PERIODIZZAZIONE
LA SITUAZIONE STORICA DOPO LA CADUTA DI ATENE: CRISI E TRAMONTO DELLA CIVILTÀ CLASSICA
LE POETICHE DELLA CRISI
IL PENSIERO ARTISTICO DEL IV SECOLO: RAPPORTO FRA LE POETICHE DEL IV SECOLO E LA CRISI DELL’ANTROPOCENTRISMO
CONSEGUENZE DELLA CRISI DELL’ANTROPOCENTRISMO
ESPRESSIONE ESTETICA DELLA CRISI DELL’ANTROPOCENTRISMO
SKOPAS
PRASSITELE
LISIPPO
LA NUOVA POETICA DI LISIPPO
L’EPOCA DI LISIPPO
IL NUOVO RAPPORTO FRA REALTÀ E IMMAGINE
CONSEGUENZE SUL PIANO LINGUISTICO E PROCEDURALE
CONSEGUENZE TEMATICHE
LA NASCITA DEL RITRATTO EROICO
L’APOXYOMENOS
Atene, Museo Archeologico Nazionale
Skopas
TESTE DI ERACLE (metà IV sec. a.C.)
Proveniente dal frontone ovest del tempio di Atena Alea a Tegea
Marmo, altezza cm. 16,5
Atene, Museo Archeologico Nazionale
Skopas
TESTE DI GUERRIERO (metà IV sec. a.C.)
Proveniente dal frontone ovest del tempio di Atena Alea a Tegea
Marmo, altezza cm. 32
La storia dell’arte greca viene tradizionalmente suddivisa in quattro periodi fondamentali: il cosiddetto Medioevo Ellenico, oscillante fra la fine del XII inizi XI e il IX/VIII secolo a.C.; il periodo arcaico che comprende tutto il VII e tutto il VI secolo a.C.; il periodo classico che si sviluppa per l’intero V secolo, fin oltre la metà del successivo; e il cosiddetto periodo ellenistico che ne conclude la parabola, interessando i secoli successivi fino alla metà del II secolo a.C., quando gli ultimi regni ellenistici cadono sotto il dominio di Roma.
In molti casi la suddivisione cronologica risente del pensiero classicista, influenzato dalle teorie del Winckelmann (1717-1768), per cui la storia dell’arte, in generale, si svolge secondo tre fasi principali: una fase di preparazione, dove si stenta la compiutezza, ma nello stesso tempo si nota un progresso inarrestabile verso la bellezza ideale; l’apogeo, in cui si raggiunge la perfezione; la fase decadente, in cui, non potendo più progredire, ci si limita ad imitare la maniera dei grandi maestri della fase precedente. Oggi, a questo tipo di lettura, grazie all’esperienza moderna, viene preferita quella in cui prevale l’idea che fra un periodo e l’altro è più facile che si stabilisca un rapporto di rottura che non un rapporto di continuità.
Dal punto di vista storico politico si può dire che il Medioevo Ellenico comprende tutta la lunga e oscura fase di formazione della Grecia post-micenea, caratterizzata dalla spartizione del territorio egeo fra Dori, Eoli e Ioni. Il periodo arcaico va dall’inizio della fine del potere aristocratico, con la conseguente formazione degli stati oplitici nel VII secolo a.C., alla prima guerra persiana, consumatasi nel 490 a.C. Il periodo classico è compreso invece tra la fine della seconda guerra persiana, chiusa nel 479 a.C., e il tramonto delle libertà e dell’indipendenza greche, avvenuto dopo la sconfitta di Cheronea del 338 a.C., subita dalla coalizione delle poleis elleniche nella guerra antimperialista contro Filippo il macedone. Infine il periodo ellenistico che si svolge a partire dalla morte di Alessandro Magno, avvenuta il 13 giugno del 323 a.C., fino alla conquista romana dell’ultimo regno ellenistico, avvenuta nel 146 a.C.
LA SITUAZIONE STORICA DOPO LA CADUTA DI ATENE: CRISI E TRAMONTO DELLA CIVILTÀ CLASSICA
Nel corso del IV sec. a.C. la situazione nel mondo ellenico precipita rapidamente. Prima la resa di Atene nel 404 a.C., poi la guerra fra Sparta e Tebe nel 371 a.C., quindi la definitiva sconfitta a Cheronea contro i macedoni di Filippo II (382-336 a.C.) nel 338 a.C., cancellano per sempre l’autonomia delle poleis greche.
Tali sconvolgenti avvenimenti non potevano non avere una profonda ripercussione sulle poetiche della generazione di artisti che si trovano ad operare nella Grecia post-fidiaca e post-periclea, i quali proprio a causa della loro profonda relazione con la crisi del mondo greco non dovrebbero essere definiti artisti classici, ma artisti della crisi della classicità ellenica.
Premesso ciò, i fatti ci rimandano alla Confederazione di Delo, capeggiata da Atene, a cui si oppone la Lega Peloponnesiaca, capeggiata da Sparta. Lo scontro fra queste due potenti organizzazioni politiche è inevitabile e diviene realtà con la disastrosa guerra del Peloponneso che si svolge dal 431 al 404 a.C. È la primavera del 431 a.C. quando l’esercito spartano invade l’Attica bruciando campi e saccheggiando villaggi. I contadini terrorizzati fuggono per cercare rifugio, come si era fatto da sempre, all’interno delle mura cittadine. Ma Atene non è più la polis degli eroi mitici; non è pronta ad accogliere questa moltitudine di contadini affamati e bisognosi di cure. Cosicché il sovraffollamento improvviso, non supportato da misure igienico sanitarie adeguate, crea le condizioni favorevoli alla diffusione delle epidemie. Nel 430 a.C., in un’Atene sovraffollata di profughi, scoppia la peste. A quanto pare la pestilenza ebbe origine nell’Alto Egitto, devastò l’impero persiano e sbarcò nel Pireo insieme alle merci portate dall’Oriente. Il flagello imperversa per tutta l’estate e nel corso dell’anno successivo. Poi, dopo una tregua, nel 427 a.C. torna a divampare, fin quando non si estingue definitivamente nello stesso anno. Nessuno ha mai saputo l’esatto ammontare delle vittime del terribile morbo. I dati che ci tramanda Tucidide (460-395 a.C. c.) riguardano solo l’esercito: 4.400 fanti su 26.000 uomini, compresi fra i 18 e i 60 anni, in forza alle truppe armate ateniesi. Oggi si pensa che almeno ¼ dell’intera popolazione di Atene vi abbia perso la vita: all’epoca Atene contava 395.000 abitanti. Lo stesso Pericle vi perì con due suoi figli. Contrariamente ad Atene, Sparta, con tutto il Peloponneso messo insieme, fu risparmiata.
La pestilenza non ferma la borghesia industriale e mercantile della polis attica, che non ha nessuna intenzione di rinunciare ai guadagni assicurati dalla sua supremazia commerciale. Così senza piangere a lungo i propri morti, passa subito al contrattacco e armata la flotta mette a ferro e fuoco le città costiere nemiche. Ma insieme a queste va bruciato anche il denaro nelle tasche degli Ateniesi, i quali si ritrovano nell’impossibilità di continuare la guerra fratricida e quindi, alla fine, si vedono costretti ad arrendersi. Le condizioni per la cessazione delle ostilità sono oltremodo gravose per la città, tanto che non si riavrà mai più dal colpo. Se Atene si spegne Sparta non risplende tanto a lungo. Ansiosa di prendere il posto di Atene, diviene, come Atene, assetata di potere, cosicché va precipitando inesorabilmente verso lo stesso destino: prima è odiata e poi annientata.
La Sparta degli spartani è Tebe. La città di Eracle si pone a capo della rivolta contro i Lacedemoni e sotto il comando dei suoi due generali Pelopida (420-364 a.C.) ed Epaminonda (418-362 a.C.) ne sconfigge l’esercito a Leuttra nel 371 a.C. Ma neppure i Tebani sono immuni dal fascino del potere. Infatti cercano di far risorgere l’antica coalizione, però non hanno la maturità per svolgere la funzione di forza egemone: le ore della libertà greca sono ormai contate.
Mentre le poleis sono affaccendate ad annientarsi vicendevolmente una nuova minaccia si va profilando all’orizzonte, una minaccia ancora più seria di quella persiana, costituita da un popolo di montanari, i Macedoni, che può contare su un esercito formidabile. Questo esercito è un esercito come tutti gli altri, formato da fanti e cavalieri, ma il pezzo forte, la sua arma segreta sta nella falange. La falange è uno dei due capolavori di Filippo il macedone (l’altro fu il figlio Alessandro Magno), un tipo rozzo, ma che conosce bene i Greci, dal momento che aveva “studiato” a Tebe.
La falange è costituita da 1.600 opliti, muniti di scudo, lancia e spada, schierati in 16 file parallele di 100 soldati ognuna: una macchina da guerra mostruosa! Al solo vederla gli eserciti avversari si davano alla fuga. Ai loro occhi appariva una selva di lance, di cui quelle in prima fila abbassate e puntate all’innanzi, quelle della seconda fila poggiate sulle spalle dei commilitoni della prima, pronte a rimpiazzarle, quelle della terza pronte a rimpiazzare quelle della seconda e così via discorrendo, fino alle ultime, issate verticalmente. Con queste sue falangi Filippo attacca l’ultima coalizione greca e la sconfigge a Cheronea nel 338 a.C. mettendo fine alle libertà greche e con esse alla Grecia Antica. La Grecia dunque muore, ma quello che non muore è la sua grande cultura classica, soprattutto quella di Atene. Le conquiste artistiche di Fidia, Policleto, Skopas, Prassitele e Lisippo divengono patrimonio figurativo degli artisti che danno vita alla nuova realtà socioculturale, l’Ellenismo, e da questa al nuovo mondo: il mondo romano.
Roma, Musei Capitolini
Skopas
POTHOS (seconda metà IV sec. a.C.)
Copia romana
Marmo, altezza mt. 1,80
Parigi, Museo del Louvre
Prassitele
APOLLO SAURÒCTONOS (metà IV sec. a.C.)
Copia romana dall’originale in bronzo
Marmo, altezza mt. 1,49
Nel IV secolo a.C. gli dèi dell’Olimpo sembrano aver abbandonato le poleis da loro protette lasciando la civiltà in balia della barbarie. Gli uomini sono rimasti soli alle prese col destino avverso, senza alcuna copertura divina che propizi un epilogo favorevole agli avvenimenti in corso. Dèi ed eroi non imbastiscono più trame leggendarie e il passato mitico si dissolve lasciando da una parte dèi senza eroi e dall’altra eroi senza dèi. Dunque la nuova problematica che gli artisti del IV secolo si trovano ad affrontare è quella di rispondere alle seguenti domande: cosa saranno gli dèi senza gli eroi da incoraggiare, senza popoli per cui parteggiare? E cosa saranno gli eroi senza più l’assistenza delle divinità olimpiche? Le due risposte possibili sono: i primi saranno dèi assenti, distanti dalle dispute, divinità che attenderanno alle loro faccende domestiche, intime, mentre gli eroi saranno uomini sofferenti come i comuni mortali, immersi nel dramma globale, cupi in volto, non più sorridenti, perché ora spetterà a loro, e solo a loro la responsabilità delle scelte.
In questa nuova situazione che ne sarà dunque del mito e dell’archetipo?
In seguito a queste nuove considerazioni l’arte classica, col suo contenuto di teoria e esperienza storica, subisce delle modifiche niente affatto trascurabili. La forma oggettiva e impersonale delle generazioni di artisti del V secolo a.C. acquisisce nuovi elementi espressivi, derivanti dalla necessità, ora emergente, di esprimere il sentimento umano. Gli elementi che connotano il cambiamento sono da ricercarsi prevalentemente nell’accentuazione del senso di instabilità della figura, nella rottura dell’equilibrio di tipo osmotico fra forma e spazio, nonché nel senso d’indefinibilità degli esiti dell’azione. Cosicché le forze che disegnano i volumi delle statue dall’interno non sono più inseribili in schemi spaziali preordinati che comprendano allo stesso tempo l’oggetto e lo spazio che gli sta intorno, né i gesti spiegano più il senso morale attraverso la chiarezza degli esiti. L’immagine artistica greca di questo periodo si arricchisce così di chiaroscuro e movimento drammatico, o, all’opposto, di morbide sfumature liriche e attimi fuggenti, che, comunque sia, esprimono eloquentemente, in entrambi i casi, la perdita dei valori ideali espressi dall’arte del V secolo.
CONSEGUENZE DELLA CRISI DELL’ANTROPOCENTRISMO
Londra, British Museum
Skopas
DEMETRA DI CNIDO (350/330 a.C.)
Marmo, altezza mt. 1,52
Conseguenza del nuovo assetto politico, il mito si scinde in due parti. Una parte diventa storia di eroi soli, dunque dramma; dall’altra cronaca di divinità còlte in momenti occasionali di ordinaria esistenza. Il canone aureo con cui si identifica l’archetipo dell’età classica subisce rilevanti mutazioni: si fa sempre più instabile e fluttuante, si disfa sempre più in atmosfere languide o in cupi drammi. Pur identificandosi ancora con l’essenza di un’umanità ideale di questa non ha più le caratteristiche peculiari di equilibrio, sicurezza, dominio. Non si identifica più con una forma ponderata, chiastica, dalle proporzioni perfette, che rispecchia in sé l’ordine della mente razionale, ma sfugge al controllo della ragione, che d’ora innanzi cesserà di essere lo strumento privilegiato dall’arte per delineare i contorni della forma primigenia della natura. Al suo posto figureranno la sensibilità e l’intuito, i nuovi mezzi a cui demandare il compito di cogliere i rapporti intercorrenti fra gli elementi strutturali dell’immagine artistica, specchio dell’universo, e l’arte dipenderà sempre più dalla personalità del singolo artefice.
ESPRESSIONE ESTETICA DELLA CRISI DELL’ANTROPOCENTRISMO
Lo sviluppo del pensiero classico nel IV secolo a.C. dà origine da un lato ad una immagine della divinità indefinita nell’articolazione anatomica delle parti col tutto, animata da una corrente biologica profonda che ne corruga appena la superficie, indecisa nelle posture che ne trasforma le gesta in atteggiamenti vacui, mentre dall’altro dà origine ad un’immagine eroica pesante nella sua corporeità che la ancora a terra, decisa nei gesti che non spiegano nulla se non la gravosità dell’atto che si sta compiendo, tesa nel disperato tentativo di imitare un modello che ora sembra sfuggirgli. Comunque, in entrambe i casi, il classico equilibrio, l’olimpica serenità, la ponderazione chiastica lasciano il posto ad un equilibrio precario, ad una condizione interiore oscillante fra il malinconico e il sofferente, che si esprime visivamente con uno spostamento dell’asse gravitazionale da un punto interno alla statua ad un punto esterno, con uno sguardo perduto nel vuoto o pieno d’angoscia.
Le due massime personalità che incarnano le due principali poetiche della crisi del periodo classico sono, in ordine di tempo, Skopas (390-330 a.C. c.) e Prassitele (400–326 a.C. c.).
Skopas e Prassitele sono gli artisti che esprimono al massimo livello queste due visione dell’arte del IV secolo. Skopas è l’artista degli eroi sofferenti, mentre Prassitele è l’artista delle divinità estranee alle vicende umane. La forma delle loro statue benché richiami quella degli autori classici del secolo precedente non ha il carattere dell’universalità oggettiva classica, ma risente dell’interpretazione soggettiva dell’artefice.
Londra, British Museum
Skopas
AMAZZONOMACHIA (350 a.C. c.)
Lastre provenienti dal fregio del Mausoleo di Alicarnasso
Marmo, altezza cm. 90
Dresda, Germania, Staatliche Kunstsammlungen
Skopas
MENADE (350 a.C. c.)
Copia romana
Marmo, altezza cm. 45
Fidia dona la vita alle statue classiche, le dota di un’anima universale, ma non arriva a dotarle dei più umili sentimenti terreni. Questo compito spetta a Skopas e Prassitele.
Nelle statue dei due artisti del IV secolo a.C. iniziano ad apparire i sentimenti, o meglio, sparisce la serenità olimpica che aveva caratterizzato le sculture del secolo precedente per lasciare il posto a sentimenti più umani, quali la melanconia e il dramma. Skopas è l’artista dei sentimenti tragici, Prassitele l’artista dei sentimenti lirici.
Skopas, attivo nella prima metà del IV secolo a.C., è originario di Paro. Poche sono le opere di lui che ci sono giunte. Tra le più famose che gli vengono attribuite figura senz’altro la decorazione di una delle sette meraviglie del mondo antico: il mausoleo di Alicarnasso.
Il mausoleo di Alicarnasso non era altro che una tomba monumentale, alta fino a 47 mt. (per qualcuno 49), che Artemisia II (?-350 a.C.), moglie di Mausolo (410-353 a.C.), re della Caria, aveva fatto erigere in onore di suo marito. Nel fregio che avrebbe dovuto coronare la sommità della parete est della cella vi è raffigurata un’amazzonomachia, tema alquanto comune nell’arte greca, e quindi di interesse molto relativo se non fosse per la novità costituita dall’interpretazione di Skopas.
Da quel che è dato vedere in alcune figure che ornano un suo frammento, la plastica risulta ricca di contrasto a causa del rilievo fortemente sbalzato. L’azione guerresca diventa furibonda lotta; le membra si inturgidiscono per la contrattura dei muscoli tesi nello scontro; la linea di contorno si spezza; lo stile si fa tormentato: in particolare colpisce la figura dell’amazzone che cavalca al contrario. Assurdità inammissibile qualche tempo prima, nel bassorilievo cario Skopas non esita a sacrificare la verosimiglianza dell’immagine artistica in favore della coerenza di questa alla struttura della creazione estetica. Se il senso del dramma è dato dall’ordito compositivo fondato sul contrasto dei movimenti allora occorrerà inserire figure orientate secondo direzioni opposte o azioni divergenti. A poco più di mezzo secolo di distanza dal fregio fidiaco nel fregio scopadeo le figure non si inseriscono in modo armonico nello spazio circostante, ma lo occupano di prepotenza con la plastica dei loro corpi e lo misurano con la portata dei loro gesti. Lo spazio dunque non è qualcosa di preesistente all’uomo, esso prende forma dalle sue azioni; il rapporto fra la forma dei corpi e il vuoto che li contiene non è superficie geometrica, né membrana tesa fra due densità spaziali in equilibrio, ma attrito, sopraffazione dell’una rispetto all’altro.
Queste condizioni vengono espresse in modo magistrale attraverso il vigoroso rilievo con cui Skopas ottiene l’addensarsi delle ombre a stretto contatto con il bagliore dei riflessi.
Skopas non nega il valore della storia, la sua plastica rientra nella migliore tradizione attica, si richiama esplicitamente ai canoni classici, interpretandoli però in chiave drammatica, e non di eleganza manieristica, come aveva fatto la generazione di artisti immediatamente precedente alla sua.
Olimpia, Grecia, Museo Archeologico
Prassitele
HERMES E DIONISO (350/340 a.C. c.)
Proveniente dall’Heraion di Olimpia
Marmo, altezza mt. 2,15
Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino
Prassitele
AFRODITE CNIDIA (metà IV sec. a.C.)
Copia romana
Marmo, altezza mt. 2,05
Contemporaneo di Skopas, Prassitele si muove sulla stessa linea, solo che per lui la forza che anima le statue non è il dramma, bensì il gesto spontaneo dei momenti occasionali di ordinaria esistenza. Questa non si esprime ovviamente nei momenti di maggiore concitazione, al contrario, si esprime negli istanti in cui è più profondo il senso di abbandono alle occupazioni più intime. Con lui la figura scolpita si trasforma davvero in un essere vivente, nel senso che vive lo spazio che lo circonda, non lo agisce. Di questo spazio non ne definisce le sembianze, ma ne controlla le forze attraverso il sensibilissimo modellato. Figlio dello scultore ateniese Cefisòdoto (V/IV sec. a.C.), rinomato bronzista, trasfonde l’effetto pittorico della fusione atmosferica nella scultura. Per accentuare l’effetto pittorico delle sue statue sembra che usasse farle rifinire da esimi pittori, fra cui il ben noto Nicia (IV sec. a.C.), il quale ricopriva il marmo con una miscela di olio e cera, la “gànosis”, in modo da ottenere un caldo color ambrato che simulava l’incarnato. Non è una novità. I Greci usavano spesso colorare le statue passandoci sopra, a lavoro ultimato, tinte di vario genere, ma soprattutto usavano dare tono alle loro opere tramite l’impiego di materiali diversi.
A Prassitele si attribuiscono molte sculture famose, i cui originali sono andati tutti perduti. Fra queste l’Afrodite di Cnido, dei Musei Vaticani e l’Apollo sauroctono del Louvre, entrambe copie di epoca romana. Anche il gruppo di Hermes e Dioniso bambino, ritenuto un originale fino a non molto tempo fa, oggi si è propensi a considerarlo una copia del II secolo a.C. di un omonimo scultore, suo discendente a quanto pare. Si trovava nella cella del tempio di Hera ad Olimpia e rappresenta Hermes e il suo fratellino Dioniso, appena nato, in un momento di pausa. L’episodio è tratto dalle vicende che accompagnano la storia del dio Bacco.
Hermes (Mercurio), il messaggero degli dèi, viene incaricato da Zeus (Giove), suo padre, di accompagnare dalle ninfe il piccolo Dioniso, avuto da una relazione extraconiugale con Sèmele, una di loro, allo scopo di affidarglielo per allevarlo al riparo dall’ira di Giunone, sua moglie. Durante il percorso Hermes, premuroso, si concede una sosta per distrarre il fratellino, stranito dal lungo viaggio. Per assolvere al proprio intento Hermes coglie un grappolo d’uva e comincia ad agitarglielo davanti. Dioniso divertito, come tutti i bambini, cerca di afferrarlo.
Dunque il momento scelto da Prassitele per la sua opera è uno dei momenti meno importanti dell’intera vicenda, un momento occasionale, un momento di pausa, un momento di distrazione; non il comando di Giove, non l’ira di Giunone, non la consegna del bambino alla madre, ma un intervallo di gioco. Ed è proprio durante questa pausa che Prassitele si sofferma a cogliere il pondus, il chiasma, la proporzionalità classica, cioè, in altri termini, la forma ideale. Ed è proprio qui che si rintracciano gli elementi stilistici della nuova interpretazione prassitelica.
Innanzi tutto l’equilibrio non è più interno alla statua, si sposta verso il centro del gruppo; il chiasma si accentua sbilanciando la figura di Hermes verso Dioniso; la proporzionalità della figura si allarga a comprendere anche il tronco dove il dio alato si appoggia. L’anatomia del corpo non è rivelata dal modellato, ma suggerita; le parti che costituiscono l’insieme si fondono attraverso i lievissimi passaggi chiaroscurali che si vengono a stabilire nei punti di affioramento dei muscoli e nei punti di articolazione delle membra.
Cosa succederà dopo che Hermes avrà ripreso il cammino? come andrà a finire la vicenda? Riuscirà il messaggero degli dèi a raggiungere le ninfe e portare a termine la sua missione?
Prassitele non ci dice nulla a riguardo, né ci da alcun indizio per poter capire come si concluderà la faccenda: la storia non ha un’arsi né una catarsi, non c’è dramma né epilogo, non c’è storia, ma solo contingenza. Infine non c’è il manifestarsi di strutture metafisiche, bensì il manifestarsi di strutture organiche; non è la ragione che viene investita nell’atto creativo, ma la sensibilità.
Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Lisippo
ERACLE FARNESE (IV sec. a.C.)
Copia romana ingigantita dall’originale in bronzo
Marmo, altezza mt. 3,17
Con Lisippo, nato a Sicione nel Peloponneso, intorno al 370 a.C., e morto intorno al 300, all’età presumibile di 70 anni, si chiude la fase classica dell’arte greca e si apre quella ellenistica. Egli è l’ultimo dei maestri classici dell’antica Grecia. A lui si fa risalire l’origine dell’idealismo percettivo e del ritratto eroico. La sua importanza storico artistica consiste nell’aver sostituito alla natura quale oggetto di ricerca dell’arte il fenomeno luminoso, cioè nell’aver spostato l’attenzione dell’arte dal dato alla sensazione. Se la forma della natura si rispecchia nella mente dell’uomo, il fenomeno luminoso si riflette nell’immagine visiva. Ciò significa procedere alla ricostruzione dell’oggetto della rappresentazione artistica senza doverne avere precedentemente nozione. Con lui prende corpo la prima grande riforma linguistica della storia in campo figurativo. Dallo sviluppo delle sue premesse si genererà il realismo alessandrino, dai forti accenti veristici, e quanto di pittorico s’imporrà negli elementi strutturali delle correnti ellenistiche.
L’idealismo di Lisippo non è fondato su elementi derivanti dalla trasformazione della percezione in concetti; le parole del suo linguaggio non sono costituite da linee, piani e volumi, bensì da macchie, più chiare e più scure. In lui la sublimazione concettuale non cancella la sensazione, l’esperienza visiva che si trova all’origine del processo di elaborazione percettiva; non corregge il “sentito” con il “noto”, si attiene al veduto, anche se questo dovesse entrare in conflitto con l’essere. A iniziare da Lisippo l’immagine artistica prende a tradurre il fenomeno visivo in un complesso di macchie. Queste si dispongono nello spazio cercando un equilibrio tra loro, equilibrio non più misurabile tramite strumenti razionali quali la matematica e la geometria, ma controllabile tramite i sensi.
L’epoca di Lisippo è l’epoca in cui visse, operò e morì Alessandro Magno (356-323 a.C.). La Grecia delle poleis non esiste più; le divinità olimpiche sono ormai lontane; l’uomo è solo di fronte agli eventi della vita e il suo futuro dipende tutto dai suoi atti, dalle sue azioni, dalle sue decisioni. In questo nuovo quadro politico e ideologico diventa importante la conoscenza sperimentale, un tipo di gnosi che non antepone le leggi ai fenomeni, ma, al contrario, fa discendere le regole dagli eventi. Questo pensiero, coltivato soprattutto dagli scienziati dell’epoca, si va generalizzando anche negli altri settori speculativi, fino a riflettersi nel campo dell’arte e creare così nuovi presupposti.
Lisippo, artista di un periodo di crisi, dalla crisi riesce ad uscir fuori, impostando il linguaggio classico su nuovi elementi strutturali, non più fondati sull’elaborazione gnostica dell’essere ma sul rilevamento dell’apparenza. Si delinea così a partire da Lisippo una corrente artistica che tende a interpretare la scultura in chiave pittorica. Questa tendenza sopravvivrà ben più a lungo del suo inventore e andrà a caratterizzare una linea esegetica che ricorrerà spesso nel corso della storia dell’arte, tanto da costituire il tratto distintivo principale del linguaggio greco ellenistico in epoca romana e alto medievale. Ad essa si contrapporrà un’altra tendenza, in cui ad una interpretazione in chiave pittorica se ne preferirà una in chiave plastica fatta di piani e masse, il cui fine però non sarà più quello di delimitare l’essere, ma quello di far risaltare in modo molto più chiaro e diretto il contenuto tematico.
IL NUOVO RAPPORTO FRA REALTÀ E IMMAGINE
L’arte di Lisippo è lo specchio fedele di un nuovo pensiero che si va sviluppando nella Grecia del periodo successivo a quello del tramonto delle poleis. Esso si fonda sulle stesse considerazioni che caratterizzano le poetiche della crisi, ma ne supera il sentimento decadentista. A livello stilistico questa posizione si configura in una inversione di tendenza: dalla destrutturazione della solida costruzione classica alla sua ristrutturazione su nuovi elementi di base.
Tutto quello che sappiamo della realtà non ci deriva dalla benevolenza degli dèi che ci illuminano, ma dalla nostra capacità di interpretare i fenomeni naturali in modo da permetterci una reazione vantaggiosa nei confronti del mondo esterno. Quand’anche la natura possedesse un progetto formale, questo non è dato conoscerlo, per cui all’arte non rimane altro che imitare l’idea che l’uomo si fa dell’essenza ricavata dalla propria esperienza, e di lì trarre la propria soggettiva interpretazione della forma ideale. Tutto quello che può fare un artista in questa situazione è, secondo Lisippo, riportare nei suoi lavori il frutto ragionato della propria esperienza; e ciò che si rivela all’esperienza non è l’invisibile archetipo, ma la realtà percettiva, nella sua qualità d’immagine fatta di modulazioni di luci ed ombre, cioè di chiaroscuro.
Per Lisippo, artista classico, l’arte ha sempre il compito di visualizzare l’archetipo, ma questo non appartiene più alla sfera naturale, non si identifica più nella forma mentale che riflette quella biologica, bensì appartiene alla sfera fenomenica e si identifica con una rappresentazione che traduce fedelmente l’oggetto della propria esperienza visiva, e cioè l’immagine della natura non gia la sua forma. Dunque il linguaggio lisippesco non sarà più caratterizzato da elementi strutturali tipici della dimensione psichica, ma da elementi che traducono in termini di rilievo plastico gli effetti della luce sui corpi, dunque da elementi strutturali tipici della dimensione visiva. In altri termini Lisippo imita la natura nella sua qualità di fenomeno e non nella sua qualità di cosa.
Come ogni buon artista classico anche Lisippo parte dal dato percettivo, ma al contrario dei suoi predecessori non lo traduce al fine in concetto. Ciò che egli intende orchestrare non sono nitide forme, articolate in ragione di rapporti metrici, ma un complesso gioco di luci e ombre, un contesto di masse ora illuminate ora in ombra, che si dislocano nello spazio a seconda delle esigenze di equilibrio e di armonia che si presenteranno di volta in volta.
CONSEGUENZE SUL PIANO LINGUISTICO E PROCEDURALE
Vaste e durature sono le conseguenze derivanti dal nuovo pensiero artistico lisippesco. Con lui si attua il passaggio dell’arte dal piano del concetto a quello del fenomeno, ovvero dell’immagine. Però tale passaggio non va inteso nel senso che da lui in poi l’arte non verrà più ricercata negli elementi strutturali di origine mentale, bensì nel senso che da lui in poi il dato sensoriale, primitivo, sarà l’elemento costruttivo di base di una nuova figuratività. Questa nuova figuratività non lascia estinguere il dato sensoriale nella nozione, al contrario, impianta proprio su di esso l’intera impalcatura formale. Anche per Lisippo, come per i suoi predecessori, il percorso mentale che porta all’arte segue un processo di elaborazione che va dalle sensazioni al concetto, solo che alla fine del percorso l’apparenza è ancora li, espressa nel prodotto ultimato. Come conseguenza, sempre per mano sua, si attua anche il passaggio da un linguaggio dai caratteri prevalentemente plastici ad uno dai caratteri prevalentemente luministici, da un linguaggio scultoreo ad uno pittorico.
Lisippo è anche il primo autore a tradurre in arte la risoluzione finale relativa al problema della crisi del mito classico. Non essendoci più il mito decadono anche i legami che tenevano ancorata la raffigurazione artistica ai contenuti mitologici. Dunque non ha più senso, da Cheronea in poi, parlare di gerarchie fra singole categorie di esseri che compongono il mondo naturale, né di rivelazione. Tutti i soggetti interessano l’artista, non più soltanto quelli che contengono in maggiore o minore misura il modello ideale. Se la natura ideale è ignota, non meno ignoto sarà l’epilogo delle vicende degli eroi: tutte le storie hanno diritto di essere raccontate anche le più insignificanti.
LA NASCITA DEL RITRATTO EROICO
Parigi, Museo del Louvre
Lisippo
ERMA DI ALESSANDRO MAGNO detta ALESSANDRO AZARA (335/323 a.C.)
Copia romana
Marmo, altezza cm. 65
È da ritenersi un ulteriore e importante conseguenza della nuova impostazione lisippesca la nascita del ritratto eroico. Del soggetto ritrattato non si deve dire solo dei suoi connotati fisici, ma anche delle sue qualità morali. Cosicché la ritrattazione non ha solo lo scopo di cogliere i rapporti reali intercorrenti fra gli elementi fisionomici, ma anche quello di disporre gli stessi in modo tale da dar conto della psicologia del ritrattato. Come non vedere nei numerosi volti marmorei di Alessandro Magno l’intelligenza di una fronte spaziosa, la volitività di una bocca fremente, la fervida immaginazione di due occhi sognanti?
Roma, Musei Capitolini
Lisippo
APOXYÒMENOS (320 a.C. c.)
Copia romana dall’originale in bronzo
Marmo, altezza mt. 2,05
L’apoxyomenos non è semplicemente una statua, ma una dichiarazione di poetica. Esso rappresenta un atleta che si deterge l’olio, misto a sudore e polvere, da un braccio, con lo strigile, uno strumento particolare dalla forma di falcetto, che si passa come un raschietto intorno alle membra da nettare. È noto che durante le gare gli atleti, che gareggiavano nudi, si cospargessero il corpo di olio di oliva, non solo per rinvigorire il tono dei muscoli ma anche per ridurre l’attrito dell’aria quando questa entrava in collisione con il loro fisico sotto sforzo: in altre parole l’olio fungeva da tuta biodinamica. Con Lisippo le ombre entrano a pieno diritto nella costituzione strutturale dell’opera d’arte. Infatti le braccia dell’apoxyomenos si stendono in avanti a formare un angolo retto con il corpo per ottenere su questo un’ampia ombra portata. In un complesso di luci ed ombre l’unità della statua non è data dalla costanza della forma al di là del variare delle sembianze, bensì sono le sembianze stesse che diventano essenza. Da qualsiasi punto si osservi l’apoxyomenos risulta essere un complesso gioco di luci ed ombre che dipende dalla provenienza della luce e dal tipo di esposizione, sempre pronto a fornire nuove suggestioni. In termini metafisici questo significa che l’artista non ricerca più la forma archetipa in ciò che si cela agli occhi, ma, al contrario, la individua in ciò che gli è possibile sperimentare, ovvero le infinite modulazioni della luce.
Lisippo non destabilizza la forma ideale classica, si limita ad impiantarla su una nuova idea di essenza. Infatti l’apoxyomenos non si pone al di fuori dei canoni classici, ma li muta, li corregge, li adatta all’esperienza. Sebbene le braccia costituiscano un importante elemento destabilizzante, l’apoxyomenos è una statua perfettamente ponderata. In esso si rispetta il principio chiastico, nonché quello proporzionale, anche se in quest’ultimo l’artista propende per uno snellimento delle misure. L’apoxyomenos campeggia libero nell’ambiente circostante; con le sue braccia invade lo spazio dello spettatore e ciò rende impossibile contenerlo in una cornice immaginaria, come avveniva invece con le statue dei suoi predecessori.