IL MAUSOLEO DI TEODORICO, PRIMO MONUMENTO MEDIEVALE
DESCRIZIONE DEL MAUSOLEO DI TEODORICO
EDIFICI RELIGIOSI TEODORICIANI
LA STAGIONE RAVENNATE DELL’ARCHITETTURA BIZANTINA: FASE TARDO-ANTICA
LA FASE BIZANTINA DELLA STAGIONE RAVENNATE
L’APICE DELL’ARTE ORIENTALE IN ITALIA: I MOSAICI DI SAN VITALE
LA SCULTURA BIZANTINA RAVENNATE


IL MAUSOLEO DI TEODORICO, PRIMO MONUMENTO MEDIEVALE

Ravenna
MAUSOLEO DI TEODORICO (ante 526)

La storia dell’arte medievale, a rigore, dovrebbe iniziare da Ravenna, ma per ragioni di ordine storico e stilistico si tende ad interpretare l’arte bizantina come la continuazione di quella paleocristiana. È il 476, Odoacre (433-493) capo degli Eruli depone Romolo Augustolo (475-476) dal trono e pone fine all’impero romano d’Occidente. In seguito alla caduta dell’impero i confini danubiani e renani cedono e masse di popolazioni nomadi provenienti dalle pianure semidesertiche dell’Asia centro-occidentale si riversano nelle ricche regioni dell’Europa circummediterranea. Queste orde di genti barbariche sono bisognose di nuove terre per gli armenti, base della loro povera economia; ma non solo: sono anche desiderose di terre da conquistare e ricchezze da razziare.
La Gallia è prima degli Alemanni, poi dei Burgundi, quindi dei Franchi; nella Britannia si insediano gli Angli e i Sassoni; nella Spagna Svevi e Vandali (questi ultimi vengono successivamente ricacciati sulle coste dell’Africa settentrionale dai Visigoti che gli subentrano). In Italia ci sono gli Eruli di Odoacre, ma sulla carta il territorio appartiene all’impero d’Oriente.
Declassata a provincia per la penisola inizia un lungo periodo di depressione economica, politica e sociale, che fa retrocedere il “Belpaese” a terra di occupazione, dove si succedono dominazioni su dominazioni, spesso più dittature contemporaneamente, una peggiore dell’altra. Prima gli Ostrogoti, poi i Longobardi, quindi i Franchi e infine i Sassoni.
A spingere i barbari a riversarsi nelle terre occidentali sono altri barbari, gli Unni ad esempio, ma non solo loro. Una grossa fetta di responsabilità ce l’ha anche la politica estera di Bisanzio. Infatti gli imperatori bizantini, che hanno in mente di riunificare l’impero romano d’Oriente con quello d’Occidente, vedendosi rovinare addosso le orde barbariche dal nord trovano assai più confacente per la difesa dei confini territoriali il dirottamento delle genti nomadi “amiche” ad ovest delle proprie frontiere, ottenendo così contemporaneamente una solida difesa dalla minaccia d’invasione e un modo economico per scacciare i barbari nemici dall’Occidente. Senza dubbio un piano brillante, ma ben presto Bisanzio si accorge che a scacciare un diavolo con un altro diavolo non è cosa che si può fare senza incorrere in qualche imprevisto.
Sullo scorcio della seconda metà del V secolo, dalle regioni del Norico e della Pannonia, l’attuale Ungheria e parte della ex Jugoslavia, una popolazione barbarica, gli Ostrogoti (Goti dell’est) si va spostando verso sud, in direzione dell’impero d’Oriente. Per allontanarli da Bisanzio l’imperatore Zenone, salito al trono nel 477, convince il loro capo, Teodorico, un amico, a puntare sull’Italia. Cosicché nel 489 da 200.000 a 300.000 barbari penetrano nella penisola, tolgono di mezzo Odoacre nel 494 e danno inizio ad un dominio che dura 32 anni, fino al 526, alla barba dei Bizantini e delle loro mire di ricongiungimento dei due pezzi d’impero romano. Chi è Teodorico?
Teodorico nasce in Pannonia nel 454; è figlio di Teodemiro degli Amali (447-474). A 5 anni entra come ostaggio alla corte di Leone I (457-474), imperatore di Bisanzio. Ci resta fino all’età di 20-21 anni; quando irrompe in Italia ha 35 anni. Una volta preso il potere Teodorico sceglie come sede ufficiale Ravenna, capoluogo dell’esarcato bizantino. Sbrigate le prime faccende politiche si mette subito all’opera per rendere più bella la capitale del suo regno. Nel 520, quando ormai ha 66 anni, pensa a farsi erigere il proprio sepolcro. Nasce così il primo monumento medievale: il mausoleo di Teodorico. A detta della leggenda però le sue spoglie non vi riposeranno mai; la sua vera tomba sarà l’Etna. Teodorico muore il 30 agosto del 526. Il giorno del trapasso un cavallo nero lo prende in groppa e lo precipita nella bocca del vulcano.
Parentesi: sull’effettiva deposizione delle spoglie di Teodorico nel mausoleo ravennate lo storico Andrea Agnello (800 c. – 850) ci dice una cosa diversa. Il corpo del re giacerà nel monumento sepolcrale solo per pochissimo tempo. Quattordici anni dopo la morte le spoglie vengono estromesse dal sarcofago e trasportate altrove, senza precisare dove, perdendosi così ogni loro traccia.

DESCRIZIONE DEL MAUSOLEO DI TEODORICO

Dal punto di vista stilistico non c’è niente di più lontano dalla cultura visiva bizantina, o più in generale paleocristiana, del mausoleo di Teodorico. La combinazione di elementi classici con elementi barbarici sono gli ingredienti fondamentali che compongono questa tomba reale. Una struttura che nell’aspetto esteriore ricorda i templi tardo- antichi, come quello dedicato a Minerva medica, a ridosso della stazione Termini di Roma, ma con l’aggiunta di particolari del tutto inediti, di sicura origine barbarica, quali la strana copertura a cupola monolitica e le decorazioni a tenaglia che ne ornano la base. Il monumento si ispira ai mausolei romani di provincia. Come questi sorge fuori le mura della città, ma per il resto ci sono delle importanti differenze legate alla cultura barbarica di Teodorico. Innanzi tutto c’è un’accentuazione nell’espressione della forza strutturale delle membrature architettoniche, specialmente delle arcate del primo ordine, da far impallidire anche le più poderose costruzioni romane. Quindi c’è la sorprendente cupola monolitica che fa da cappello al corpo centrale, il quale si erge massiccio dalla robusta cinta di archi, voltati a tutto sesto. Sull’origine della forma di questo elemento architettonico, più unico che raro, si sono fatte tante ipotesi. Per qualche autore si richiamerebbe alle coperture delle tende usate dai barbari come dimore, per qualche altro invece prende spunto dai grandi bacili di bronzo che erano posti al centro delle stanze reali per accogliervi i tizzoni ardenti utilizzati nel riscaldamento degli ambienti; si è detto pure che essa richiami la forma delle coperture dei sepolcreti megalitici dei paesi nordici.
Curiosità: il monolito presenta una fenditura netta nella parte sud. Origine della spaccatura molto probabilmente un colpo ricevuto durante la messa in opera. Tuttavia la spaccatura insolitamente netta e lineare ha ingenerato una leggenda popolare dove si racconta che Teodorico, negli ultimi anni della sua vita, temendo di morire fulminato, così come gli era stata predetto, aveva preso l’abitudine di rinchiudersi in questa parte del mausoleo per sentirsi al sicuro. Ma la cosa non funzionò, e in una notte tempestosa una saetta si abbatté sulla cupola trapassandola e raggiungendo il re che si era blindato sotto di lei.
Anche qui ci troviamo molto probabilmente alla presenza di un monumento dall’aspetto diverso da quello originale. Per esempio sembra che il secondo ordine dovesse essere rifinito da una serie di profonde arcate che rievocavano nella forma esterna una successione di edicole alternatamente coperte da timpani e archivolti. Attualmente consta di due prismi a base decagonale, sovrapposti, chiusi da una cupola emisferica molto schiacciata. Le arcate dell’ordine inferiore, realizzate in opus quadratum, sono cieche, tranne quella d’ingresso, ovviamente. Sulle pareti esterne del piano superiore rimangono ben visibili le tracce lasciate dalle arcate del secondo ordine. La cupola pesante circa 300 tonnellate, presenta delle “asole”, servite molto probabilmente per far passare le corde utilizzate per sollevarla e collocarla in sito. L’idea di coprire l’edificio con una lastra monolitica si rifà ai modelli seguiti in alcuni monumenti siriaci del IV, V e VI secolo. La pietra usata proviene dall’Istria, la stessa usata nel palazzo di Diocleziano. Le arcate e gli architravi sono fatti da conci particolari detti dentellati, simili a quelli usati per realizzare la porta Aurea della dimora di Spalato. Il ricorrente parallelismo con il monumento illirico potrebbe essere spiegato con la nazionalità slava di Teodorico. Ma l’ipotesi più credibile è quella che vede nella volontà del sovrano barbaro di operare una sintesi fra romanità e barbarie, così come le viene suggerito dal suo colto ministro Cassiodoro (490 c.-580 c.).

EDIFICI RELIGIOSI TEODORICIANI

Ravenna, chiesa di Sant’Apollinare Nuovo
PIANTA E INTERNO (VI sec.)

Teodorico all’inizio si comporta come un vero e proprio monarca illuminato e vuole contribuire a dare nuovo impulso alla religione cristiana. Promuove a tal fine i lavori di costruzione della cattedrale, oggi Santo Spirito, con annesso il battistero detto degli ariani, per via della fede degli Ostrogoti, e di Sant’Apollinare Nuovo, che poi sarebbe la chiesa palatina da lui dedicata al culto ariano col nome di Domini Nostri Jesus Christi.
Teodorico non è un barbaro come tutti gli altri; è un barbaro che ha studiato. Lo ha fatto quando era ostaggio alla corte di Costantinopoli, presso Zenone. La sua cultura non può che essere classica, ma non può altresì dimenticare le sue origini zingare. La decorazione interna di questi due edifici sacri ci illumina sul tipo di linguaggio figurativo caldeggiato dal sovrano: un ritorno alle fonti tardo-antiche teodosiane. Ciò è molto evidente soprattutto nei mosaici della cupola del battistero e in quelli del secondo registro delle navate della chiesa, dove sono lampanti le tracce di un richiamo alla solida cultura tardo-antica.

LA STAGIONE RAVENNATE DELL’ARCHITETTURA BIZANTINA: FASE TARDO-ANTICA

Ravenna
BASILICA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA (430 c.)

La stagione ravennate è aperta da due costruzioni fondamentali: la grande basilica di San Giovanni Evangelista e il mausoleo di Galla Placidia.
La basilica di San Giovanni Evangelista viene fatta erigere nel 430 da Galla Placidia (390 c. – 450). È il prototipo della basilica ravennate: pianta semplice, rettangolare, senza transetto, a tre navate, abside circolare all’interno e poligonale all’esterno, fiancheggiato da due vani cubici aperti in corrispondenza delle navate laterali, detti pastoforia. Tetto a capriate, pareti delle navate e dell’abside finestrate a monofore.

Ravenna
MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA (prima metà V sec.)
Mattoni, altezza mt. 11 circa – larghezza mt. 13 – profondità mt. 15

Morto Teodosio (379-395), ne approfitta subito Onorio (393-423), suo figlio, per trasferirsi a Ravenna, città più sicura di Milano. Qui l’imperatore intende fare una cosa analoga a quella fatta dal padre nella capitale lombarda: creare una nuova Roma. Ma il clima politico culturale a Ravenna non è lo stesso che a Milano; nella città romagnola perdura una situazione artistica alquanto eterogenea.
Il mausoleo di Galla Placidia che la tradizione vuole sia stato eretto da Galla Placidia, sorella di Onorio, per accogliere le spoglie sue e della sua famiglia, è in realtà il sacello di Santa Croce, una chiesa a pianta cruciforme oggi scomparsa, modellata sugli esempi milanesi. Non si sa perché viene ribattezzato mausoleo dal momento che Galla Placidia non vi è mai stata sepolta (muore infatti a Roma). Il mausoleo viene alla luce negli stessi anni della basilica di San Giovanni Evangelista, forse prima, fra il 425 e il 426. Si tratta di un piccolo edificio a croce greca, semplicissimo e dimesso nella sua veste esterna, oggi interrato di un metro e mezzo. All’interno le cose cambiano radicalmente. Basta varcare la soglia d’ingresso per entrare in una dimensione completamente diversa. La base delle pareti è rivestita di marmo grigio, la parte superiore è totalmente ricoperta di mosaici dai colori molto profondi che si estendono fino a riempire le volte. La cosa non rappresenta di per sé una novità se non fosse per il fatto che qui anche l’architettura si da alla percezione come pittura. La definizione dello spazio interno infatti non è demandato agli elementi architettonici, ma tutto è risolto dall’immagine musiva col risultato di ottenere una totale saturazione cromatica dello spazio interno. Il mosaico non si limita a rivestire la muratura, la sostituisce. Annulla le articolazioni, distorce la regolarità delle modanature, smussa gli spigoli per lasciar trascorrere la luce senza impedimenti da una parete all’altra. Dissimula la profondità reale con indicazioni prospettiche che sfumano i piani d’appoggio luminosi nella densità cristallina dello sfondo uniformemente blu. La luce che riempie lo spazio interno non è fissa, ma mobile, è animata dai riflessi delle tessere che a migliaia ricoprono la superficie di pareti e volte. Le immagini che appaiono nel tiburio sono come stelle nel firmamento, risplendono di luce propria. E lo spazio è tanto più profondo quanto più forte è il contrasto fra le tinte.
L’effetto di immaterialità corporea si attenua quando si passa a considerare le altre superfici mosaicate, come quella della lunetta d’ingresso, ad esempio. Qui c’è raffigurato Cristo nelle vesti di un giovane pastore imberbe; è in mezzo alle pecore, seduto su una roccia in un prato rigoglioso di erbe e arbusti; accarezza il muso di una di esse mentre rivolge lo sguardo altrove. Le altre pecore sono lì, docili, tutte con lo sguardo rivolto verso il loro pastore. Il significato è chiaro: il gregge è l’umanità composta da uomini tutti uguali davanti a Dio padre. Gesù, essere divino, non partecipa al gesto di affetto, in quanto come essere divino non può provare emozioni come gli esseri umani. L’insieme è interpretato secondo lo spirito cristiano, ma attingendo alla cultura figurativa ellenistica, e per il suo naturalismo, e per la sua freschezza quasi impressionistica, nonché per la luce diffusa che emana dalle sue tinte. Dal punto di vista stilistico nell’episodio prevale chiaramente un indirizzo di tipo ellenistico-romano, ma in altri episodi prevale, invece, un indirizzo mistico astrattivo, come nei mosaici delle pareti interne del tiburio, raffiguranti sagome di santi abbinate, risplendenti di luce lattiginosa propria, come fantasmi, su un fondo blu turchino, molto profondo, come di notte stellata. Inoltre varie sono le interpretazioni che spiegano il contrasto fra l’esterno, dimesso, e l’interno ricco e luminoso: si vuole alludere all’anima che tanto più risplende quanto più trascurato è il corpo, ma anche alla relazione fra materia, finita, e luce, infinita.

Ravenna
BATTISTERO DEGLI ORTODOSSI O NEONIANO (metà V sec.)

Il battistero Neoniano o degli Ortodossi non è semplicemente un edificio dove si battezza, ma un’autentica ierafonia, cioè manifestazione tangibile del sacro; ma qui il divino non si rende visibile nel Creato, bensì nell’ordine supremo da cui discende l’ordine umano, vale a dire la Chiesa. Funzionalmente è il battistero dell’antica basilica fondata dal vescovo Orso nel IV secolo e oggi completamente perduta in seguito ai radicali rifacimenti del XVIII secolo.
Anche nel battistero si ripete il contrasto fra l’esterno fatto di mattoni a vista e l’interno, fulgido di luci colorate; anche nel battistero il mosaico sostituisce l’articolazione strutturale rivestendo così un’incontestabile funzione architettonica. La pianta è ottagonale; l’alzato è formato da due ordini di arcate; la copertura è a cupola, ottenuta con il sistema dei tubi di terracotta, infilati l’uno nell’altro. Domina il mosaico, intervallato da incrostazioni di marmi policromi e stucchi. L’intradosso della cupola è interamente mosaicato. Il primo ordine è costituito da arcate nelle quali sono inserite, a ridosso delle edicole archivoltate, due edicole in stucco candido in cui sono ospitate statue di profeti che preannunciano l’avvento di Cristo. Il secondo ordine presenta mosaici nel fronte degli archi, marmi policromi intagliati a disegnare forme geometriche; il pavimento è in pietra, materia opaca, spenta, inerte. Al centro, in asse col mosaico del battesimo, c’è il fonte battesimale.
La decorazione della cupola è suddivisa in due fasce. La prima simula portici ed edicole come nella decorazione romana; dentro ci sono figure simboliche come etimasie (altari col vangelo aperto sopra), seggi vuoti, viridari e giardini celesti transennati. Nella seconda ci sono i dodici apostoli, separati da candelabri fatti a mo’ di stelo fiorito, i quali tracciano immaginari costoloni; ciascuno di essi tiene fra le mani coperte la corona trionfale; al centro c’è Cristo battezzato da Giovanni Battista. Il fine dell’apparato decorativo è lo stesso che in Galla Placidia, ma diversa ne è l’intonazione. Qui dominano le note chiare, al cielo notturno si è sostituito il cielo diurno. Gli elementi in stucco insieme alle finte edicole contribuiscono infine a ravvivare lo scambio tra finzione pittorica e realtà architettonica, rendendo tangibile il passaggio dalla materia alla luce.

Ravenna
SANT’APOLLINARE NUOVO (inizio VI sec.)

Intorno al 560 il vescovo Agnello (557-569 c.), fiero avversario degli ariani, ribattezza la chiesa palatina teodoriciana San Martino in Ciel d’Oro. Quindi nel IX secolo all’interno delle sue mura vengono trasferite le reliquie di sant’Apollinare custodite nella chiesa di Sant’Apollinare in Classe. In seguito a ciò la basilica prende il nome con cui ancora oggi è conosciuta: Sant’Apollinare Nuovo.
Rispetto alla costruzione di Teodorico Sant’Apollinare Nuovo risulta più bassa e meno luminosa a causa dei lavori di rifacimento dell’abside, nonché di sistemazione e restauro che ne hanno alzato il livello del pavimento. La struttura architettonica ricalca quella tipica delle basiliche ravennati con l’aggiunta di qualche novità. Ad esempio le arcate sono impostate su colonne a fusto liscio, classicheggianti, ma con l’interposizione fra capitello e imposta dell’arco di un elemento a forma di tronco di piramide rovesciato, di origine orientale: il pulvino. Anche qui l’esterno è spoglio, mentre l’interno è ricco e splendente. L’ingresso è preceduto da un atrio porticato detto ardica. I mosaici che decorano le pareti della navata maggiore sono stati eseguiti in due tempi diversi, parte sotto Teodorico, un ariano, parte sotto Agnello, un cattolico. Le differenze religiose e culturali della committenza si riflettono nello stile delle raffigurazioni. Al periodo di Teodorico appartengono i primi due ordini e le immagini che aprono, nel terzo, le due lunghe teorie di vergini e martiri. Queste insieme alle figure di Maria in trono e di Gesù Cristo, di fronte ad essa, appartengono al periodo di Agnello. Nella fascia più alta sono rappresentati episodi della vita di Cristo; nella fascia mediana, tra una finestra e l’altra, ci sono effigiati i profeti; all’inizio della fascia inferiore sono riportati a sinistra il porto di Classe e a destra il palazzo di Teodorico.
Nelle Storie di Gesù la raffigurazione è schematica ma non priva di sintassi compositiva, lo spazio non è completamente piatto e le scene sono ambientate in quinte naturali, mentre i profeti della fascia sottostante hanno aspetto statuario e ognuno è ritratto nella sua qualità di individuo, saldamente poggiato su una zolla erbosa vista in prospettiva. Sono tutti elementi questi che indicano chiaramente l’ideale artistico di Teodorico: il romano tardo-antico. Per questo suo indirizzo dichiaratamente romanizzante, egli si pone come il legittimo prosecutore dell’opera teodosiana di restauratio della cultura latina. Più in particolare si prenda come esempio un episodio della fascia superiore, come la Samaritana al pozzo, e si noti con quale naturalezza sia rappresentato il gesto della donna, quindi il secchio con l’acqua ricadente. Anche Gesù Cristo, qui imberbe alla maniera greca, è raffigurato naturalmente, seduto su un rialzo roccioso. Tuttavia in lui si coglie un che di astratto. Infatti il volto incorniciato dal nimbo crocigero non è rivolto in direzione della samaritana, ma in avanti a contemplare una verità che non è dentro la storia, ma oltre, in una dimensione trascendente. Non è l’unico elemento astratto, c’è anche il fondo oro che traspone su un piano irreale la realissima ambientazione naturale in cui si svolge la vicenda.
In un altro riquadro, quello con il cenacolo ad esempio, il Redentore appare effigiato con barba e baffi alla maniera siriaca. Gli apostoli gli fanno ala, disposti a semicerchio intorno alla tavola poveramente imbandita. Hanno tutti lo sguardo puntato sul loro maestro, perché egli ha appena pronunciato le presaghe parole che uno di loro lo tradirà. C’è in questo riquadro una maggiore attenzione per quelli che sono gli elementi più propriamente espressivi della raffigurazione, come ad esempio gli sguardi increduli dei commensali, quindi c’è il gusto per una maggiore concitazione nello svolgimento della scena, oltreché per il coinvolgimento di un più alto numero di personaggi e nella grandezza delle figure. Tutti elementi presenti anche altrove nei pannelli che raccontano la passione di Cristo, pertanto si parla di due artisti differenti chiamati a lavorare nella prima fascia.
Completamente diversi risultano invece i due mosaici posti all’inizio della terza fascia.
Il porto di Classe e il palazzo di Teodorico sono trasfigurati. Nel primo le navi sono poste una sopra l’altra, in mezzo alle mura allungate della città e le due torri difensive, mentre il palazzo di Teodorico appare aperto con le due ali della corte allineate al fronte della reggia.
Curiosità: in origine al posto dei tendaggi dovevano figurare dignitari di corte e lo stesso Teodorico. Che fine hanno fatto? Sono stati cancellati su provvedimento del vescovo Agnello. A testimonianza di questa operazione di oscuramento della memoria storica sono rimaste alcune mani stagliate sui fusti delle colonne.

LA FASE BIZANTINA DELLA STAGIONE RAVENNATE

Ravenna
SAN VITALE (525/547)

L’influenza bizantina in Italia inizia con San Vitale. Nel 527 sale sul trono di Bisanzio Giustiniano (527-565), il quale in politica estera intende riprendere il progetto momentaneamente accantonato dal suo predecessore Zenone per via del piccolo malinteso con Teodorico, cosicché l’impero d’Oriente torna all’attacco del “Belpaese”. Nel 534 un esercito di 35.000 uomini, al comando del generale Belisario (500 c. – 565), entra in Italia dando inizio a quella che fu denominata dagli storici la guerra gotico-bizantina. Una guerra disastrosa, che vede episodi di ferocia inaudita da parte di tutti e due i contendenti. Una vicenda su tutte si ricorda in modo particolare e si erge a simbolo della spietatezza che ha caratterizzato lo scontro. Nel 539 Goti e Borgognoni uccidono tutti i maschi adulti di Milano; 300.000 uomini secondo lo storico greco Procopio (490 c. -565 c.). Il conflitto termina nel 552, dopo 18 anni di dure lotte, con la sconfitta definitiva del re ostrogoto Totila (541-552) ad opera del generale bizantino Narsete (478-566). Ma la ripresa orientale dura poco.
In campo storico artistico, dopo la parentesi teodoriciana che vede nuovamente il prevalere della corrente tardo-antica latina, il linguaggio espressivo, con l’alto dignitario greco Giuliano Argentario, torna ad ispirarsi a modelli orientali. Il suo intervento è decisivo per l’ingresso in territorio italiano dell’arte aulica di Bisanzio, un intervento che lo designa quale promotore della grande stagione orientaleggiante, prima ancora dell’apertura ufficiale di Ravenna al dominio culturale levantino da parte del vescovo Agnello. Vivo Teodorico, fa modellare, sull’esempio della chiesa dei Santi Sergio e Bacco di Costantinopoli, la chiesa ravennate di San Vitale.
L’edificio viene fondato dal vescovo Ecclesio (522-532 c.) nel 525 e consacrato nel 547 dal vescovo Massimiano (546-566). Nella pianta e nell’alzato San Vitale si richiama implicitamente, come la chiesa dei Santi Bacco e Sergio di Istanbul, a San Lorenzo di Milano. Tuttavia tra San Lorenzo e San Vitale la differenza è grande, ancor più che fra i mosaici dell’epoca teodoriciana e quelli dell’epoca giustinianea. Le diversità iniziano dalla pianta. Lì le esedre sono quattro, qui sono il doppio: segno evidente che si vogliono ridurre gli spessori degli spigoli. Ne consegue che la luce non incide diretta sulle superfici, ma si distribuisce in maniera più uniforme. Se San Lorenzo è concettualmente un grandioso movimento di masse e cavità San Vitale è un alternarsi di superfici incurvate, schermi trasparenti da cui entra luce ed esce colore. Al doppio ottagono della pianta (più simile ad una margherita) corrisponde nell’alzato il doppio ordine per la presenza del matroneo, il luogo riservato alle donne. Anche qui le esedre sono traforate da una serie di triplice arcate, ma dalle grandi strutture alle piccole tutto risponde ad un unico fine: trasmutare la materia in colore. Si spiega così come l’intero complesso sia studiato per cancellare ogni traccia d’ombra propria e portata. Potrebbe sembrare ma non è che uno spazio del genere, cioè privo di contrasti luminosi, risulti piatto. Ma qui la profondità è data dal lieve modularsi delle tinte dovuta al fatto che la particolare conformazione della pianta impedisce a due mosaici di trovarsi nello stesso istante nelle medesime condizioni di luce.
Ultimo punto saliente da sottolineare è che scomparso il quadriportico, l’ardica che rimane non si pone perpendicolarmente all’asse del presbiterio, a contatto con la facciata, bensì si mette di traverso, attaccata per uno spigolo, con una doppia apertura, una di fronte all’altare, l’altra a 45 gradi. Questo espediente fa si che l’intera spazialità non risulti statica, chiusa in uno schema simmetrico, ma discenda da un dinamico diramarsi delle superfici.

L’APICE DELL’ARTE ORIENTALE IN ITALIA: I MOSAICI DI SAN VITALE

Ravenna, presbiterio della chiesa di San Vitale
OSPITALITÀ DI ABRAMO E SACRIFICIO D’ISACCO (probabilmente dopo il 540)
Mosaico

È qui, in San Vitale, nella zona del presbiterio, che è data la possibilità di vedere, nei mosaici adiacenti la conca absidale, una delle più eloquenti manifestazioni del teocentrismo bizantino.
Nel mosaico che decora la parete sinistra si racconta la biblica visita dei Tre angeli ad Abramo per l’annuncio della prossima maternità di Sara, sua moglie, quando questi risiedevano nei pressi di Mambrè; più il sacrificio di Isacco.
Il primo episodio vede da sinistra, al centro: Sara sull’uscio della sua capanna, Abramo, mentre offre del cibo (un maialino) ai Tre angeli, i Tre angeli seduti, dietro una tavola su cui poggiano tre piatti, all’ombra di un albero, una quercia; il secondo episodio vede, sulla rimanente parte destra, la mano del Signore che arriva a frenare il gesto del patriarca, l’agnello apparso miracolosamente per essere sacrificato al posto di Isacco, Abramo nell’atto di brandire il coltello, Isacco accosciato sull’ara sacrificale, il tutto coronato da alcuni monti che si affacciano alle spalle di Isacco e un albero piantato accanto all’ara.
L’immagine, sebbene comprensibilissima dal punto di vista narrativo, ad un’analisi più dettagliata rivela un certo numero di illogicità, situazioni spaziali assurde, concetti rovesciati. Questi elementi rappresentano la novità più appariscente della cultura bizantina, ma anche il punto di massimo approdo del meta-empirismo sinottico paleocristiano. Delle tre componenti stilistiche del figurativismo anticlassico, quella che più di ogni altra torna ad improntare la figuratività bizantina è la dimensionalità simbolica: infatti Sara è più grande dell’intero suo rifugio; Abramo e i Tre angeli sono alti quanto la quercia che gli si erge accanto; Isacco risulta gigantesco stando al confronto con l’albero sulla sua sinistra. C’è anche una certa inespressività nei volti dei personaggi, memore della fissità ieratica di altri tempi. Non manca, da ultima, una nota che rimanda all’unità quadridimensionale. Si guardino un po’ i piatti appoggiati sulla tavola? Non sono visti in scorcio, come apparirebbero in una visione ottica normale. Infatti se fossero visti secondo il modo di vedere naturale dell’occhio umano la prospettiva gli conferirebbe una forma ellittica, ma così non è; come appare evidente restano tondi, come se fossero visti in planimetria. Ma fin qui niente di nuovo. Però, se si va oltre nell’analisi e si comincia ad osservare la quercia, ad esempio, si vede che ha le radici piantate davanti alla tavola, mentre il tronco s’innalza dietro i commensali. Passando poi ad esaminare i Tre angeli seduti a tavola sorge spontanea la domanda: ma dove poggiano i piedi? I primi due a sinistra passano uno dei due rispettivi piedi (il secondo angelo anche l’altro, ma si vede meno), sotto la traversa del tavolo a loro più vicina, per andarlo ad appoggiare su quella del lato opposto; il terzo, addirittura, con un contorcimento inspiegabile, passa sotto la prima traversa, quindi sopra quella di fianco, e va a finire con l’aggirare la gamba del tavolo posta alla sua sinistra. Ma non c’è solo questo. Se si osservano i due piani del tavolo e dell’ara sacrificale e si prova a prolungare le linee che ne delimitano i bordi perpendicolari al piano della parete, ci si accorge che invece di congiungersi, come dovrebbe accadere stando alle leggi della prospettiva naturale, in un punto interno all’immagine si vanno a congiungere al di fuori, nello spazio dell’osservatore.
La presenza di queste “stranezze” ha un significato ben preciso: non tutte le manifestazioni della divinità sono comprensibili; la mente umana con la sua logica ferrea, non è lo strumento più adatto per capire i modi attraverso cui si comunica la presenza del Signore. D’altro canto Abramo non ci insegna che a volte Dio si rivela in modo alquanto incomprensibile: chiedergli di uccidere lo stesso figlio che gli ha donato, è forse più comprensibile? Ma la volontà di Dio non si discute, così come è fuori discussione il modo in cui si manifesta.
Dunque l’arte bizantina, e qui sta la novità, nel suo modo di procedere alla costruzione dell’immagine non tiene conto della visione ottica umana; imposta tutto sull’idea che non è l’uomo al centro dell’universo, bensì Dio. Ne risulta una visione prospettica illogica, rovesciata, una visione teocentrica anziché antropocentrica: stiamo ormai all’apice del dominio dell’arte orientale in Occidente.

Ravenna, parete nord est dell’abside della chiesa di San Vitale
L’IMPERATORE GIUSTINIANO INSIEME AL VESCOVO MASSIMIANO E LA CORTE (546/548)
Mosaico

La stessa irrazionalità spaziale presente nelle storie di Abramo la ritroviamo nel riquadro decorativo che celebra la cerimonia di consacrazione della chiesa avvenuta nel 547 (o nel 548 se non nel 549), officiata dall’imperatore bizantino, alla presenza del clero e di alcuni membri dell’entourage imperiale. Il mosaico è opera di un maestro di corte. Giustiniano è raffigurato al centro con il pane eucaristico; accanto, alla sua sinistra, è Massimiano insieme ad altri due prelati, mentre a destra sono alti dignitari e soldati. Sulla parete di fronte, insieme alle sue dame e a due nobili, c’è Teodora (525-548), moglie di Giustiniano, che reca in mano la coppa col vino.
Le figure sono presentate frontalmente; sembrano levitare nell’aria, vista la mancanza di elementi di riferimento orizzontali nonché l’assenza di volume. Giustiniano indossa un ampio manto color porpora, il colore riservato a Gesù; il suo capo è cinto di corona e di nimbo, a significare il carattere divino della sua carica: infatti nell’imperatore che dispensa la grazia divina non si vuole effigiato l’individuo Giustiniano, bensì l’emblema della sovranità. Differentemente i personaggi che lo affiancano, compreso Massimiano sono i ritratti di singole individualità, tuttavia sono anche simulacri di cariche, e l’ordine in cui sono disposti non ha nulla di naturale, è solo il riflesso dell’ordine gerarchico del governo imperiale che ripete quello gerarchico del Creato. Al posto della natura come tramite tra l’umano e il divino è subentrato l’imperatore con il suo seguito in qualità di realtà terrena dell’ordine celeste.
Dal punto di vista strutturale va notato che i personaggi sono tutti alti uguali, quantunque, stando alla posizione dei piedi, Massimiano e i due prelati alla destra abbiano diversi centimetri in più rispetto a tutti gli altri. Questa situazione spaziale comporterebbe per la logica prospettica che il vescovo stia davanti all’imperatore, invece come risulta chiaramente dalla sovrapposizione della mano di Giustiniano coperta dal mantello, è lui ad essere davanti a Massimiano. Ma c’è dell’altro.
Se si pone lo sguardo ai piedi ci si accorge che Giustiniano sta col piede sullo stesso punto dove sta il piede del dignitario barbuto. La stessa cosa dicasi per Massimiano: come fa ad occupare col suo piede la stessa porzione di pavimento occupata dal piede del prelato che lo affianca? È chiaro che anche in questo mosaico le leggi della fisica saltano. L’enunciato per cui due corpi non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, qui non vale. Ma non bisogna dimenticare che in questo caso ci si trova davanti all’immagine di una dimensione altra, metafisica, poiché tale è quella che accoglie la spettrale effige della corte bizantina.

Ravenna, navata centrale della chiesa di Sant’Apollinare Nuovo
TEORIA DELLE VERGINI (seconda metà VI secolo);
Mosaico

Le stesse domande che sorgono al cospetto dei mosaici imperiali sorgono anche di fronte ad uno dei più noti mosaici bizantini, quello con la teoria delle vergini, che si trova sulla fascia inferiore della parete sinistra della navata maggiore della chiesa di Sant’Apollinare Nuovo. Anche qui, mettendosi di fronte alla parete e guardando le candide fanciulle, tutte uguali, eburnee, con le braccia schiacciate contro la vita, animate da un impercettibile volgersi ritmico verso la Madonna in trono col Bambino, posta alla fine del corteo, a ridosso dell’arco trionfale, si può notare che, coprendo il fregio fin sotto le ginocchia e confrontando la posizione delle basi delle palme con quella dei piedi delle vergini, le palme risultano poste davanti o tutt’al più al loro fianco. Coprendo dalle ginocchia in giù, invece, ci si rende conto, dalla posizione dei fusti delle palme rispetto a quella dei corpi delle ragazze, che stavolta sono dietro. Come si spiega ciò? Non si spiega poiché Dio non si comunica all’uomo secondo la logica visiva naturale.

Ravenna
SANT’APOLLINARE IN CLASSE (metà VI sec.)

Ravenna, Sant’Apollinare in Classe
TRASFIGURAZIONE SUL MONTE TABOR E SANT’APOLLINARE (549)
Mosaico

Benché fatta oggetto di spoliazione da parte del signore di Rimini Sigismondo Malatesta (1417-1468), Sant’Apollinare in Classe è una delle basiliche ravennati in cui si può comprendere meglio l’effetto globale di trasmutazione perseguito costantemente dall’estetica bizantina. Voluta anch’essa dall’Argentario e consacrata nel 549, non si scosta di pezzo dalla tradizionale tipologia esarcale. La sua importanza è dovuta soprattutto al mosaico absidale che rappresenta la trasfigurazione sul monte Tabor, in cui si ha il punto di arrivo dell’antinaturalismo bizantino. Al centro, in alto, campeggia una grande croce gemmata in un cielo pieno di stelle; le fanno da corona nubi arrossate, Mosè, Elia e tre pecore che stanno per gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo. Lo sfondo è per metà oro, l’empireo, e per l’altra metà verde, il monte Tabor, che si identifica col Creato. Sotto la croce a rimarcare l’asse di simmetria della calotta absidale sant’Apollinare in atteggiamento orante. Benché sia rappresentato un episodio evangelico l’intera composizione risponde a criteri simbolici e non già narrativi. Il vero motivo qui è la dimostrazione delle due nature, umana e divina, di Cristo: tesi dimostrata per simboli.
Siamo ormai in presenza di un’arte dall’impronta decisamente intellettualistica, di difficile comprensione senza il possesso della chiave di lettura, posta nelle mani di pochi privilegiati, artisti e prelati. Ma al di là della comprensione del significato resta il senso di immaterialità che tutta l’arte bizantina ricerca e trova con l’uso di materie ricche di colore.

LA SCULTURA BIZANTINA-RAVENNATE

Ravenna, San Vitale
CAPITELLO (VI sec.)
Marmo

Un discorso a parte merita la scultura e il modo di ottenere l’immaterialità attraverso un’arte che per esprimersi si serve della materia. Le strade principali sono tre: traforando la massa in modo da aumentare il vuoto rispetto al pieno; scegliendo materiali che abbiano in sé la capacità di suscitare sensazioni di immaterialità, come l’oro e l’avorio; riducendo al minimo il numero delle figure e rapportandole ad un fondo liscio.
Quanto testé detto lo ritroviamo paro paro espresso nei capitelli di San Vitale. Elementi plastici per eccellenza qui ricordano dei cesti merlettati. Lo stesso discorso vale per i pulvini. Per dare maggiormente il senso del vuoto il fondo dei bassorilievi è dipinto di nero. Nelle transenne invece il vuoto è reale. L’intaglio raggiunge in questi arredi la finezza delle trine.
Nei sarcofagi come quello dell’esarca Isacco, sempre in San Vitale, le figure sono limitate allo stretto necessario e ogni particolare relativo all’ambientazione naturale viene eliminato. Anche in questo caso la fonte d’ispirazione è dichiarata: i mosaici con il loro fondo dorato.

Ravenna, Museo Arcivescovile
CATTEDRA DI MASSIMIANO (VI sec.)
Avorio, altezza mt. 1,50

Ispirata agli avori è la cattedra del vescovo Massimiano. Il sediario viene donato personalmente dall’imperatore Giustiniano a Massimiano in previsione della sua elezione a vescovo di Ravenna. L’opera proviene da una bottega orientale, forse di Costantinopoli; in essa gli esperti riconoscono la mano di quattro artisti diversi, tutti di altissimo livello.
Come appare evidente prevale in questo manufatto un indirizzo di netta marca ellenistico pittorica; le cornici si richiamano chiaramente a precedenti del I secolo. Ma più che l’iconografia è il modo di lavorare raffinato, ricco di sfumature e la composizione equilibrata a ricondurlo alla scultura ellenistico-romana.
I pannelli con i quattro evangelisti e il Battista, posti nella parte anteriore della cattedra, hanno reminescenze tardo-antiche nella solennità delle figure, ma il rilievo si appiattisce per dar risalto all’elegante fluenza lineare delle pieghe delle vesti. Nei pannelli dello schienale sono raffigurate scene tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, dunque aperte al gusto narrativo del naturalismo alessandrino. Ritroviamo qui, come nelle nozze di Cana la sovrapposizione prospettica o, come nell’episodio di Giuseppe che vende grano ai fratelli, la drammatizzazione scenica.
L’arte bizantina, come accadde a quella egizia e mesopotamica, presto si trasforma in lessico canonico. La cultura ufficiale fissa per ogni figura la fisionomia, gli attributi, i gesti, finanche il colore degli abiti. Questo potrebbe indurre a pensare che per gli artefici bizantini non ci sia più spazio per l’invenzione, ma non è così. Come fu anche per gli antichi Egizi e i Mesopotamici i maestri bizantini trovano nell’affinamento continuo della sensibilità disegnativa e cromatica il proprio dominio. Tuttavia i tempi stanno rapidamente cambiando e in Italia, come nel resto dell’Europa occidentale, la filosofia visiva di corte non potrà aver seguito.


Bibliografia arte bizantina ravennate

Antonio Paolucci, Ravenna, Edizioni Salbaroli, 1982

Gianfrancesco Bustacchini, Ravenna i mosaici, i monumenti l’ambiente, Edizioni Salbaroli, 1984

Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana 1, Sansoni per la scuola, 1988

Piero Adorno, L’arte italiana – volume primo – tomo primo – Dalla preistoria all’arte paleocristiana, Casa editrice G. D’Anna, Nuova edizione 1992

Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Arte nel tempo – Dalla Preistoria al Medioevo, Bompiani/per le scuole superiori, ristampa 1995