IMPORTANZA STORICA DELL’ARTE DELLE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE
PENSIERO ARTISTICO: LA CONCEZIONE CRISTIANA DELLA NATURA DIVINA
LA NUOVA CONCEZIONE DELLA NATURA E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
RADICI IDEOLOGICHE DEL SINTETISMO TRASCENDENTE PALEOCRISTIANO
CARATTERI STILISTICI DEL LINGUAGGIO PALEOCRISTIANO
RAPPORTO FRA DIO E ARTE
NATURA DELL’ARTE PALEOCRISTIANA E RUOLO SOCIALE
SUDDIVISIONE CRONOLOGICA
SUDDIVISIONE STORICO POLITICA
FORMAZIONE STORICA DEL LINGUAGGIO PALEOCRISTIANO. LE ORIGINI: L’ARTE DELLE CATACOMBE
UN LUOGO COMUNE DA RIMUOVERE?
STRUTTURA DELLE CATACOMBE
PITTURA: LE PRIME RAFFIGURAZIONI
AFFRANCAMENTO DELL’ARTE PALEOCRISTIANA DALL’ARTE TARDO-ROMANA
LA SCULTURA PALEOCRISTIANA
LO SVILUPPO DELL’ARTE DOPO LA LIBERALIZZAZIONE DELLA RELIGIONE CRISTIANA
ARCHITETTURA: STRUTTURA DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA
DESCRIZIONE DELLA BASILICA COSTANTINIANA
LA NUOVA CONCEZIONE SPAZIALE
RAPPORTI DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA CON LE DOMUS ROMANE
LA BASILICA DI SANTA SABINA
IL LUOGO; LA SANTA; LA STORIA
LA CHIESA DI SANTA SABINA
I PRIMI MOSAICI PALEOCRISTIANI
SANTA MARIA MAGGIORE E I SUOI MOSAICI
I MOSAICI DELLA NAVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE
I MOSAICI DELL’ARCO TRIONFALE DI SANTA MARIA MAGGIORE
ANALISI STILISTICA DEI MOSAICI DI SANTA MARIA MAGGIORE
IL MOSAICO ABSIDALE DELLA CHIESA DEI SANTI COSMA E DAMIANO
IL PERIODO MIILANESE TEODOSIANO
LO SVILUPPO DELL’ARTE MUSIVA NEL PERIODO MILANESE
LA SCULTURA DEL V SECOLO
IMPORTANZA STORICA DELL’ARTE DELLE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE
Roma, catacomba di San Callisto
CRIPTA DEI PAPI
L’arte paleocristiana è l’arte delle prime comunità cristiane o, se si preferisce, l’arte dei cristiani dell’epoca romana; si diffonde in tutti quei territori dell’impero raggiunti dalla predicazione apostolica. A Roma fa la sua comparsa timidamente, molti anni dopo la morte di san Pietro (64/67 d.C.) e san Paolo (64/67 d.C.), in piena epoca imperiale, in una situazione storica alquanto complessa, caratterizzata dal prevalere delle correnti tardo-antiche da un lato e dall’inarrestabile declino del classicismo greco-romano dall’altro.
Il lessico delle prime comunità cristiane evolve dal linguaggio plebeo. Cresce lentamente, a piccoli passi, e all’inizio si confonde con i tanti dialetti che caratterizzano l’arte provinciale. Ma col passare del tempo il suo peso nella determinazione del futuro volto del linguaggio artistico in Occidente si fa sempre più cospicuo, fino al punto da provocare una svolta nell’indirizzo figurativo dell’intera civiltà occidentale. Con la figuratività paleocristiana la cultura artistica dell’Occidente torna, dopo circa 700 anni, sotto il dominio dei canoni orientali.
Il linguaggio paleocristiano costituisce una delle componenti più attive nel processo di dissolvimento del classicismo greco-romano ed è alla base del linguaggio bizantino; il linguaggio bizantino è una delle componenti del volgare figurativo, l’idioma da cui discende storicamente l’arte occidentale contemporanea. Il periodo paleocristiano rappresenta dunque il periodo di eclissamento dell’arte occidentale e segna l’inizio del dominio dell’arte orientale in Occidente; dominio che durerà 8 secoli in architettura e ben 13 in pittura. Per conoscere questo straordinario fenomeno non dobbiamo spostarci da Roma, poiché proprio nella Città Eterna ha avuto origine.
PENSIERO ARTISTICO: LA CONCEZIONE CRISTIANA DELLA NATURA DIVINA
Non diversamente da tutta l’arte delle altre civiltà antiche, quella cristiana delle origini è un’arte intimamente legata all’ideologia religiosa e da essa dipende in larga misura sia per quanto concerne la poetica sia per quanto concerne il ruolo strumentale. Così come le confessioni delle grandi civiltà pre-cristiane visualizza un mondo diverso da quello terreno, eterno ed immutabile, un mondo metafisico, che si sa esistere ma che non si da ai sensi. Tuttavia fra l’universo religioso cristiano e quello degli altri popoli antichi ci sono delle notevoli differenze. Il Dio cristiano, a differenza degli altri dèi, non aiuta l’uomo ad avere successo in questa vita, ma gli promette un mondo migliore nell’altra, in cui egli potrà godere di condizioni speciali. Quest’altro mondo non è su questa Terra, ma a questa Terra si ricongiungerà alla fine dei tempi; la comunicazione visiva della sua presenza non garantisce nulla, ricorda solo che esiste un’altra vita, al di là di quella terrena. L’arte cristiana non è dunque solo la raffigurazione di un mondo, ma anche la prefigurazione di un momento, un momento al di là da venire: la resurrezione della carne. Per raggiungere la beatitudine eterna e ritrovare il proprio corpo occorre seguire delle regole, dei percorsi, essere partecipi di un certo ordine terreno; questo ordine è stabilito da Dio tramite la Chiesa. Senza tale ordine temporale in Terra non può esserci ricongiungimento in Cielo né in Terra: di qui la necessità di conservarlo. Chi guida il cristiano in questo suo percorso per il ricongiungimento finale col proprio Dio è il capo della Chiesa: il papa. Tutta la storia cristiana non è altro che la storia del lento cammino dell’umanità verso la conquista del paradiso e della redenzione finale, guidata dai patriarchi prima dell’avvento di Cristo, guidata dai papi dopo l’avvento di Cristo: questo il nuovo significato della storia per il cristianesimo.
Un’altra differenza fondamentale è che il Dio dei cristiani è un Dio fatto di puro spirito; non ha corpo, quindi non ha una forma definita. Ciò non significa tuttavia che non sia visibile. Visibile lo è, indirettamente. La cosa che ne rende meglio l’idea è la luce: dunque, Dio si da ai sensi non come forma, ma come luce. La luce divina non è luce naturale, la luce del Sole, che illumina i corpi dal di fuori, ma luce spirituale, interiore, che illumina i corpi dal di dentro. Essendo luce al massimo grado di intensità è bianca, più luminosa di quella naturale. La luce divina, come quella naturale, di per sé non ha forma, ne assume una nel momento in cui viene intercettata da un corpo solido. Ma contrariamente a quella naturale, che avvolge i corpi opachi e li plasma rivelandone la presenza attraverso il chiaroscuro cromatico, la luce divina penetra nella materia e si diffonde nello spazio facendo risplendere i corpi dall’interno, facendoli brillare di luce propria, come se fossero astri. La luce naturale, scivola sui corpi e si disperde nello spazio; la luce divina emana dai corpi, li accende e li fa luccicare come la superficie del mare quando viene colpita dai raggi del sole. Dunque la luce divina non si traduce in tono, ma si esprime come tinta, colore-luce, vibrazione luminosa.
Il colore privato del tono rende le immagini piatte, e le immagini piatte danno la sensazione di irrealtà, o meglio di immaterialità. Ma è proprio questa la sensazione che gli artisti dei primi secoli dell’era cristiana intendono risvegliare nell’osservatore. Infatti obiettivo dell’arte paleocristiana è esprimere l’immateriale; è proprio in questo modo che essi vogliono rendere il senso della spiritualità delle cose. E siccome le cose, tutte le cose, sono, in quanto create da Dio, piene del senso del divino, eccole apparire luminescenti e non illuminate.
LA NUOVA CONCEZIONE DELLA NATURA E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
La natura, l’uomo, tutti gli esseri viventi e non, sono creature di Dio. È Lui che, secondo quanto dice la Bibbia, ha plasmato il mondo e lo ha reso un luogo abitato. In questo quadro relazionale le immagini ottiche della natura, la realtà contingente, divengono segnali di una realtà trascendente, cioè alludono ad altro da sé. Il Creato a sua volta si qualifica come manifestazione tangibile, seppure indiretta, della presenza divina. Siccome lo scopo dell’arte cristiana è quello di testimoniare la presenza di Dio, ecco dunque che viene sollecitata a non indugiare sul percetto naturale ma a procedere oltre, andare al di là del percetto stesso per estrarvi i segni che evocano la presenza del divino, i segni indicativi di trascendenza.
Spirituale è l’opposto di materiale. Stilisticamente l’immaterialità si esprime con lo svuotamento delle forme, cioè con l’appiattimento dello spazio tridimensionale, con la trasparenza delle tinte, col blocco dello scorrimento del tempo mediante il congelamento delle azioni. I maestri paleocristiani a queste soluzioni ne aggiungono altre inedite. Spostano la sorgente di luce da esterna, quella naturale del Sole, ad interna, quella mistica dell’anima, quindi sospingono la pratica artistica a ricercare il movimento nel colore, diventando così, nella fase matura, i primi sperimentatori della vibrazione cromatica. Questa viene ottenuta tecnicamente tramite il mosaico, il mezzo più adatto a trasformare in effetti di luce riflessa e irradiante la luce solare che illumina l’interno delle basiliche.
RADICI IDEOLOGICHE DEL SINTETISMO TRASCENDENTE PALEOCRISTIANO
Contrariamente a quanto sarebbe ragionevole attendersi la ricerca dei segni di Dio nel Creato non porta gli artisti paleocristiani a guardare direttamente alla natura; si ammette che la sperimentazione del vero sia stata già compiuta dagli autori classici. Ad essi gli artefici cristiani si sentono idealmente legati, per cui ora basta procedere oltre, andare al di là della base interpretativa culturale fornita dall’arte greco-romana.
Dato che ai cristiani non interessa la natura in sé, ma solo in quanto veicolo per la diffusione della luce divina, nell’effigiare l’immagine della natura a pittori e scultori bastano pochi segni per evocare la presenza del Creato, così come nei cartelli stradali di pericolo, ad esempio, bastano pochi segni per evocare il “senso” dell’oggetto che costituisce motivo d’allerta. Questo criterio sottopone l’immagine naturale ad una doppia operazione di astrazione: una di riduzione, semplificazione delle forme reali a forme schematiche, abbozzate; l’altra di trasformazione delle figure in immagini luminose, colore puro. Non essendoci più un rapporto proiettivo, ma allusivo, nell’arte paleocristiana l’immagine artistica si rende sempre più indipendente da quella naturale: di qui la tendenza alla sintetizzazione paratattica. Nasce così un nuovo linguaggio religioso: non più il vecchio immanentismo stilizzato delle prime civiltà storiche, ma il nuovo sintetismo trascendente dei primi cristiani.
CARATTERI STILISTICI DEL LINGUAGGIO PALEOCRISTIANO
All’inizio forma e struttura sono quelle del linguaggio tardo-antico, più naturalistico e meno compendiario; poi, a causa del dominio bizantino, si viene imponendo un linguaggio di tipo orientale, più ricercato e stilizzato. Nella sua prima fase l’arte cristiana si limita ad utilizzare gli elementi strutturali del linguaggio tardo-antico, ma le mutazioni che ingenera sono tali da accelerarne considerevolmente il processo di destrutturazione. Questo processo era già in atto da un secolo. Come è noto durante il periodo tardo-imperiale la componente realistica del linguaggio tardo-antico era andata perdendo progressivamente di profondità trasformando quest’ultimo in un linguaggio fatto di immagini sempre più evanescenti e compendiarie; l’unità formale ellenistica che ne costituiva il nucleo si era andata frantumando gradualmente in una figuratività frazionata e trasparente. Da questa immagine destrutturata prende vita l’arte dei primi cristiani. L’arte, la poetica paleocristiana, la eredita da quella romana e ne fa il principio strutturale della propria estetica, infondendole nuova profondità. Questa volta però non si tratta di una profondità fisica, ma spirituale, e il nuovo “spessore” non si esprime già nei volumi dei corpi, ma con l’intensità della luce che da essi proviene. Cosicché ad una sintassi fatta di pieni contrapposti a vuoti si sostituisce una sintassi di tinte chiare che si contrappongono a tinte scure: quella paleocristiana è la prima forma di cultura espressiva a impostare la struttura dell’aspetto percettivo dell’immagine fenomenica della realtà sulla struttura cromatica della luce. Quindi nella seconda fase, quella che fa seguito alla liberalizzazione costantiniana, l’arte cristiana passa ad una vera e propria opera di strutturazione di un nuovo linguaggio, in cui tra figure e natura c’è più soltanto un legame di tipo associativo, il linguaggio rappresentativo romano diventa così linguaggio interattivo. Di qui la sua importanza dal punto di vista storico artistico, poiché è proprio nel suo ambito che si compie il primo processo di trasformazione di un linguaggio storico-naturalistico in linguaggio storico-antinaturalistico.
Non si può pensare ad una manifestazione visiva del divino che non sia al tempo stesso manifestazione estetica, arte. Essendo la manifestazione del divino luce colorata, l’arte va ricercata nelle infinite sfumature cromatiche della luce, e risulterà non più dalle relazioni che si stabiliscono fra gli elementi strutturali di un complesso di forme, ma dal dosaggio della giusta quantità e qualità di luce-colore. Questo significa che per i cristiani misure e proporzioni non si apprezzano con l’intelletto, cogliendo i rapporti fra le linee che definiscono la forma delle singole “frasi”, ma con la sensibilità, cogliendo i rapporti cromatici che riempiono lo spazio contenuto nei contorni lineari delle singole figure.
Nota: la luce dei primi cristiani non va interpretata come l’effetto fisico della presenza di Dio quanto piuttosto come l’elemento discriminante che rimanda alla sua presenza.
NATURA DELL’ARTE PALEOCRISTIANA E RUOLO SOCIALE
Roma, catacomba di San Callisto
CUBICOLO DEI SACRAMENTI
Come presso i Romani anche presso i cristiani l’arte è concepita alla stessa stregua di un repertorio di immagini belle e pronte di cui servirsi per comunicare visivamente contenuti di natura ideale o storica e va pertanto ricercata negli elementi strutturali dell’immagine artistica stessa; sia per gli uni che per gli altri le parole e le regole di questo linguaggio appartengono alla cultura, non alla natura. Ecco perché le forme dell’arte tendono a recidere ogni legame di tipo proiettivo con le immagini naturali, cioè tendono a risolversi nella figurazione autonoma.
La religione cristiana è una religione che, almeno all’origine, si rivolge soprattutto alla massa, agli strati più bassi della società, quindi risulta logico per lei servirsi del linguaggio plebeo, un linguaggio molto più elementare e di immediata comprensione di quello aulico. Il fatto poi che essa sospinga il fedele ad oltrepassare il significato diretto della figurazione ne causa un ulteriore riduzione all’essenziale.
Invariato rispetto a quello dell’arte romana rimane il ruolo sociale dell’arte paleocristiana: fornire immagini per il culto dei fedeli e per la loro istruzione religiosa. Inedito è invece il pubblico a cui si rivolge: il popolo, la massa senza distinzione di età, sesso e condizione sociale.
Di arte cristiana vera e propria, cioè con elementi strutturali che possono essere considerati sufficientemente autonomi e articolati dal punto di vista linguistico, si può iniziare a parlare solo a partire dal IV secolo, cioè dal periodo che fa seguito all’editto di Costantino del 313. Anteriormente a questa data le manifestazioni visive della nuova religione sono limitate a pochissimi manufatti, sarcofagi, figurazioni murali, decorazioni, destinati per lo più al culto strettamente privato dei defunti. Nei primi due secoli addirittura queste manifestazioni mancano del tutto. Nella maggior parte dei casi, detti lavori non hanno alcun valore artistico, in quanto privi di una benché minima intenzionalità estetica. Però hanno una notevole importanza dal punto di vista storico, poiché in essi si ravvisano le prime parole del nuovo linguaggio cristiano. Queste, sotto il profilo prettamente stilistico, devono essere considerate a tutti gli effetti espressione dell’arte tardo-romana. Se ne distinguono solo per le tematiche e i messaggi che comunicano, relativi alla religione cristiana e non a quella pagana, e per l’interpretazione delle parole stesse, identiche nella veste esteriore ma ben diverse nel significato. Soltanto con l’intervento della componente bizantina, ben sei secoli dopo la morte di Cristo, l’arte paleocristiana acquisirà una personalità propria, decisamente diversa e distaccata dai modelli tardo romani. Ma la separazione non durerà a lungo. Si manterrà il tempo strettamente necessario perché svanisca il sogno di riunificazione dell’impero d’Oriente con quello d’Occidente da parte dei sovrani bizantini.
In termini più concisi si può dire pure che l’arte paleocristiana è compresa in un arco di tempo che va dal I secolo d.C. al VI. Per tutto il primo secolo e mezzo essa tace; poi, a partire dalla fine del II secolo e fino al IV si sviluppa seguendo un percorso parallelo a quello dell’arte romana, con frequenti interscambi e commistioni fra una corrente e l’altra, in modo particolare con quella realistico compendiaria, con manifestazioni episodiche o comunque ridotte e generalmente molto discrete. Mentre negli ultimi due secoli si assiste ad una vera e propria esplosione creativa, con una ricchezza straordinaria di novità espressive a causa della diretta influenza della cultura proveniente da Bisanzio.
Nel sintetismo trascendente dell’arte bizantina, il tempo si annulla, il movimento diventa cadenza ritmica e lo spazio sfugge ad ogni controllo da parte della ragione, prospettandosi agli occhi dello spettatore in maniera del tutto innaturale, secondo un punto di vista rovesciato, che non vede più l’uomo al centro dell’universo, ma Dio, cosicché ad un punto di vista antropocentrico si va sostituendo un punto di vista teocentrico.
Il periodo storico che vede la fioritura dell’arte cristiana è lo stesso periodo che vede l’impero romano passare dai fasti e dai deliri di onnipotenza dei primi due secoli di vita al lento declino nel terzo, fino alla totale estinzione nel quinto. È il periodo storico che vede anche il tentativo di restaurazione di Giuliano l’Apostata e di Teodosio prima del definitivo tramonto. Ma è anche il periodo che vede l’Italia declassarsi da centro di irraggiamento culturale a provincia bizantina, mentre il resto d’Europa finisce sotto il dominio dei nuovi invasori barbari.
FORMAZIONE STORICA DEL LINGUAGGIO PALEOCRISTIANO. LE ORIGINI: L’ARTE DELLE CATACOMBE
Roma, catacomba di Domitilla
CRISTO ORFEO CON GLI ANIMALI (III sec.)
Affresco, altezza cm. 50 – larghezza cm. 90
Roma, ipogeo della via Latina
ARCOSOLIO
Decorazione parietale
Roma, catacomba dei Santi Pietro e Marcellino
NOÈ E LA COLOMBA (II/III sec.)
Roma, catacomba della via Latina
GESÙ E LA SAMARITANA AL POZZO DI SICAR (metà IV sec.)
Per poter osservare le prime immagini attraverso cui si manifestano i nuovi contenuti religiosi, per conoscere le prime sillabe del nuovo linguaggio cristiano occorre scendere nel sottosuolo e far visita alle catacombe. Queste non sono le tombe dei cristiani, ma dei cimiteri sotterranei.
Le catacombe sorgono all’esterno delle mura della città, lungo le principali vie consolari, e si snodano in varie direzioni per mezzo di lunghi corridoi, scavati direttamente nel tufo. La loro collocazione extraurbana e sotterranea si spiega con la pratica dell’inumazione seguita dai cristiani nei loro riti funerari. Infatti a partire dal III secolo, a causa di tale pratica, d’importazione orientale, scoppia nelle aree limitrofe alle mura della città, già abbondantemente sovraffollate di sepolcri, una crisi degli spazi cimiteriali, per cui si deve ricorrere all’utilizzazione di nuove aree, più ampie e meno affollate, e le uniche disponibili si trovano sottoterra. Si inizia così a scavare il sottosuolo in ogni direzione. Ben presto però anche questi complessi si rivelano insufficienti, per cui occorre ampliarli ulteriormente. Con l’editto di Costantino le catacombe passano sotto il controllo della Chiesa e da quel momento iniziano ad essere anche luoghi di culto di santi e martiri.
Fino a non molto tempo fa, quando si parlava di catacombe si parlava di un luogo dove i cristiani oltre che a rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni dei Romani si riunivano per tenere le loro assise segrete. La parola cripta stessa, che sta ad indicare uno degli spazi più caratteristici delle catacombe, deriva dal greco kryptós, che significa «nascosto». Da un po’ di tempo a questa parte si va imponendo una interpretazione diversa che tende a minimizzare le persecuzioni e a screditare la versione che vorrebbe le catacombe come una specie di “covi” utilizzati dai seguaci di Cristo per riunioni segrete. Tali nuove teorie affermano che l’utilizzo di queste gallerie non fosse una pratica ricorrente, bensì del tutto casuale e anche poco proficua. Non si esclude tuttavia che i cristiani in qualche occasione, durante le persecuzioni avvenute in più riprese, sotto diversi imperatori, nel tentativo di sottrarsi alle violenze delle soldatesche, vi si siano rifugiati. Inoltre riguardo alle riunioni è molto più probabile che si tenessero nelle case di qualche facoltoso patrizio romano, convertitosi al cristianesimo.
Prendiamo atto del prevalere di questa nuova spiegazione e passiamo alla loro descrizione.
SCHEMA DISTRIBUTIVO DELLE PRINCIPALI CATACOMBE E BASILICHE ROMANE
Roma, catacomba di San Callisto
LOCULI SEPOLCRALI (III sec.)
Roma, catacomba di Domitilla
CUBICOLO DEL BUON PASTORE (III sec.)
Roma, catacomba della via Latina
ARCOSOLIO DESTRO DELLA SALA NORD (IV sec.)
Le prime strutture constano di pochi bracci che si incrociano perpendicolarmente all’incirca a metà lunghezza. Ma col passare del tempo i bracci aumentano fino ad infittirsi in una complessa rete ramificata e stratificata di gallerie a più piani (nelle catacombe di San Sebastiano si arriva fino a sette). La lunghezza complessiva dell’intera rete di corridoi delle singole catacombe può variare da poche centinaia di metri, in quelle meno estese, a ben 14 km. in quelle più estese, come nel complesso cimiteriale di San Callisto, sotto la via Appia.
La struttura tipica delle catacombe consiste in lunghi cunicoli, o ambulacri, a sezione rettangolare, larghi quanto basta per lasciar passare una fila di persone alla volta, alti quanto necessario per ospitare mediamente fino ad una pila di sette loculi per parete. I loculi sono cavità a forma di parallelepipedo, anch’essi scavati direttamente nel tufo, che servono ad ospitare la salma del defunto. Questa, secondo un’usanza comune in Oriente, viene deposta al suo interno, tutta intera, avvolta in un grande lenzuolo bianco, detto sudario: i cristiani non praticano la cremazione come i Romani ma l’inumazione. Ciò comporta una maggiore richiesta di spazio, e per questo, a causa del rapido incremento del numero dei cristiani dopo la liberalizzazione della loro religione, si assiste ad uno sviluppo smisurato della rete catacombale. Una volta sistemata la salma all’interno del loculo, si chiude l’imboccatura con una parete di mattoni tenuti da uno strato di malta. In molti casi sulla malta si stende uno strato d’intonaco; in altri ci si sovrappone una lastra di marmo, cioè una lapide.
La stratificazione della società romana, non abbandona i cittadini cristiani neanche dopo la morte. Difatti, capita spesso che personaggi illustri vengano sepolti nello stesso braccio dei plebei. Ma in questo caso si rimarca la differenza di casta con un loculo speciale, l’arcosolio, più grande, chiuso da una solida lapide poggiante su un parapetto trasversale detto sòlia, e sormontato da un archivolto detto arcosòlium: di qui il termine arcosolio. In molte catacombe, per proporzionare l’ultima dimora al rango a cui il defunto aveva appartenuto durante la vita terrena, ma anche per interrompere l’interminabile serie di cunicoli che si dipanano per ogni dove, si usa interporre di tanto in tanto delle “espansioni”, ambienti più o meno grandi a forma di stanzette cubiche, dette per l’appunto cubicoli, o celle dalla forma a trifoglio (per via delle tre absidi poste su ognuno dei tre lati non occupati dalla porta d’accesso) dette tricore, o, ancora, altre cellette dette cripte. Sulle pareti di queste “comode” dimore dell’aldilà si interviene allo stesso modo che sulle pareti scabre delle gallerie, con un’unica differenza però e cioè rivestendo le strutture ad arcosolio con “abiti” molto più sontuosi.
Dopo l’operazione di sigillatura dei loculi, sullo strato d’intonaco ancora fresco viene inciso, di norma, il nome del defunto, oppure graffito un simbolo, solitamente una croce. Qualche parete, come già detto, viene rifinita con l’apposizione di una lapide di marmo. Chi non si può permettere la lapide di marmo si deve accontentare di un piccolo affresco abbozzato sull’intonaco. È così che nascono le prime raffigurazioni in lingua cristiana.
Naturalmente le immagini sulle pareti intonacate si limitano a pochi tratti, a pochi soggetti; ma la cosa piace, e mano a mano che ci si sposta dai loculi agli arcosoli e da questi alle cripte, ai cubicoli e alle tricore, le raffigurazioni si fanno sempre più complesse e impegnative, fino a diventare delle vere e proprie composizioni articolate. Ed è proprio ad una di queste composizioni articolate che è necessario rivolgersi per conoscere le prime forme espressive dell’arte paleocristiana.
PITTURA: LE PRIME RAFFIGURAZIONI
Roma, catacomba di San Callisto, cripta di Lucina
PESCE E PANI EUCARISTICI (III sec.)
Particolare della decorazione pittorica Pittura su parete, altezza cm. 30 – larghezza cm. 32
Roma, catacomba di San Sebastiano
ISCRIZIONE CON IL GIOVANE SIRICUS ORANTE
Graffitura su marmo
Il percorso evolutivo della pittura paleocristiana può essere riassunto in due momenti fondamentali, di cui il primo caratterizzato dalla trasformazione dello stile naturalistico dell’arte realistico-compendiaria, di ascendenza greco-romana, in uno stile sempre più compendiario, con forti accenti tendenti all’antinaturalismo simbolico; il secondo caratterizzato invece dal progressivo dominio dei caratteri astrattivi su quelli naturalistici, fino alla comparsa, negli esemplari bizantini, di episodi figurativi in cui la visione ottica, naturale, viene completamente stravolta.
Le prime rappresentazioni sono per lo più semplici e si limitano a figure isolate o abbinate in modo molto elementare. La loro definizione è affidata a scarne linee di contorno, tracciate con rapidi tratti di pennello a delimitare aree virtuali, successivamente riempite con tinte piatte, di pochi, essenziali colori. Le raffigurazioni più complesse, che decorano le tombe dei più facoltosi o delle personalità di maggior rilievo, si arricchiscono di sfumature e varietà di toni. Tutte, dalle più semplici alle più complesse, trattano tematiche strettamente legate alla religione cristiana e alla memoria dei defunti; ma anche in questo secondo caso più che far riferimento alle fattezze fisiche o alle opere meritorie dei trapassati fanno riferimento alla loro fede cristiana. Iscrizioni, simboli isolati, immagini di culto, lasciano il campo nelle costruzioni di maggior rilievo a raffigurazioni di passi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Tratto peculiare di queste prime manifestazioni è la varietà di stili, spiegabile con l’indifferenza verso i problemi estetici degli esecutori materiali, molto probabilmente aiuti di maestranze romane, formatisi all’ombra dei più diversi indirizzi culturali. Accade così che in questi lavori affiorano appena i riflessi delle culture dominanti. Ma non sempre questi prodotti sono, come si potrebbe pensare, il risultato di una cultura popolare; in alcuni casi sono la manifestazione di una cultura decadente che si richiama al raffinato naturalismo ellenistico. Comunque sia, si nota in tali raffigurazioni la tendenza a rendere sempre più compendiaria la forma realistica della corrente pittorica ellenistico-romana.
Alcuni dei primissimi saggi dell’arte paleocristiana sono rappresentati da monogrammi simbolici isolati, come ad esempio quello originato dalla combinazione delle due lettere P (la R greca e non la P latina) ed X, che fanno riferimento al nome di Cristo in greco, Χριστός, o da singole figure come il pesce acrostico: in greco pesce si dice icthýs, parola composta dalle iniziali di Jesús Christòs Theoú Yiòs Sotèr ovvero «Gesù Cristo Salvatore figlio di Dio».
AFFRANCAMENTO DELL’ARTE PALEOCRISTIANA DALL’ARTE TARDO-ROMANA
Roma, catacomba di San Sebastiano
SOFFITTO DELLA TOMBA DI CLODIUS HERMES (II sec.)
Affresco
L’affresco che decora il soffitto della tomba di Clodius Hermes, sebbene abbia perduto col tempo smalto e definizione, evidenzia in maniera assai eloquente il carattere delle prime immagini cristiane. All’interno di una cornice ottagona campeggia una figura che nella posa, nel gesto e nell’asta che tiene di traverso rimanda immediatamente all’Augusto di Prima Porta. Ma lì il braccio si alza in gesto di comando, qui si dispiega in gesto oratorio; lì il manto ricade sul fianco in perpendicolo, qui si solleva a bilanciare il braccio disteso.
La figura è in posa ponderata, proporzionata sul canone aureo; la sua definizione si risolve in pochi campi di colore piatto, ritagliati, accostati l’un l’altro. Dalla parte opposta si schiera la folla ridotta a poche, pure e semplici pennellate di colore, con una minima diversificazione per quanto riguarda la tinta e la forma che indica la testa. Nell’insieme manca la prospettiva, anche se qualche riferimento spaziale rimane nella distribuzione delle macchie che sembrano disporsi in direzione del gesto. La figura dell’oratore è visibilmente più grande delle altre pur essendo dietro: e questo è in palese contraddizione con la logica prospettica che vuole gli oggetti retrostanti più piccoli di quelli in primo piano.
Sul cosa rappresenta l’affresco le interpretazioni non sono univoche. Un pagano lo potrebbe leggere come un imperatore che arringa le truppe, mentre un cristiano come Gesù che predica, rivolto ad un drappello di fedeli. Comunque la si legga quello che è importante dal punto di vista storico artistico è che la tecnica compendiaria, che risolveva in pochi tocchi le immagini evocatrici di spazi naturali e avvenimenti storici, qui si fa ancora più compendiaria, fino a ridurre le figure a poche pennellate astratte. Ciò accade perché i primi cristiani sono molto più interessati a quello a cui le immagini alludono che non a quello che rappresentano: è importante il significato a cui la forma rimanda, non l’oggetto che imita.
Roma, Museo Lateranense
SARCOFAGO DEL BUON PASTORE (seconda metà del IV sec.; periodo teodosiano) Rinvenuto nella catacomba di Protestato
Marmo
La stessa tendenza alla semplificazione formale riscontrata in pittura la ritroviamo nella scultura, rappresentata nella quasi totalità dei casi dalla decorazione dei sarcofagi.
Spesso gli arcosoli più imponenti risultano ulteriormente arricchiti dalla presenza di sarcofagi. Queste casse di pietra, che i Romani utilizzavano per deporvi le urne contenenti le ceneri dei propri cari estinti, nelle catacombe assumono una funzione di status sociale. Infatti le arche sepolcrali non se le possono permettere tutti dato gli alti costi di realizzazione. Per scolpire un sarcofago ci vogliono maestranze specializzate; il materiale scultoreo costa molto più di quello pittorico; ci vuole più tempo rispetto all’affresco; non si può realizzare sul posto, quindi al costo di lavorazione va aggiunto il costo supplementare del trasporto e della collocazione in sito. Questa maggiore dipendenza dalla mano d’opera specializzata rende lo stile dei sarcofagi più ancorato alle soluzioni della cultura tardo-antica romana.
Uno dei sarcofagi più complessi è quello detto del Buon Pastore, dall’immagine del pastore barbuto ripetuta tre volte, al centro e ai due spigoli della cassa. Sul fronte principale, tutt’intorno alla figura del crïòforo (portatore di agnello), si dipana una matassa di tralci di vite, in mezzo ai quali, fra grappoli d’uva penduli, si mimetizzano puttini affaccendati a svolgere varie attività rustiche: raccogliere gli acini, pigiare l’uva nel tino, mungere le pecore, separare un agnello dalla madre. Non ci sarebbe nulla di nuovo rispetto ai bassorilievi pagani se non fosse per la doppia lettura che se ne può fare. Il pastore, ad esempio, è sia il pagano moscoforo, il portatore dell’offerta votiva, che Gesù Cristo, qui raffigurato con chiaro intento allusivo alla sua condizione di uomo e agnello sacrificale insieme; i tralci di vite sono tanto motivo decorativo quanto allusione al verbo divino, la parola di Dio che si espande in ogni dove, fino a dare i suoi frutti, gli acini, che gli uomini di fede, quelli puri come bambini, raccolgono.
Rispetto ai sarcofagi romani in questo sarcofago paleocristiano la scultura risulta più sommaria e il rilievo più basso, segno evidente del prevalere di una tendenza volta più a raggiungere obiettivi di tipo luministico, propri della pittura, che non volta a realizzare conquiste plastiche, proprie della scultura.
Città del Vaticano, grotte Vaticane
SARCOFAGO DI GIUNIO BASSO (IV sec.)
Marmo del pentelico, altezza mt. 1,41 – lunghezza mt. 2,43
Molto più complesso e ricco è il sarcofago di Giunio Basso, prefetto di Roma, morto nel 359. La fronte è articolata in due ordini di edicole, suddivise l’un l’altra da colonnine col fusto decorato ora con scanalature a torciglione, ora con motivi a tralci e puttini. I capitelli, compositi, raccordano le colonnine dell’ordine superiore ad una trabeazione di tipo classico, mentre nell’ordine inferiore le raccordano alternatamente ad archi a conchiglia a sesto ribassato ed a timpani. All’interno di ogni edicola, a riempire l’intero spazio a disposizione, vi sono raffigurate scene varie, tratte da fonti diverse: Vecchio e Nuovo Testamento, Storie di Pietro e Paolo. Nell’ordine, da sinistra a destra e dall’alto in basso abbiamo: il sacrificio d’Isacco; l’arresto di Pietro; la traditio legis; l’arresto di Cristo; il giudizio di Pilato; Giobbe; Adamo ed Eva dopo il peccato; Cristo entra a Gerusalemme; Daniele nella fossa dei leoni; l’arresto di Paolo.
Lo stile risente della ripresa dell’impostazione pagana voluta dall’imperatore Giuliano l’apostata (360-363), le cui intenzioni sono quelle di ridimensionare la religione cristiana, “dilagata” in seguito alla liberalizzazione approvata da Costantino (306-337). Ciononostante ci sono delle notevoli differenze per quanto riguarda alcuni particolari; primo fra tutti la sequenza storica degli episodi narrati. Infatti fra questi brani non c’è una concatenazione logica; sono messi alla rinfusa; ognuno va letto per sé, singolarmente, senza cercarne un proseguimento temporale in quello successivo, dunque la sequenzialità della narrazione viene annullata. Questo perché la storia, come la natura, non va letta per quello che rappresenta, ma per il significato traslato a cui rimanda, ovvero la testimonianza della presenza divina nel mondo. Come testimonianza di Dio ogni scena assume un valore in sé e per sé, e se questo è il fine allora è questo il filo che tiene unite le scene tra di loro, non la logica sequenziale.
LO SVILUPPO DELL’ARTE DOPO LA LIBERALIZZAZIONE DELLA RELIGIONE CRISTIANA
Roma, San Pietro
LA BASILICA COSTANTINIANA (IV sec.)
Con la liberalizzazione della religione dei seguaci di Cristo su tutto l’immenso territorio dell’impero romano si assiste ad una vera e propria fioritura, quasi un’esplosione dell’espressività figurativa cristiana. La conquistata libertà religiosa porta con sé la necessità di costruire luoghi di culto specifici; la costruzione di luoghi di culto specifici porta con sé la necessità di trovare maestranze specializzate oltre che l’esigenza di servirsi di linguaggi meno approssimativi di quelli adottati fino ad allora nelle catacombe. Per far fronte a questa occorrenza ci si rivolge alle lingue in offerta al momento sul mercato. Scomparsa del tutto la lingua classica rimane quella tardo-antica. Questa si offre con le sue due versioni artigiane aggiornate e maggiormente quotate: una che risente della cultura filo-siriaca, greve e intensamente espressiva, l’altra che risente della cultura filo-ellenica, raffinata e naturalistica.
La più importante manifestazione di questa nuova espressività e anche l’emblema stesso della comunità cristiana, è la basilica. Le quattro maggiori basiliche di Roma, San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura e Santa Maria Maggiore, sorgono tutte durante il IV secolo. La prima ad essere costruita è San Giovanni, eretta nel 315. Subito dopo è la volta di San Pietro, consacrata da papa Silvestro il 18 Novembre del 326. La basilica madre vede la luce due anni prima della dedicazione e viene terminata 23 anni dopo, nel 349. Santa Maria Maggiore viene fondata da papa Liberio intorno al 360, in seguito alla straordinaria nevicata in pieno mese di Agosto. L’ultima delle grandi basiliche romane, quella di San Paolo fuori le mura viene fondata sotto Teodosio nel 386, consacrata da papa Siricio il 17 novembre del 390 e terminata nel 400.
Di queste quattro basiliche nessuna ci è giunta immutata; tutte sono state ritoccate con notevoli conseguenze sull’aspetto originario. La chiesa di San Pietro è stata abbattuta e completamente rifatta nel Cinquecento; San Giovanni è stata ristrutturata nel Seicento; San Paolo è stata completamente rifatta in stile neoclassico dopo l’incendio del 1823. L’unica che ha conservato parte dell’aspetto primitivo, anche se non sembra, poiché nascosto dalla “camicia” berniniana, è Santa Maria Maggiore. Per sapere dunque come era fatta la primitiva basilica cristiana ci si deve servire in buona misura di ipotesi ricostruttive.
ARCHITETTURA: STRUTTURA DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA
Analogamente a ciò che si verifica per la pittura e la scultura, anche in architettura i cristiani adattano le strutture romane ai nuovi contenuti ideologici del loro credo. La struttura della primitiva basilica cristiana riprende e modifica la struttura della basilica romana. La basilica romana era una grande costruzione formata da una grande aula rettangolare centrale, circondata da due peristili concentrici, separati da una fila continua di colonne. Ai cristiani basterà interrompere questo giro di colonnati per trasformare i pagani peristili nelle cristiane navate.
Nelle basiliche romane l’ingresso era posto sul lato lungo del fabbricato, cosa questa che nell’osservatore produceva un senso di espansione spaziale dell’ambiente interno; al contrario i cristiani spostano l’ingresso della loro basilica sul lato corto, provocando così nel fedele un senso di convogliamento dello spazio interno verso la parete opposta, il punto più importante di tutta la costruzione, il punto dove è posto l’altare. Le pareti perimetrali della basilica romana erano spesso movimentate dall’inserimento di esedre che si aprivano al centro di ogni fiancata, fatta eccezione, ovviamente, per quella occupata dall’apertura d’accesso. Nella basilica cristiana, l’abside, l’esedra più importante, viene collocata al centro della parete minore, di fronte all’ingresso, a mo’ di fulcro in cui si raccolgono e concludono le linee di fuga prospettiche delle navate.
DESCRIZIONE DELLA BASILICA COSTANTINIANA
L’antica basilica costantiniana di San Pietro, viene fondata sulla piana dove si trovava il circo di Nerone. Presenta la tipica struttura delle basiliche paleocristiane maggiori, che non ha nulla a che vedere con quella odierna. Rispetto alla basilica attuale, quella costantiniana è alquanto più piccola. Oggi di questa più antica struttura ne rimangono solo i muri di fondazioni, ancora visibili se si scende a far visita alle tombe dei papi, situate sotto il pavimento della chiesa.
La basilica di San Pietro viene fatta costruire da Costantino sul luogo dove nel 160 papa Aniceto (155-166) fa erigere una edicola sulla tomba dell’apostolo. A metà del 1400 papa Nicolò V Piccolomini (1447-1455) da incarico a Bernardo Rossellino di progettare un nuovo edificio al posto della vecchia basilica costantiniana. Il progetto non ha seguito a causa della morte del papa, ma con Giulio II della Rovere (1503-1513) riprende in grande stile. Abbattuta l’antica struttura, il 18 Aprile del 1506, con la benedizione della prima pietra, il Bramante (1444-1514) da inizio alla lunga storia della ricostruzione della chiesa cristiana più importante del mondo, storia conclusasi con la consacrazione di papa Urbano VIII (1623-1644), avvenuta il 18 Novembre 1616, 1.300 anni dopo la prima consacrazione.
La San Pietro paleocristiana è una basilica suddivisa in due corpi a pianta rettangolare: il quadriportico e il corpo basilicale. Il quadriportico, come indica il nome stesso, è formato da un cortile scoperto, circondato da quattro portici. Funge da luogo di sosta per i neòfiti o catecúmeni, cioè per quei fedeli che attendono di essere battezzati e che fino ad allora non possono accedere all’interno della basilica. Al centro del cortile è posta una fonte battesimale per le abluzioni di rito: una vasca ricolma di acqua santa, coperta da un baldacchino. Alcuni autori riportano che al centro della vasca vi era collocata una monumentale pigna di bronzo, la stessa che oggi decora il cosiddetto “nicchione della pigna”, l’esedra eretta da Pirro Ligorio (1514-1583) nel 1562-1963 a chiusura del lato nord dei cortili vaticani. Altri autori invece vogliono la stessa pigna collocata nell’atrio dell’antica San Pietro, ivi traslocata da una fontana di un certo “tempio di Iside”; di questa seconda presunta collocazione fu testimone d’eccezione Dante (1265-1321), che la ricorda nel canto XXXI dell’Inferno, verso 59.
I portici sono formati da corridoi coperti, aperti sempre verso il cortile interno, a volte anche verso l’ambiente esterno per mezzo di una fitta serie di arcatelle, impostate su colonne di tipo romano-classiche verso l’interno e pilastri verso l’esterno. I portici dei lati corti presentano delle modifiche strutturali per via della loro funzione particolare svolta nel perimetro dell’intero organismo. Infatti, il primo portico, il più esterno, funge da ingresso e come tale è articolato in vari corpi funzionali; l’ultimo portico, detto nartece, o più precisamente esonartece, in quanto posto all’esterno, si trova a ridosso della facciata del corpo basilicale, dunque è aperto solo dal lato che da sul cortile interno. Al centro di quest’ultimo, in direzione del portale principale d’accesso alla basilica, si distingue un corpo avanzato, il protiro, la cui funzione estetica è quella di rimarcare sia la collocazione che l’importanza dell’ingresso principale. In alcune chiese esiste anche un portico interno, posto a ridosso della controfacciata, detto endonartece. L’endonartece è riservato alla sosta dei penitenti che vi attendono il perdono necessario per poter riessere ammessi nel luogo consacrato.
Il corpo basilicale è composto da una grande aula a pianta rettangolare, suddivisa in cinque navate: una centrale, più grande, e quattro laterali, più piccole, tutte uguali. Le navate non sono altro che lo sviluppo in senso cristiano dei pagani peristili, cioè corridoi comunicanti fra loro e con l’aula centrale tramite una fitta serie di colonne. La navata centrale stazza poco più del doppio di quelle laterali, ma non c’è un rapporto numericamente misurabile tra l’ampiezza della navata centrale e quella delle navate laterali: questo perché il vuoto architettonico paleocristiano non è pensato come volume astratto, geometrico, misurabile, bensì è concepito come volume luminoso, dosabile tramite la sensibilità visiva.
La navata centrale funge da luogo di raccolta dei fedeli, mentre quelle laterali servono per la loro distribuzione interna; ma questa non è l’unica spiegazione. Riguardo alla funzione delle navate c’è anche un’altra ipotesi: sembrerebbe infatti che in relazione ai primi rituali nella navata centrale ci si limitasse a svolgere il culto, mentre in quelle laterali ci si limitasse ad assistere.
Le navate sono delimitate sui lati lunghi dalle pareti esterne della basilica, sui lati corti, dalla parte est dalla parete interna della facciata (controfacciata), e dalla parte ovest dall’arco trionfale, un arcone che fa da cornice all’abside, fulcro quest’ultima dell’intero edificio.
Fra le navate e l’abside s’interpone, secondo un asse ortogonale rispetto a quello principale, il transetto, una navata trasversale dell’ampiezza di due navate laterali che conferisce alla pianta del corpo basilicale una tipica forma a croce (a croce latina commissa nel caso di San Pietro).
Al centro del transetto e in linea con l’asse di simmetria dell’intero complesso si trova l’abside, spazio destinato ad ospitare l’altare. L’abside consta di due parti che internamente si presentano quella inferiore a forma di semicilindro e quella superiore, detta conca o anche catino absidale, a forma di spicchio di sfera. All’esterno la parte inferiore mantiene la stessa forma che ha all’interno, mentre quella superiore assume la forma di un semicono molto schiacciato.
Passando al prospetto, l’ingresso all’intero complesso è preceduto da una grande scalinata d’accesso, il che sta ad indicare che il pavimento si trova su un piano rialzato rispetto al livello del terreno. La facciata presenta un profilo articolato in due diverse partiture: una partitura centrale, più alta, corrispondente alla navata centrale, coronata da una copertura a doppio spiovente, e due partiture laterali, corrispondenti alle navate laterali, uguali, simmetriche, coronate da una copertura ad un unico spiovente.
Le pareti che dividono la navata centrale dalle laterali sono sostenute da un architrave poggiante su una fila di colonne, allineate, una per lato, che conducono lo sguardo del fedele dritto dritto verso l’altare, secondo un percorso lineare prospettico. Mentre le pareti divisorie fra le navatelle laterali sono portate da arcatelle impostate su colonne più piccole rispetto a quelle delle file centrali.
Sull’intera facciata e sui fianchi dell’intero corpo basilicale si aprono, ampie, tutta una serie di grandi monofore, finestroni archivoltati che ammorbidiscono, con l’inserimento di elementi curvilinei, il profilo altrimenti spigoloso dell’insieme. Infine, il tetto si presenta con la classica struttura a capriate, più comune negli edifici romani di civile abitazione che non negli edifici pubblici come le basiliche.
Le capriate sono costituite da una trave orizzontale detta catena, la quale è appoggiata sui gattelli, mensole ancorate alla sommità della parete della navata centrale e di quelle laterali. Sulla catena si dipartono in senso opposto, inclinati verso l’alto, due travi oblique chiamate puntoni. I puntoni sono collegati tra loro da un elemento verticale detto monaco, che scende in perpendicolo a raggiungere il punto medio della catena. Puntoni e monaco sono collegati in altri due punti da due travettine dette saette il cui scopo è quello di fornire un ulteriore snodo per lo scarico delle forze di compressione trasmesse dal tetto. Tra una capriata e l’altra scorrono travaturine che si dispongono parallelamente all’asse longitudinale delle navate denominate arcarecci. Sugli arcarecci, in senso trasversale, sono posti i listelli, e su questi finalmente le tegole. Le capriate sono a vista, non sono coperte, come si usa spesso fare, da un controsoffitto di legno particolare, detto a cassettoni, che poi non è altro che la versione semplificata del più poderoso soffitto romano a lacunari.
Fin qui le novità dal punto di vista strutturale; ma quali quelle in ordine al discorso linguistico? Nelle basiliche primitive ad uno spazio architettonico concepito come complesso articolato di volumi, determinati dalla capacità portante delle strutture, si sostituisce uno spazio architettonico concepito come complesso articolato di luci, determinato dalla capacità riflettente di pareti giustapposte. Cosicché nell’architettura paleocristiana non si fa appello alle facoltà astrattive della mente, ma alla sensibilità percettiva.
La differenza d’indirizzo comporta notevoli cambiamenti dal punto di vista strutturale. Infatti la superficie parietale aumenta a discapito dei vuoti, dunque diminuisce la luce delle singole arcate di sostegno e aumenta di conseguenza il numero di archi per ogni parete. Naturalmente il restringersi degli archivolti non è imputabile ad una regressione tecnica, dal momento che sono gli stessi architetti romani, custodi di una grande tradizione costruttiva, ad erigere gli edifici sacri dei cristiani, ma ad una pura esigenza di carattere ideologico estetico: l’architettura paleocristiana in sostanza deve fornire pareti per l’allocazione dei mosaici. Non solo, ma l’aumento del numero dei sostegni permette anche di ridurre lo spessore dei muri, e questo si rivela come assolutamente necessario dal momento che fine ultimo dell’architettura paleocristiana è quello di rendere l’idea di uno spazio fatto di pura luce, immateriale.
Altra vistosa conseguenza del cambiamento d’indirizzo è la riduzione drastica di cornicioni e cornicette, aggetti e bassorilievi sulla superficie interna delle pareti: queste sporgenze causano ombre indesiderate sulle superfici ricoperte dai mosaici.
Terza ed ultima: l’esigenza di costruire grandi spazi luminosi spinge i costruttori ad innalzare i muri della navata centrale al di sopra di quelli delle navate laterali, nonché sforacchiare le pareti con l’inserimento di numerosissime monofore, onde favorire l’ingresso di ingenti quantità di luce.
RAPPORTI DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA CON LE DOMUS ROMANE
Roma, Santa Sabina
INTERNO (inizio V sec.)
La tipologia basilicale cristiana non può essere spiegata solamente col richiamo ai precedenti basilicali romani; la prima porzione, costituita dal quadriportico, ha come precedente indubbio l’atrio della domus romana.
Ancor prima del sorgere delle basiliche, le riunioni dei cristiani si tengono nei locali delle domus romane, messe a disposizione dal padrone di casa allo scopo di officiare il rito salvifico. Più precisamente le prime adunanze di fedeli avvengono nel cortile quadriporticato che separa le fauces d’accesso dal tablinium, spazio che funge da filtro alla zona delle stanze private.
Questi luoghi privati aperti al culto vengono denominati titoli. Per distinguere un titolo da un altro, si usa far seguire il termine titolo dal nome del concedente.
Molte delle basiliche cristiane sorgono sul luogo del martirio o dei miracoli che hanno segnato la storia della Chiesa; alcuni luoghi di culto invece vengono edificati sulle fondamenta delle case che hanno ospitato le prime assemblee di fedeli. Di qui la presenza di basiliche fondate su titoli accanto a quelle fondate sui luoghi del martirio o dei miracoli.
Per la quasi totalità dei casi, alle basiliche fondate su titoli è toccata la stessa sorte delle basiliche maggiori. Fra le 25 sorte a Roma nel IV secolo l’unica pervenutaci in uno stato di relativa purezza è la basilica di Santa Sabina, sull’Aventino.
Delle numerose chiese che sorgono a Roma dopo la liberalizzazione costantiniana nessuna ha mantenuto un aspetto così prossimo a quello originario, sia all’interno che all’esterno, come Santa Sabina. Santa Sabina è la più antica chiesa romana dove è possibile rintracciare ancora oggi i caratteri propri della cultura artistica delle prime comunità cristiane dopo lo sblocco del culto religioso. Dunque se vogliamo farci un’idea di come erano fatte le prime basiliche cristiane non esiste esempio migliore di lei.
La chiesa è dedicata a Sabina (?-126), figlia di un aristocratico, convertita al cristianesimo da Serapia, originaria di Antiochia e ospite a casa sua, martirizzate entrambe a distanza di un mese l’una dall’altra.
Santa Sabina sorge sull’Aventino; come è ben noto l’Aventino è uno dei sette colli di Roma. Su di esso si recarono Romolo e Remo a fare birdwatching per stabilire a chi toccasse fondare Roma. All’epoca il colle non era abitato; si presentava come il classico “lucus”, rilievo tufaceo coperto di fitta boscaglia, probabilmente di lecci o sughere. Col passar del tempo il colle inizia a popolarsi, ma resta tagliato fuori dalle mura della città per lunghissimo tempo. Solo sul finire del periodo repubblicano sarà incluso nella cinta muraria dell’Urbe. L’Aventino è il colle dove risiede la plebe, le braccia di Roma, non il cuore nobile. L’Aventino nasce quando per far posto al Circo Massimo Tarquinio Prisco (616-579 a.C.) rade al suolo un intero quartiere collocato nella valle Murcia, la valle sottostante, popolatissimo di gente appartenente alla classe plebea. L’Aventino è teatro di diversi episodi che vedono il contrapporsi della plebe ai patrizi. Qui si sfiora in più di un’occasione la ribellione, qui agiscono e dimorano i partigiani delle libertà democratiche. Sull’Aventino nel 493 a.C. avviene il risolutivo intervento di Menenio Agrippa; e sempre qui nel 121 a.C. avviene l’assassinio di Caio Gracco (159-121 a.C.) che decreta la fine di fatto della Repubblica. La vicinanza al porto fluviale e la sua posizione sulla direttrice est-ovest lo rendono appetibile allo stanziamento immobiliare con conseguente incremento edilizio, pubblico e privato. Sull’Aventino la plebe rivendica e ottiene il primo tempio tutto suo, il tempio di Cerere, Libero e Libera. Sotto l’impero di Marco Aurelio (161-180) e Settimio Severo (193-211) diventa un quartiere di lusso, cosa che gli costa molto cara, perché proprio per questo motivo nel 410 Alarico (395-410) e le sue orde visigote lo devastano, cancellandolo per sempre dalla faccia della Terra. Durante questa sciagurata data il colle è preso d’assalto; gli adulti vengono uccisi, le donne stuprate, i bambini schiavizzati, gli animali sgozzati e mangiati. Molte delle basiliche sorte dopo la liberalizzazione del culto sono distrutte. Passata la catastrofe barbarica, i superstiti si mettono a ricostruire l’intero quartiere; si rifanno case e chiese. Santa Sabina è fra le ultime basiliche ad essere ricostruita.
La chiesa viene edificata per volontà di Pietro d’Illiria, un sacerdote dalmata, fra il 422 e il 423, quando al soglio pontificio siede Celestino I (422-432).
La basilica sorge su una domus romana di cui si ignora il proprietario. Di essa oggi rimangono visibili due colonne di granito grigio, una all’angolo esterno del portico, in corrispondenza del muro della navata destra, l’altra all’interno, vicino alla cappella di San Giacinto, e una porzione di pavimento prima in opus tessellatum, poi in opus sectile, apprezzabili da una grata posta vicino alla porta lignea. All’esterno la chiesa appare in tutta la sua poderosa semplicità. Si percepisce perfettamente la struttura del vuoto interno attraverso la forma dei volumi esterni: il parallelepipedo monoforato del vano centrale che si erge sui prismi trapezoidali dei vani laterali e il grande semicilindro absidale sulla parete nord-est. La limpidezza morfologica dei corpi è disturbata dalle aggiunte dei secoli successivi; la facciata, una volta preceduta da un quadriportico, è resa oggi invisibile dal convento dei frati predicatori. Le grandi monofore archivoltate ci parlano della luminosità dell’interno. Lo spazio basilicale è articolato in tre navate, di cui la maggiore larga e alta circa il doppio delle minori. La navata centrale è delimitata da una doppia fila di colonne che si susseguono senza interruzione fino all’abside. Le colonne sono di tipo classico, scanalate, rudentate, con capitello corinzio. Su di esse si impostano direttamente le arcate di sostegno della parete sovrastante. Queste si ripetono ininterrottamente fino alla parete absidale dando origine ad un tipico andamento ritmico, molto stretto, che diventerà la norma nelle costruzioni a venire. Tale elemento architettonico ha origine in Oriente e viene probabilmente adottato dietro suggerimento dello stesso Pietro d’Illiria, originario della regione dove Diocleziano (284-305) si era fatto costruire il suo palazzo, e di cui egli serba il ricordo, soprattutto della corte d’onore. Tuttavia c’è chi suppone che il sistema era già stato adottato in San Giovanni in Laterano. Sopra le arcate si erge la parete della navata maggiore, completamente liscia, cioè senza aggetti, cornici e cornicette. In corrispondenza degli spazi soprastanti gli archi si aprono la serie di grandi monofore archivoltate. Conclude il tutto una copertura a capriate, nascosta da un controsoffitto a cassettoni. Le navate laterali sono delimitate dalle pareti esterne, traforate da finestre molto più piccole, dimensionate sulla base di un calcolato dosaggio della luce filtrante.
Il ricorso all’utilizzo di numerose arcatelle al posto di grandi arcate potrebbe sembrare il risultato di un’involuzione tecnica, invece risponde ad una precisa volontà di ridurre al minimo lo spessore murario, così come pure la soppressione di cornici e cornicette obbedisce alla precisa esigenza di trasformare la parete plastica in superficie piatta. La chiesa cristiana deve dare l’idea di trascendenza e l’idea di trascendenza è legata a quella di immaterialità. Dunque nell’architettura paleocristiana si ricercano valori esattamente opposti a quelli ricercati nell’architettura romana. Li lo spazio è determinato dalle capacità portanti dei sostegni e dalla distribuzione dei pesi nelle masse murarie; qui da una giustapposizione di volumi luminosi: quello di Santa Sabina è uno spazio definito dal dosaggio delle quantità luminose.
È un motivo che trova giustificazione nell’ideologia di due stati diversi: uno terreno, l’altro celeste. La monumentalità romana sta per esprimere la stabilità del potere in terra; la spazialità cristiana sta per esprimere la supremazia del potere spirituale su quello materiale. Ecco così ritrovata su tutt’altro piano l’idealità della cultura figurativa greca: l’identità fra spazio e luce. Solo che nella concezione cristiana la luce è di origine soprannaturale, non naturale come nei paganissimi Greci.
Il muro levigato lascia presumere la presenza di una decorazione interna, più verosimilmente a marmi policromi che a mosaico. L’ipotesi in favore del mosaico verrebbe avvalorata dalla fascia musiva che orna la parete della controfacciata sovrastante l’ingresso. Questa fascia risale al V secolo e costituisce la dedica al costruttore della basilica e al suo signore, il papa. Ai lati dei versi sono raffigurate due donne velate: a sinistra la Ecclesia ex circumcisione, ovvero la chiesa di ceppo ebraico, a destra la Ecclesia ex gentibus, ovvero la chiesa di ceppo latino; la prima tiene in mano la Bibbia, la seconda il Vangelo. Entrambe si ritengono opera del V secolo, di smaccata influenza medio orientale, già bizantina. La decorazione probabilmente proseguiva verso l’alto con le figure di san Pietro, sopra la chiesa ebraica, e san Paolo, sopra la chiesa latina, nonché con i simboli dei quattro evangelisti. La cosa però risulta alquanto strana dal momento che la fascia superiore è occupata da 5 monofore. Ora l’impasse si potrebbe superare ipotizzando o la mancanza delle aperture o lo spostamento del mosaico più in alto rispetto alla collocazione originale. Oltre al fregio dedicatorio restano a testimoniare l’antico rivestimento le tarsie marmoree sopra il colonnato, nelle pareti rivolte verso la navata centrale. Il motivo rimanda ad una cortina muraria, coronata da una fascia continua formata da losanghe, quadrati, cerchi, rettangoli, interrotta in corrispondenza dei piedritti degli archi da “insignia” militari. Il senso della composizione è chiaro: sull’Aventino sfilano i contrassegni della vittoria di Cristo.
Roma, Santa Sabina
PORTALE PRINCIPALE
Il portale ligneo di Santa Sabina non è solo un relitto scampato miracolosamente all’usura del tempo e alla distruzione del fuoco, ma è anche una preziosissima testimonianza storico artistica. Si tratta di un raro esempio, anche se non unico, di portale paleocristiano del V secolo realizzato completamente in legno. Piuttosto comuni in passato, oggi sullo stesso tipo ne esistono solo pochi: in Sant’Ambrogio a Milano, in Santa Barbara al Cairo, in Siria, ma nessuno con i pannelli scolpiti cosi ben conservati e numerosi. E non basta: è anche un formidabile documento che ci parla delle tendenze dell’arte nella Città Eterna agli inizi del V secolo, dell’iconografia cristiana e il linguaggio plastico nelle sue primissime formulazioni. La sua realizzazione risale all’epoca della costruzione della basilica; è di legno di cipresso; il suo modello sono i bassorilievi in avorio.
Il portale è costituito da 4 ante suddivise in 7 pannelli ciascuna, per un totale di 28 riquadri, di cui 16 più piccoli, orizzontali, a tabella, 12 più grandi, verticali, a pala rettangolare, 18 scolpiti, 10 vuoti (andati perduti?). Ogni bassorilievo è racchiuso in una doppia cornice, di cui quella più esterna intagliata con motivi a grappoli d’uva e decorrente lungo tutti e quattro i battenti. Sui pannelli sono raccontate storie tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento; un solo pannello è dedicato al trionfo della Chiesa. Le storie non sono in ordine cronologico né sono realizzate tutte nello stesso stile. Si notano distinti orientamenti oltre che distinti livelli di cultura: segno evidente di una cooperazione fra artefici di diversa formazione nonché raffinatezza tecnica. Più in particolare, nelle ante di sinistra, si distingue un gruppo di pannelli dal linguaggio più ruvido e popolare, mentre in quelle di destra un gruppo più raffinato e colto; uno rimanda alla corrente plebea, l’altro a quella ellenistico-romana.
I riquadri rappresentano nell’ordine, dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, nella prima colonna: La crocifissione, tre miracoli, Cristo rimprovera Tommaso, Mosè sul monte Horeb, Cristo condannato da Pilato; nella seconda colonna: l’angelo e le donne al sepolcro, Mosè e gli ebrei nel deserto, Cristo risorto si manifesta alle due Marie, una scena di acclamazione; terza colonna: l’epifania, L’ascensione di Cristo, Cristo preannuncia il rinnegamento di Pietro, Mosè e l’esodo dall’Egitto; quarta ed ultima colonna: Cristo sulla via di Emmaus, il trionfo di Cristo e della Chiesa, Habacuc vola verso Daniele, ascensione di Elia e Cristo alla presenza di Caifa. Si tratta delle primissime raffigurazioni relative a temi che diverranno comunissimi nei secoli a venire.
Per vedere in che modo si configura a livello visivo quanto appena detto prendiamo a mo’ d’esempio il primo e il secondo pannello della prima anta, e il secondo e il quarto dell’ultima.
Nel primo pannello c’è rappresentata la crocifissione: si tratta molto probabilmente della prima raffigurazione di questo soggetto.
L’episodio è arcinoto: Gesù di Nazareth, detto il Cristo viene crocifisso dopo un processo sommario nel “luogo del cranio”, il Golgota, alle 9 del venerdì della settimana di Pasqua. Con lui vengono crocifissi due ladroni: Tito e Timaco; Tito è il ladrone buono, Timaco è quello cattivo. A mezzogiorno sul Golgota succede un fatto strano. Il buio piomba all’improvviso; il cielo si oscura; tutta la terra si ottenebra per ben tre ore. Alle tre del pomeriggio Gesù spira. Prima di morire si rivolge al cielo a gran voce ed esclama le famose parole: «Eloi, Eloi, lamma sabacthani?», che vuol dire «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». A questo punto dopo aver esalato l’ultimo respiro la terra comincia a tremare, le rocce si spaccano, i sepolcri si aprono e i santi resuscitano, i templi si squarciano. Insomma ce n’è di materiale per una bella rappresentazione suggestiva. E invece cosa fa l’anonimo autore di questa metopa lignea? Non accenna nulla di tutto ciò e ci presenta Gesù Cristo insieme ai due ladroni a mo’ di oranti più che di suppliziati. Come mai? Segno evidente che a lui non interessa raccontare l’accaduto, ciò che gli interessa è invece il senso simbolico della crocifissione, vale a dire evocare nell’osservatore il sacrificio del Signore. Infatti qui non si raffigura l’avvenimento, la crocifissione, ma la croce, il segno del sacrificio del Signore. Ma quel che sembra non meno avvincente è il modo di rappresentare il soggetto.
Lo spazio figurativo è occupato interamente da Gesù Cristo e i due ladroni; il primo è grande quasi il doppio rispetto agli altri due. La differenza di dimensioni non giustificata da ragioni prospettiche è da ricollegare, secondo una ben nota relazione dimensionale di origine antichissima, alla diversa importanza dei tre personaggi. I corpi sono sgraziati, grevi, schematici, e sembrano piuttosto sbozzati che scolpiti; lo sfondo è praticamente inesistente, è nascosto da un muro di mattoni sul quale si staglia la sagoma di tre frontoni, tutti caratteri questi che rimandano alla cultura plebea del tardo- impero.
Sullo stesso modello è intagliato il riquadro in cui si racconta di tre miracoli, raffigurati uno sopra all’altro. Procedendo dal basso verso l’alto abbiamo le nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani, la guarigione del cieco dalla nascita. Del primo episodio ne parla Giovanni (6-100). Un giorno Gesù e i suoi vengono invitati a partecipare ad una festa di nozze a Cana, in Galilea; alla festa c’è anche Maria. Ora i matrimoni all’epoca di Gesù vanno in modo leggermente diverso da come vanno oggigiorno. I festeggiamenti si protraggono per una settimana e ad essi non sono invitati solo i parenti e gli amici, ma gli interi paesi della sposa e dello sposo: cioè una cosa molto simile a quello che avviene ancora oggi in alcune regioni della Grecia. Dunque non deve sorprendere se ad un certo momento all’offerente, cioè il padre dello sposo, specialmente se non molto facoltoso, viene a mancare qualcosa: in questo caso particolare il vino. E una festa senza vino che festa è? Per venire in soccorso al padrone di casa, Maria, premurosa come sempre, chiede a Gesù di fare qualcosa per rimediare all’inconveniente. Alla richiesta della madre Gesù reagisce in modo un po’ duro perché è costretto ad anticipare il suo programma di interventi miracolosi. Ma come si fa a dire no alla mamma. Così fa prendere delle anfore vuote, le fa riempire d’acqua e le fa portare a tavola. Al momento del versamento nei bicchieri l’acqua si trasforma in vino.
Anche qui come si vede bene non c’è cenno di tutta la storia. Si palesano solo le anfore (sette e non sei come dice il vangelo) e Gesù che con la virga virtus tramuta l’acqua in vino. Il Redentore è colto di fronte, le anfore sono disposte una sopra l’altra invece che una accanto all’altra. In questo modo la terza dimensione viene meno e lo spazio appare come ribaltato sul piano frontale. La stessa cosa accade nelle altre due immagini soprastanti.
Nei pannelli delle ante di destra invece si cambia decisamente indirizzo. Il pannello con l’ascensione di Elia, riunisce in un’unica immagine tre momenti diversi della vicenda che lega il profeta Elia al suo discepolo Eliseo. Dice la Bibbia che, preavvisato dal suo Signore, il profeta Elia, passato il Giordano, all’improvviso viene rapito da un cocchio di fuoco, trainato da una coppia di cavalli, guidati da un angelo. In quel mentre Eliseo, vistosi portar in cielo il suo maestro, istintivamente si attacca alle sue vesti per trattenerlo in terra. Ma il gesto non sortisce alcun effetto pratico se non quello di strappargli i vestiti. Tuttavia la cosa ha un risvolto magico: propizia il passaggio dei poteri dal maestro al discepolo.
Questo è ciò che si racconta sul primo piano. Sul secondo è ricordato un episodio successivo alla separazione e fa riferimento ad un avvenimento secondario che vede protagonista il solo Eliseo con i suoi discepoli. Trovandosi in prossimità del Giordano e bisognoso di procurarsi un luogo di ricovero il discente eliano insieme ai suoi seguaci decide di tagliar legna per costruirsi un rifugio. Ma accade che ad uno di essi gli si stacca la scure dal manico e va a finire sott’acqua. Disperato il poveretto si rivolge al suo maestro dolendosi dell’accaduto (tra l’altro la scure non era sua, se l’era fatta prestare). Eliseo senza batter ciglio chiede al giovane dove è caduto il ferro, dopodiché ci butta un bastone e questo, come fosse una calamita, attira su il pezzo di metallo rifacendogli costituire la scure.
Contrariamente a quel che si è notato nei pannelli precedenti, qui tutto è ben descritto e ambientato; la composizione è articolata e complessa. I corpi in primo piano si dispongono seguendo un movimento a spirale che gli imprime un senso di ascendenza dalla terra al cielo, con immancabili implicazioni simboliche. Non manca poi l’ambientazione paesaggistica, piena di presenze collaterali quali rocce, alberi compartecipi del miracolo; e un ramarro. Non solo, ma la tecnica è molto più raffinata e i piani si succedono in profondità come in una normale visione prospettica. Qui tutto è mobile, dalle figure alla luce rifranta dalla sfaccettatura delle superfici plastiche; il modellato si fa ancora più sensibile, arricchendo di vibrazioni luminose la massa legnosa. In questo modo il rilievo si anima ulteriormente di chiaroscuro, avvicinandosi sempre di più alla pittura. Non c’è allusione; il significato non è oltre quel che si vede; quel che vuol dire il racconto è pienamente visibile. Il passaggio dei poteri divini è esplicito nel contatto fisico fra l’angelo, il carro, Elia e Eliseo; così come è esplicito il messaggio emblematico della storia: Elia unico uomo insieme a Enoc, ascende al cielo prima di morire, dunque è l’unico, oltre ad Enoc, a guadagnarsi l’immortalità da vivo.
Il pannello col trionfo di Cristo e della Chiesa è diviso in due parti. Sopra c’è Cristo imberbe in un clipeo intagliato, circondato dai simboli dei quattro evangelisti, sotto c’è una figura femminile che allude alla Chiesa affiancata dai santi Pietro e Paolo. Si tratta di una raffigurazione allegorica che si riferisce al trionfo di Cristo e della Chiesa. Nella parte inferiore compare una donna, al centro, fra i santi Pietro, sotto al Sole, e Paolo, sotto la Luna; la donna simboleggia la Chiesa. Sopra i due apostoli reggono una corona d’oro con al centro, a mo’ di croce latina rovescia, una spada: segni di vittoria. Nella parte superiore, divisa da un intaglio ad arco dalla parte sottostante, all’interno di una cornice tonda, sta Cristo con la testa cinta dal nimbo. È in posa ponderata e sta proclamando la legge divina scritta sul rotolo che tiene nella mano sinistra. Alla sua destra e alla sua sinistra compaiono le lettere alfa e omega, mentre ai quattro angoli ci sono i simboli dei quattro evangelisti.
Dal punto di vista linguistico è facile rilevare come anche in questo riquadro, benché metaforico, prevalga un orientamento di tipo naturalistico compendiario di origine tardo- ellenistica nel modo pittorico di intendere il bassorilievo, evidente nella sensibilità attraverso cui si attua il passaggio dal piano di massimo affioramento delle figure allo sfondo.
I PRIMI MOSAICI PALEOCRISTIANI
Roma, mausoleo di Santa Costanza
CONSEGNA DELLA LEGGE (fine IV secolo)
Mosaico, larghezza mt. 6,50
A riqualificare lo spazio architettonico romano delle prime basiliche paleocristiane in termini di modulazione luminosa, contribuisce in modo decisivo la decorazione a mosaico delle pareti interne.
L’articolazione degli spazi, come quelli contigui della navata centrale e delle navatelle laterali, è affidata alla luce che piovendo dalle finestre poste nella parte alta delle pareti della navata centrale crea un forte contrasto fra la zona centrale, illuminata, e il volume d’ombra portata che si va ad incuneare nelle navate laterali. Affinché questa ombra si qualifichi anche come colore le parti strutturali dove essa ristagna più fitta fanno da supporto al rivestimento musivo.
La scelta del mosaico è in un certo qual senso obbligata. Dal momento che fine precipuo della decorazione delle pareti è, come detto, quella di trasformare uno spazio fatto di masse in uno spazio che simula piani luminosi appare del tutto logico che la scelta ricada su una tecnica come quella musiva, in grado di creare superfici riflettenti e non assorbenti come invece avviene nel caso della tecnica a fresco.
Oggi, gli interni delle basiliche, quelle poche che ci sono giunte rimaneggiate solo in piccola parte, sono nudi. Probabilmente una volta erano interamente ricoperti di tessere musive, quindi, a quell’epoca, avrebbero dovuto fare tutt’altro effetto; sarebbero dovuti apparire molto più brillanti di come appaiono ora.
La maggior parte dei mosaici sono andati irrimediabilmente perduti, vittime di saccheggi, scempi, incuria, ignoranza, ma anche cambiamenti e ristrutturazioni. Attualmente ne rimangono pochi, preziosissimi esemplari.
Roma, chiesa di Santa Pudenziana
CRISTO TRA GLI APOSTOLI NELLA GERUSALEMME CELESTE (fine IV secolo)
Mosaico absidale
Fra questi pochi c’è il mosaico absidale di Santa Pudenziana che vanta una buona dose di primati. È la prima volta che viene rappresentata la Parusia, un soggetto che verrà ripetuto per secoli e secoli nelle absidi delle chiese; è la prima volta che compare Gesù con barba, baffi e capelli lunghi; è la prima volta che compare il nimbo, l’aureola distintiva della natura divina; è la prima volta che compaiono i simboli dei quattro evangelisti: l’angelo, Matteo; il leone, Marco; il bue, Luca; e l’aquila, Giovanni. È la prima volta che compaiono gli apostoli effigiati nelle loro singolarità fisionomiche e cromatiche: san Pietro, subito alla destra di Gesù, con barba, baffi e capelli corti, bianchi, vestito con tunica azzurra e manto giallo; san Paolo, il primo a sinistra, stempiato, baffi e barba lunga, nera, vestito alla romana, con tunica bianca clavata e toga rossa. È la prima volta, pure, che compare la croce gemmata e il trono celeste. Ma il mosaico è ragguardevole anche dal punto di vista stilistico, perché insieme agli elementi di chiara derivazione romano-ellenistica, fanno la loro comparsa elementi del linguaggio sinottico-orientale.
L’immagine musiva rappresenta la discesa di Gesù Cristo in terra alla fine dei tempi. Il Redentore è seduto in trono, posto al centro di un’esedra semicircolare, fra due ali di apostoli. È vestito come un pontefice massimo e il suo volto è ispirato a precedenti ellenistici; fra le sue mani è un testo aperto su cui si accenna alla protezione divina sulla chiesa. Lo spazio dell’esedra è definito prospetticamente dal lieve rimpiccolirsi degli archi, ma anche dalla lieve flessione del tetto verso il centro del catino. Gli apostoli e il Cristo benedicente, più simile ad un Giove che ad un Buon Pastore, sono definiti plasticamente; ma alla volumetria del Cristo assiso fa da contrappunto la piattezza del trono dorato, che sembra ribaltarsi in avanti, fino a schiacciarsi contro le sue spalle; il Golgota, invece di ergersi sullo sfondo, dietro gli edifici che stanno ad indicare la città di Gerusalemme, si riversa in avanti, appiattendosi contro il trono. Sopra, isolata, grande più del monte, a completamento dell’asse che taglia verticalmente la composizione, costituito dalle figure di Gesù in trono e il Golgota, la croce gemmata, posta a simboleggiare la croce di Cristo, fatta erigere da Costantino sul luogo del sacrificio. Sopra i tetti di Gerusalemme, gli strati rossi e violetti delle nuvole infuocate dalla luce del tramonto, sembrano sostenere, come la superficie del mare le barche, le figure simboliche dei quattro evangelisti. Dietro gli apostoli, infine, si ergono due figure femminili. Simboleggiano le due componenti etnico-religiose che convergono nella formazione della nuova Chiesa cristiana: la ecclesia ex gentibus, di radice greco-romana, e la ecclesia ex circumcisione, di radice ebraica; la prima è a sinistra, dietro San Paolo, la seconda è a destra, dietro San Pietro.
Dunque, nel mosaico è presente una commistione di elementi facenti capo a due diversi stili: lo stile naturalistico nel cielo, negli apostoli, in Gesù Cristo, negli evangelisti, nelle quinte prospettiche; lo stile sintetico nella croce gemmata, nel Golgota e nel trono.
Che la cosa sappia un po’ di sincretismo è fuor di dubbio, come è fuor di dubbio che ciò sia la conseguenza di un preciso programma politico, il cui obiettivo è quello di esprimere attraverso la manifestazione visiva delle due componenti culturali, occidentale e orientale, le componenti etniche dominanti della nuova società cristiana. Un linguaggio a cui ricorrere necessariamente per trasmettere in chiari termini a tutta la comunità dei fedeli l’assunto ideologico oggetto della raffigurazione, ovvero la dualità del potere pontificio, potere ricevuto dal Cielo si, ma da esercitarsi sulla Terra.
SANTA MARIA MAGGIORE E I SUOI MOSAICI
Roma Santa Maria Maggiore
INTERNO DELLA BASILICA (V sec.)
Ci sono almeno quattro buone ragioni per far visita alla basilica di Santa Maria Maggiore, e cioè: è l’unica delle quattro grandi basiliche romane ad aver mantenuto inalterata parte della sua struttura originaria nonostante gli abbondanti rimaneggiamenti; in essa è il più antico ciclo decorativo parietale completo attualmente conosciuto, la cui struttura diverrà, con qualche lieve variazione, una regola per tutte le successive manifestazioni decorative cristiane; in essa sono i primi segni riscontrabili del passaggio dalla cultura paleocristiana ellenistico romana a quella paleocristiana bizantina; nei mosaici dell’arco trionfale c’è la testimonianza più remota e unica della presenza in una grande basilica romana di immagini ispirate ai vangeli apocrifi, cioè quei vangeli respinti dalla Chiesa perché non troppo in linea con l’interpretazione ufficiale del racconto evangelico.
La tradizione tramandataci da fra’ Bartolomeo da Trento (morto fra il 1250-1255) racconta che a Roma, in una calda notte di agosto del 358, fra il 4 e il 5, la Madonna apparve ad un non meglio identificato patrizio di nome Giovanni e a sua moglie. I due l’avevano invocata per farsi suggerire in che modo investire i propri beni, dal momento che non avevano nessuno a cui lasciarli. Maria non ci pensò su due volte e espresse il preciso desiderio di veder edificata una chiesa nel luogo dove quella notte sarebbe caduta la neve. Quella stessa notte sull’Esquilino si mette a fioccare. Esterrefatto Giovanni si reca dal papa per raccontargli l’accaduto e viene a sapere che pure Sua Santità aveva ricevuto la visita della Madonna (all’epoca sul soglio pontificio sedeva Liberio, eletto pontefice nel 352). In seguito a ciò il papa, insieme al patrizio Giovanni, la moglie e uno stuolo di fedeli, si reca di corsa sul posto e a neve ancora fresca si mette a tracciare il perimetro della futura chiesa dedicata alla Madonna, battezzata in seguito al miracolo Santa Maria ad nives. Così sorse la basilica di Santa Maria Maggiore.
Come tutte le tradizioni antiche anche questa ha origini leggendarie; ma come tutte le leggende anche questa nasconde uno scampolo di verità. E la verità è che la costruzione della basilica liberiana non si deve ad un miracolo ma alla lotta intrapresa da Liberio contro l’eresia ariana.
Nel IV secolo l’esercito romano è formato per buona parte da barbari. Questi sono di fede ariana e hanno il loro quartier generale fra l’Esquilino, il Celio e il Viminale. Ottenuta la libertà di culto dall’imperatore Costanzo II (337-361), iniziano a professare liberamente la propria fede, la qual cosa preoccupa non poco il pontefice, che per arginare il fenomeno decide di edificare una chiesa dedicata alla Vergine, proprio nel cuore del loro quartier generale. Ma questa è solo una versione. Ce n’è anche un’altra in cui l’azione è rivolta contro il persistere di un culto pagano, e cioè quello di Giunone Lucina, divinità invocata dalle partorienti romane. Questa seconda variante è suffragata dal fatto che la basilica liberiana sorgeva a 300 mt. dal tempio dedicato a detta divinità. La caduta della neve è solo una rielaborazione in termini miracolistici dell’abitudine di cospargere il pavimento della chiesa con petali di rose durante il corso di particolari cerimonie.
Quanto detto fin qui però riguarda solo la prima basilica fondata da papa Liberio. La basilica attuale fu fatta costruire da papa Sisto III durante gli anni del suo pontificato, che vanno dal 432 al 440, e più precisamente l’anno dopo il Concilio di Efeso, per ribadire il concetto cattolico contro quello eretico che vuole Maria Madre di Dio, sancito nel corso del sinodo.
Della basilica del miracolo a tutt’oggi non se n’è trovata traccia. Tuttavia una cosa è sicura: la basilica liberiana stava un po’ più in là della sistina, di cui comunque non rimane molto. La parte superstite è limitata alla struttura basilicale a tre navate, alle colonne ioniche di marmo pario strappate al tempio di Giunone Lucina, ai mosaici che si affacciano sulla navata maggiore e a quelli dell’arco trionfale.
L’aspetto originario doveva essere ben diverso da quello attuale. La Santa Maria Maggiore paleocristiana doveva essere un ambiente traboccante di luce. Le finestre della navata centrale erano il doppio delle attuali, e ce n’erano anche nelle navatelle laterali, quindi cinque nell’abside. Il soffitto aveva le capriate a vista: la qual cosa contribuiva notevolmente a rendere molto più snella l’intera struttura; i mosaici del catino erano altri: campeggiava la figura della Madonna col Bambino su uno sfondo d’oro riempito da girali vegetali; sotto, una schiera di santi si affacciava fra una monofora e l’altra. L’intera basilica era preceduta da un quadriportico che si estendeva sopra l’attuale piazza, dove, al centro, si ergeva la colonna corinzia, in marmo cipollino, con sopra l’immagine della Vergine col Bambino. Sul basamento si dice che la colonna proviene dal tempio della pace di Vespasiano, ma in realtà proviene dalla basilica di Massenzio. Per il resto è opera rinascimentale; ma questo fa parte di un’altra storia che al momento non ci interessa.
I MOSAICI DELLA NAVATA DI SANTA MARIA MAGGIORE
Roma, Santa Maria Maggiore
MOSAICI DELLA NAVATA (V sec.)
Nei riquadri musivi della navata centrale sono raffigurate scene tratte dall’Antico Testamento, mentre nella faccia basilicale dell’arco trionfale sono raffigurate storie del Nuovo Testamento. Più precisamente nelle navate si raccontano episodi relativi alle vicende dei primi grandi patriarchi, mentre nell’arco trionfale si riportano episodi relativi all’infanzia di Gesù, tratti dai vangeli ufficiali e apocrifi, con rimandi simbolici all’Apocalisse di san Giovanni. Il senso della successione è esplicito: si vuole esprimere la continuità fra la missione del popolo ebraico e quello cristiano. L’Antico Testamento ha il compito di preparare il primo avvento del Redentore, il Nuovo quello di preparare la seconda venuta, la Parusia; ciò in attuazione del disegno divino. Descriverli tutti sarebbe troppo lungo, sarebbe come leggere un bel po’ di pagine dei libri sacri, cosa che esula dal nostro compito. Tuttavia non si può fare a meno di citarne qualcuno a scopo esemplificativo.
I mosaici della navata raccontano in 43 pannelli musivi, 21 sulla parete di sinistra (di chi guarda verso l’altare) e 22 su quella di destra, storie che vanno da Abramo a Roboamo, ovvero dall’antica alleanza di Dio con gli ebrei all’apostasia e all’esilio. Di essi 27 sono originali della prima metà del V secolo (ma potrebbero essere anche anteriori: la datazione precisa ancora non è stata definita), gli altri sono rifatti in affresco simulante il mosaico.
Si inizia dalla parte sinistra, dall’altare alla controfacciata. Gli episodi non sono in rigida sequenza. Si apre con Abramo e Melchisedec e il sacrificio incruento, si transita per Isacco, ci si sofferma sulla storia di Giacobbe per intercalare con episodi tratti da vari autori, quindi si ricomincia sulla destra con la vita di Mosè, per passare alle imprese di Giosuè e finire con gli ultimi tre re d’Israele, Davide, Salomone e Roboamo.
A mo’ d’esempio prendiamo il terzo riquadro della fila di sinistra e il quattordicesimo della fila di destra, in cui vengono riportati gli episodi della separazione di Abramo da Lot, l’apparizione dell’angelo a Giosuè e la relazione degli esploratori al comandante in capo delle forze israelite.
Uscito dall’Egitto dove si era recato con la sua gente a chiedere sostegno economico Abramo, accompagnato da suo nipote Lot, torna a Betel, il paese da dove era partito. Qui però presto lo spazio si fa stretto per ospitare contemporaneamente i pastori al seguito di Abramo e quelli al seguito di Lot, per cui si addiviene alla conclusione di dividersi, onde evitare liti e tafferugli. Abramo lascia a suo nipote la scelta della regione in cui risiedere. Lot sceglie le zone a sud del Mar Morto e va a stare a Sodoma; Abramo sceglie la valle di Mambrè e va a stare ad Hebron, ad ovest dello stesso mare. Nell’altro mosaico Mosè, come gli era stato predetto da Dio, conduce il popolo d’Israele fino alle soglie della terra promessa, Canaan, ma una volta sul posto si ritira sul monte Nebo per morire. Morto Mosè, alla guida degli ebrei si pone Giosuè. A lui spetta il compito di portare il popolo di Dio a destinazione dopo 40 anni di vagabondaggio nel deserto. Per infondere coraggio al nuovo capo Dio sentenzia solennemente che ovunque gli ebrei metteranno piede la terra sarà loro. Cosi con Giosuè, gli Israeliti da un popolo di fuggiaschi si trasforma in un popolo di conquistatori. Il primo passo del nuovo duce è la conquista di Gerico. Da Setim, ove si trova insieme al resto della comunità, Giosuè spedisce due esploratori a prender informazione sulla città per valutare il da farsi. Una volta giunti a Gerico i due esploratori trovano ospitalità presso una meretrice, una certa Rahab, che abita a ridosso delle mura, quindi in un punto strategico per facilitare una eventuale fuga. La notizia della presenza delle due spie entro le mura della città arriva subito all’orecchio del re, il quale tosto manda i suoi giannizzeri dalla donna a farsi consegnare i due ospiti indesiderati. Ma Rahab conscia del fatto che Dio sta dalla loro parte invece di consegnarli alle autorità nega di averli in casa. Non nega di averli ospitati ma precisa che essi dopo essersi fermati per un po’ hanno lasciato la città, anzi invita gli sbirri a corrergli dietro che forse sarebbero riusciti a raggiungerli. La vera ragione che spinge Rahab a salvare i due ebrei non è la solidarietà ma la negoziazione della sua salvezza e quella della sua famiglia. Infatti in cambio del suo aiuto si fa promettere dai due uomini di Giosuè che al momento della messa a ferro e fuoco della città l’esercito israelita risparmi la sua casa. I due esploratori giurano solennemente di risparmiare lei e i suoi cari a patto però di non essere traditi. Sancito l’accordo Rahab prende una corda e fa calare i due “scout” dalla finestra che da sulle mura. Non solo, ma gli suggerisce pure di inoltrarsi verso il monte e attendere lì il rientro della pattuglia andata alla loro ricerca. Prima di scomparire nel buio i due esploratori ribadiscono il loro giuramento raccomandandosi però di mettere una cordicella color scarlatto alla finestra da cui essi si sono calati. Dopo tre giorni di attesa, finalmente i soldati tornano e i due esploratori ebrei scesi dal loro nascondiglio montuoso possono finalmente prendere la strada del ritorno per riferire a Giosuè.
Nel terzo esempio abbiamo nella zona superiore del riquadro l’episodio dell’apparizione dell’angelo a Giosuè. Siamo arrivati ormai al momento più importante di tutta la vicenda: l’attacco alla città. Mentre Giosuè pensa alla tattica da seguire per espugnare Gerico, Dio gli manda in soccorso un angelo per aiutarlo a trovare la soluzione migliore. Si tratta probabilmente dello stesso angelo apparso a Mosè al momento della consegna delle tavole della legge: o l’arcangelo Michele o l’arcangelo Gabriele. Come in quella occasione il messaggero divino dice a Giosuè di togliersi i calzari perché il suolo che sta calpestando è sacro.
I MOSAICI DELL’ARCO TRIONFALE DI SANTA MARIA MAGGIORE
Roma, Santa Maria Maggiore
MOSAICI DELL’ARCO TRIONFALE (V sec.)
I mosaici dell’arco trionfale sono disposti su quattro fasce parallele su ambo i lati dell’arco. Al centro, nella zona della chiave, c’è l’etimasia, sul quale poggiano una croce, simbolo di morte, e una corona, simbolo di gloria. Sul soppedaneo giace un rotolo sigillato con sette cordicelle, ovvero il libro dell’Apocalisse. Ai lati del trono celeste si ergono le figure di san Pietro e san Paolo, sovrastati dai quattro simboli degli evangelisti. Ai piedi c’è una scritta dedicatoria a Sisto III, il papa che ha fatto costruire la chiesa. Ai piedi dell’arco appaiono, a sinistra la città di Gerusalemme, e a destra, la città di Betlemme. Nel primo registro a sinistra (il più in alto) viene riportata la scena dell’annunciazione.
Le cose insolite da notare in questa scena sono molte. Innanzi tutto Maria è vestita come una principessa imperiale romana. La cosa è da mettere in relazione col trono che sta al centro dell’arco, pronto per ricevere Gesù in veste di re del Cielo e della Terra. Maria è seduta sul suo seggio a filare un velo di porpora per il tempio: secondo lo Pseudo Matteo, autore di uno dei vangeli apocrifi, la vergine è stata una inserviente del tempio. A destra della stessa fascia c’è l’annuncio a Giuseppe, dove, altra sorpresa, Giuseppe e Maria risultano separati, ognuno davanti alla propria dimora: segno evidente che al momento dell’annuncio i due non erano ancora sposati. Giuseppe tiene in mano la “virga brevissima”, ovvero l’asta del comando che, sempre secondo quanto scritto in un vangelo apocrifo, germogliando designa lo sposo della Vergine. Sotto, nel secondo registro, c’è raffigurata l’annunciazione di cui mi riservo di parlare dopo nel commento critico. Sotto ancora, chiude gli episodi della parete sinistra, la strage degli innocenti, allusiva del primo martirio in nome di Dio.
La fascia destra si apre con la presentazione al tempio. Anche qui si fondono le narrazioni evangeliche ufficiali con le apocrife. La scena è affollata di personaggi dalla connotazione simbolica. Incontro a Maria e Gesù Bambino si fanno Simeone, il sacerdote del tempio, e la profetessa Anna. Simeone precede dodici personaggi barbuti dalla folta chioma: simboleggiano le dodici tribù d’Israele. La differenza d’aspetto fra Simeone e gli altri si spiega con la necessità di rimarcare la differenza di chi crede in Cristo da chi non crede. Nella fascia sottostante viene rappresentata la conversione del governatore Afrodisio, episodio riportato in un vangelo apocrifo. Maria durante la sua fuga in Egitto entra nel tempio di Sotine, presso Ermopoli, provocando immediatamente la caduta dei suoi 365 idoli. Questo episodio è più che sufficiente a convincere il governatore della città a riconoscere in Cristo un dio più grande degli idoli pagani. L’allusione qui è quanto mai esplicita: la caduta degli dèi pagani e il trionfo del cristianesimo. La scena raffigura Afrodisio vestito in panni regali con il tablion color porpora che con i suoi soldati va incontro a Cristo bambino, seguito dai suoi genitori e attorniato dalle sue guardie del corpo celesti. Nell’ultimo registro è riportato il noto episodio in cui i tre Magi si presentano ad Erode per chiedergli dove era di casa il re dei Giudei.
Al di la delle singole scene narrate va sottolineato anche e soprattutto il gioco delle rispondenze simboliche che collegano tutti gli episodi tra loro. Ad esempio il fatto che le fasce con Erode stiano al di sotto di tutte le altre sta a significare il prevalere della gloria divina di Cristo bambino rispetto a quella terrena del sovrano. Quindi gli scribi che stanno al fianco di Erode occupano la stessa posizione dei soldati nel corrispettivo fregio a sinistra a significare l’incapacità di riconoscere nel Cristo il vero re del Cielo. La stessa ubicazione che contraddistingue i dodici personaggi della presentazione al tempio, i quali non a caso sono abbigliati in modo simile agli scribi: particolare questo che si riscontra anche nel tablion purpureo delle autorità romane.
ANALISI STILISTICA DEI MOSAICI DI SANTA MARIA MAGGIORE
La cosa che salta subito agli occhi di questi mosaici è che presentano caratteri diversi. Le ipotesi esplicative sono almeno tre: non sono opera della stessa bottega; appartengono a due periodi diversi; l’impostazione concettuale è diversa. Comunque sia il fatto di essere diversi non è da considerarsi nella Roma del V secolo un’eccezione, ma la regola. Infatti in questo periodo la Città Eterna è ancor più che al tempo dell’impero un punto d’incontro delle tante correnti che caratterizzano il panorama artistico del periodo tardo-antico. Molte provengono dall’Oriente cristiano, da Bisanzio, dall’Asia minore, dalla Siria e dall’Egitto; tutte però sono accomunate da alcuni elementi base, tipici del nuovo indirizzo generale. Questi caratteri possono essere riassunti nella generale tendenza al superamento del naturalismo classico. Il naturalismo e la rappresentazione storica caratteristici dei mosaici della navata si fondono con il sintetismo e la presentazione rituale nei mosaici dell’arco trionfale. Nei primi gli effetti sono più pittorici e la narrazione più sciolta, mentre nei secondi l’aspetto è più ieratico e la narrazione più compunta. Queste differenze hanno indotto gli studiosi a collocare i mosaici della navata in un’area linguistica di matrice ellenistico- compendiaria, mentre quelli dell’arco trionfale in un’area cristiano-orientale.
Vale per i mosaici di Santa Maria Maggiore il discorso fatto per le porte di Santa Sabina, solo trasposto in pittura. Prepondera sulle pareti prospicienti la navata maggiore l’indirizzo naturalistico della corrente tardo-antica ellenistico-romana, mentre in quello dell’arco trionfale un indirizzo eclettico in cui si fonde l’indirizzo naturalistico ellenizzante con quello più astratto e simbolico di matrice orientale, sintomo di cambiamento nel quadro culturale artistico dell’epoca. Qui però non si può più parlare di arte colta e arte popolare; in entrambi i cicli l’esecuzione è raffinata e studiata nei minimi dettagli.
Il riquadro con la separazione di Abramo da Lot appartiene alla tradizione romana ellenistica. A sinistra è Abramo con Isacco, Sara e la sua gente; a destra è suo nipote Lot, anche lui con moglie, figlie e i pastori del suo gruppo. Tutti e due sono in procinto di incamminarsi verso direzioni opposte: Abramo verso Hebron, Lot verso Sodoma, la città effigiata sullo sfondo a destra. Il movimento divergente è comunicato visivamente oltre che dalla posizione dei piedi da quella dei corpi. Dei due protagonisti Abramo è il più statico, mentre Lot, così come ci viene rappresentato, messo di profilo, è molto più dinamico. Il senso della separazione è accentuato dalla forma del vuoto che si apre fra i due gruppi, più lieve alla base, più ampio verso l’alto. La cultura tardo-romana è ben evidente nella naturalezza dei movimenti, nonché nella freschezza della narrazione, tuttavia le figure sono pressoché totalmente piatte e le grandezze non hanno niente a che vedere con quelle fisiche: tutti segni evidenti questi che indicano che le cose stanno cambiando nel senso di una maggiore astrazione simbolica.
Per conoscere invece i caratteri precipui della tendenza astrattiva orientale prendiamo in considerazione l’Adorazione dei magi. Come ben si vede della tradizionale interpretazione di questo arcinoto episodio della vita di Gesù non c’è niente. Manca la capanna, mancano il bue e l’asinello, Gesù non è un neonato e non sta in braccio a Maria; c’è una stella anche se non è cometa; non ci sono gli angioletti, ma quattro angioloni. I magi indossano sontuosi abiti persiani e portano il berretto frigio. La Madonna benché sembri la donna ammantata di porpora che siede alla sinistra di Gesù ragazzo non è impersonata da questa figura, ma da quella in abiti regali seduta alla sua destra.
Le figure sono piatte, immobili; lo spazio è privo di profondità; l’ambientazione è ridotta agli elementi indispensabili e la prospettiva del soppedaneo del trono di Gesù è rovesciata. Le ragioni alla base di queste scelte stilistiche sono che nei mosaici dell’abside non ci si limita solo a raccontare gli avvenimenti ma si vuol mostrare anche il significato concettuale che sta dietro a tali avvenimenti. Dunque qual è il significato dell’Adorazione dei Magi? Il tributo recato dai re al re dei re. Dovendo mostrare Gesù come un sovrano non si può raffigurarlo come un bambino appena nato, e allora lo si raffigura come un monarca adolescente assiso in trono, così Maria in quanto madre di un re deve vestire i panni di una principessa reale.
IL MOSAICO ABSIDALE DELLA CHIESA DEI SANTI COSMA E DAMIANO
Roma, basilica dei Santi Cosma e Damiano
CRISTO FRA I SANTI COSMA E DAMIANO (530 circa)
Mosaico absidale
A circa un secolo di distanza dal mosaico di Santa Pudenziana nell’abside della basilica romana dedicata ai Santi Cosma e Damiano compare un’opera musiva che per i suoi caratteri stilistici denota il prevalere di una tendenza nettamente astrattiva su quella naturalistica compendiaria.
Raffigurato al centro, su una scalinata (o una strada) fatta di strati di nuvole rosseggianti in prospettiva, è posto, in posizione frontale, ieratico e luminoso, Gesù Cristo. Ai piedi della scalinata, su una riva erbosa rappresentata con una fascia verde che corre parallela ad una seconda fascia azzurra, che sta a rappresentare il Giordano, poggiano, disposti simmetricamente ai lati del Redentore, i santi Cosma e Damiano, presentati da san Paolo e san Pietro; sul bordo sinistro è papa felice IV (526-530), sotto il cui pontificato fu eretta la chiesa, sul bordo destro è invece san Teodoro. Ancora più sotto, una terza fascia accoglie uno schieramento di pecorelle disposte simmetricamente ai lati dell’agnello dispensatore di grazia, posto al centro. Le foglie di una palma, affioranti dalla cornice dell’arco trionfale, rimandano al paradiso terrestre.
È innegabile in questa immagine l’influenza della raffigurazione musiva di Santa Pudenziana, ma il naturalismo ellenistico è ridotto alla sola prospettiva della scalinata di nubi e ai volti dei santi e dei papi; per il resto, Gesù Cristo, il cielo, la terra e le pecore, è tutto fortemente stilizzato. Eppure l’effetto spaziale non viene per niente meno. Causa ne è il colore, qui utilizzato nelle sue potenzialità percettive di spazio. Sul fondo blu turchino si stagliano, definite dalla loro stessa luminescenza, le figure incandescenti di Cristo e degli altri 6 personaggi. Sicura dunque la relazione con i mosaici del mausoleo di Galla Placidia, dello stesso periodo.
Il pensiero artistico contenuto in questa immagine, pesantemente influenzato dalla visione di Plotino, è chiarissimo: la materia, opaca, è riscattata dalla sua condizione di opacità dalla tecnica musiva, l’arte del mosaico, tramite il processo di trasformazione della luce riflessa, simulata attraverso il chiaroscuro cromatico, in luce irradiante concretamente prodotta dal contrasto delle tinte.
In quest’opera siamo ormai lontani dalle prime sperimentazioni. Le parole che costituiscono il linguaggio cristiano non sono più parole di un lessico in via di estinzione, non rappresentano l’ultimo stadio del processo dissolutivo dell’estetica classica, ma rappresentano il primo stadio del processo costruttivo di un nuovo linguaggio dalla forte connotazione mistica, che fonda le proprie basi sulla destrutturazione del linguaggio ellenistico.
IL PERIODO MIILANESE TEODOSIANO
Milano, basilica Apostolorum (poi San Nazaro)
PIANTA (382/386)
Milano, basilica di San Lorenzo
INTERNO (V sec., ma secondo altri fine IV sec./inizio V sec.)
L’arte paleocristiana vuole essere espressione del potere del Cielo sulla Terra, viceversa l’arte romana vuole essere espressione del potere della Terra sul Cielo. Può esserci un punto d’incontro fra i due domini dichiarando il cristianesimo religione ufficiale dello stato. A compiere questo passo è Teodosio (379-395). Il suo programma è chiaramente politico, tuttavia implica risvolti estetici: egli vuole rilanciare l’immagine di stabilità e saldezza dell’impero. Solo che il programma teodosiano non trova applicazione a Roma, bensì a Milano, che dal 379 al 402 diventa la capitale dell’impero romano. In seguito a ciò il capoluogo lombardo si trasforma da centro periferico nel principale centro d’irradiazione della cultura tardo-antica. I monumenti teodosiani assumono così un chiaro significato: l’impero come espressione di trascendenza cristiana e stabilità romana. In questo modo accade che mentre a Roma si va stabilendo un nuovo impero, quello spirituale del papa, a Milano Teodosio tenta di ricreare la grandezza assolutistica di Roma capitale imperiale. In questo suo proposito di “restauratio” egli non è solo, è affiancato da sant’Ambrogio (339 c. – 397), vescovo di Milano.
Il desiderio dell’imperatore di dare a Milano l’aspetto di Roma si esplicita chiaramente in alcuni caratteri che si ritrovano puntuali nelle poche costruzioni del periodo sopravvissute. Questi caratteri sono essenzialmente: una maggiore complessità costruttiva, un più alto livello tecnico, l’imponente grandezza dei nuovi edifici, la centralità delle piante, le potenti membrature e articolazioni delle masse murarie.
La basilica Apostolorum, costruita fra il 382 e il 386, ha un’unica navata lunga quasi quanto il transetto, cosa che gli conferisce una pianta molto vicina alla croce greca. Quella di San Lorenzo ha pianta a schema centrico, risultante dall’inserzione di quattro immense esedre nel quadrato di base. Il modello è esplicito: i grandi padiglioni termali. Ciò che conta di più nella definizione di questo spazio avvolgente sono le strutture portanti e le loro articolazioni. Così ecco prendere risalto i larghi pilastri angolari a cui fanno da contrappeso ottico i grandi vuoti semilunati delle esedre. Queste aprono al pianterreno su un deambulatorio e al primo piano su una galleria. Lo scopo è lampante: muovere lo spazio interno tramite un’alternanza di pieni e di vuoti. Lo stesso rimando struttura le cappelle annesse di Sant’Aquilino, Sant’Ippolito e San Sisto.
San Lorenzo è l’immagine più eloquente del programma politico teodosiano, in cui si vuole esprimere attraverso un’architettura insieme civile e religiosa la fusione in un’unica legge del potere politico e spirituale dell’impero romano-cristiano.
LO SVILUPPO DELL’ARTE MUSIVA NEL PERIODO MILANESE
Milano, sacello di San Vittore in Ciel d’Oro
CUPOLA, SANT’AMBROGIO, SAN GERVASIO (IV sec., ma secondo altri V sec.)
Mosaico
Milano, basilica di San Lorenzo, battistero di Sant’Aquilino
CRISTO FRA GLI APOSTOLI (fine V sec., ma secondo altri fine IV sec.)
Mosaico absidale
Il programma teodosiano e ambrosiano di recupero della cultura classica interessa anche pittura e scultura. Il periodo che segna il passaggio dal IV al V secolo è caratterizzato da un momentaneo ritorno alle fonti ellenistiche tardo-antiche romane, secondo quanto disposto dall’imperatore Teodosio, che vuole riprodurre a Milano, nuova capitale dell’impero romano d’Occidente ormai già da circa un secolo, lo stesso panorama urbano monumentale che fu un tempo di Roma.
Nei mosaici che decorano le pareti del sacello di San Vittore in Ciel d’Oro i santi che vi sono raffigurati appaiono individuati nella loro qualità di personaggi storici: è la prima volta da quando domina l’indirizzo simbolista nella cultura tardo-romana. Inoltre riappare, anche se molto mitigata, una leggera profondità prospettica, nonché una lieve modulazione chiaroscurale. Nel mosaico absidale del battistero di Sant’Aquilino fra un simposio presieduto da un giovane Gesù Cristo torna a farsi vedere l’ambientazione naturalistica.
Milano, Sant’Ambrogio
SARCOFAGO DI STILICONE (IV sec.)
Marmo
Monza, tesoro del duomo
DITTICO DI STILICONE (fine IV/inizio V sec.)
Avorio con tracce di pittura, altezza cm. 33 – larghezza cm. 16
In campo plastico la scultura riesce ad ottenere gli stessi effetti di evanescenza luminosa conseguiti in campo pittorico. Nei sarcofagi del III e IV secolo, il modellato è ancora sotto l’influenza della massiccia cultura tardo-antica romana, con la sua struttura potentemente plastica. Il sarcofago di Stilicone, custodito nella basilica ambrosiana è un’arca di marmo scolpita su tutte e quattro le facce con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento. In esso è esplicita l’influenza tardo-imperiale; il modellato è fortemente plastico, il rilievo crea forti contrasti fra figure e sfondo, la profondità non è simulata, è reale. Con il passaggio al V secolo si assiste ad un cambiamento radicale. Il rilievo si riduce notevolmente, fino a schiacciarsi sul fondo, il quale a sua volta scompare trasformandosi in una superficie piatta e levigata. La figura rimane unica e incontrastata protagonista del mezzotondo. È costruita col minimo corrugamento della superficie scultorea, un espediente tecnico col quale si riescono ad ottenere minime variazioni di luci. È un metodo questo che i maestri bizantini conoscono bene: infatti anche le tessere dei mosaici presentano lievi variazioni nell’orientamento delle superfici esposte alla luce.
Bibliografia arte cristiana dei primi secoli
Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana 1, Sansoni per la scuola, 1988
Piero Adorno, L’arte italiana – volume primo – tomo primo – Dalla preistoria all’arte paleocristiana, Casa editrice G. D’Anna, Nuova edizione 1992
Josef Pustka, Basilica di Santa Maria Maggiore, d. edit.t s.r.l. – Roma, 1992
Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Arte nel tempo – Dalla Preistoria al Medioevo, Bompiani/per le scuole superiori, ristampa 1995
Giuseppe Bovini, guida alla basilica Di Santa Maria Maggiore, Edizioni a.t.s. italia, 1996
Cerchiai, Di Benedetto, Gatto, Mainardis, Manodori, Matera, Rendina, Zaccaria, Storia di Roma – dalla fondazione all’inizio del terzo millennio, Newton & Compton Editori, 1998
Vincenzo Fiocchi Nicolai, Fabrizio Bisconti, Danilo Mazzoleni, Le Catacombe Cristiane di Roma – origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica, Schnell & Steiner, 1998
Alessandra Campagna, La basilica di San Lorenzo Maggiore Guida, Skira editore, 2000