogo in cui si consuma la tragedia è spoglio, non c’è un filo d’erba a testimoniare l’esistenza biologica sulla superficie. Tutto quel che c’è di vivo è quel che la luce della lanterna poggiata a terra rivela, ed è la morte.
Appare chiaro che quando Goya dipinge questa tela col suo pensiero va a quel che sta accadendo in campo artistico proprio in Francia. Ha ben presenti le opere di David; una in particolare, La morte di Marat, che tratta lo stesso contenuto: la morte come inizio della storia.
Goya in questo quadro vuol dare un messaggio completamente opposto a quello di David: la storia non è sempre fatta di vicende esemplari di cui andare fieri e da cui prendere esempio; a volte, anzi il più delle volte, è fatta di episodi di cui vergognarsi. Per questo l’artista non ricerca il bello; non può essere bella una realtà dove si massacra gente il cui unico delitto è quello di aver desiderato la libertà. Come si fa ad essere neoclassici quando non si può desiderare che un’immagine sia davanti ai nostri occhi per l’eternità, ma si vuole che dilegui immediatamente.
Non si può certo dire che in questa tela il primo pittore di camera del re non sia realista. Ma per Goya essere realisti non significa copiare la realtà, significa rinunciare ai filtri interpretativi e dire tutta la verità; essere realisti per lui vuol dire essere antinaturalisti. Questa interpretazione è una delle componenti fondamentali che andranno a caratterizzare il nascente Romanticismo; l’altra è costituita dall’idea antiuniversalistica che si evince dall’analisi del soggetto. Viste dagli spagnoli le armate napoleoniche non sono affatto messaggere di libertà e autonomia nazionale, così come agli occhi del popolo Napoleone non è il liberatore delle genti oppresse dalle monarchie assolutiste; al contrario i francesi sono nuovi oppressori che si sostituiscono ai vecchi e Napoleone è un despota che prende il posto di un altro despota: al nepotismo borbonico si sostituisce quello napoleonico. Prima ancora che nel resto d’Europa dunque, in Spagna si compie il destino dell’universalismo rivoluzionario, trasformandosi nel nazionalismo indipendentista.

L’ULTIMO GOYA

Madrid, Museo del Prado
Francisco José Goya
I DISASTRI DELLA GUERRA (1810/1815)
Acquaforte

Se con la fucilazione di massa del 2 maggio 1808 si mette termine all’insurrezione, non si chiude invece la partita fra il popolo spagnolo e l’usurpatore francese. Nel 1810 Goya inizia una seconda grande serie di stampe, I disastri della guerra, dove prende a soggetto le atrocità commesse da entrambe le parti durante le rappresaglie che fanno seguito al massacro. Il messaggio affidato a queste immagini è esplicito: tornare alla ragione.
Nonostante le crudeltà sopportate, ma anche commesse, con i francesi il popolo spagnolo esce dallo stato di arretratezza medievale in cui è tenuto dalle forze monarchiche e clericali reazionarie per imboccare la via dell’emancipazione politica, sociale ed economica. Ma la festa dura poco e con il ritorno di Ferdinando VII la penisola iberica ripiomba nel buio più profondo. E Goya instancabile continua a denunciare lo status quo attraverso le tele e le incisioni.
Nel 1819, a 73 anni, Goya sta per lasciare questo mondo, ma il dottor Arrieta lo salva. Convalescente si ritira a vivere in campagna, nella “casa del sordo”, detta così non perché ci va a stare Goya, ma perché, ironia della sorte, era stata abitata da un sordo. Qui Francisco da vita al ciclo passato alla storia con il nome di “pitture nere”.
Si tratta di una serie di oli su intonaco con immagini dall’aspetto inquietante: raduni di streghe, cortei di gente dall’espressione poco rassicurante, vecchi affiancati da figure grottesche, personaggi mitologici raccapriccianti, uomini volanti. Non sono più immagini con le quali Goya vuole incitare gli animi a reagire, sono vere e proprie ossessioni, visualizzazioni di sinistre fantasie inconsce, incubi. Con l’ennesimo ritorno di Ferdinando VII, sentendosi insicuro lascia la Spagna per raggiungere Bordeaux, e qui compie i suoi ultimi capolavori, fra cui le celebri incisioni con le corride e l’altrettanto celebre tela con la lattaia.
Francisco Goya muore il 16 aprile all’età di 82 anni. Un paio d’anni dopo Eugène Delacroix dipinge La libertà guida il popolo, il quadro col quale il Romanticismo fa il suo ingresso ufficiale nella storia.