ORIGINI STORICHE DELLA CIVILTÀ CLASSICA
CARATTERISTICHE DEL NUOVO INDIRIZZO ARTISTICO GRECO CLASSICO
PENSIERO ARTISTICO GRECO E NATURA DELL’ARTE GRECA
LA MIMESI GRECA
RELAZIONE DELL’ARTE CON LA SCIENZA
DIVERSITÀ DEI CAMPI DI PERTINENZA FRA ARTE E SCIENZA
PRINCIPALI PROBLEMATICHE DELL’ARTE GRECA
RELAZIONE DELL’ARTE CON LA MITOLOGIA
RUOLO CULTURALE DELL’ARTE NELL’ANTICA GRECIA
ORIGINI MITICHE DEL CAMBIAMENTO
LA NASCITA DELLA SPECULAZIONE INTELLETTUALE
LA FONDAZIONE DI MILETO
IL MEDIOEVO ELLENICO
L’ARCAISMO: ESPRESSIONE DI UNA SOCIETÀ ARISTOCRATICA
SCULTURA ARCAICA: LE STATUE VOTIVE PRE-CLASSICHE


ORIGINI STORICHE DELLA CIVILTÀ CLASSICA

Delfi, Grecia
VEDUTA DELLA ZONA ARCHEOLOGICA

L’arte greca è alla base del linguaggio occidentale antico e moderno, cioè il nostro linguaggio figurativo. Ancora oggi, benché avversata dalla cultura romantica, costituisce il patrimonio formativo di riferimento per l’intera area occidentale. Con la comparsa dei Greci sulla ribalta della storia antica cambia tutto; quella greca è la seconda grande rivoluzione artistica di tutti i tempi (la prima è quella neolitica). La svolta avviene nel giro di pochi decenni, durante un periodo di particolare splendore definito classico, ad opera di alcuni artisti, ritenuti fra i più grandi dell’intera umanità, in una regione particolare, l’Attica, in una polis particolare, Atene. Dalle prime forme arcaiche, ancora stilizzate, molto vicine a quelle delle civiltà orientali, ci si volge in epoca classica ad imitare la natura. Le cause di questo evento eccezionale, fondamentale per la formazione della nostra civiltà, ciò che ad un certo momento fa cambiare indirizzo figurativo ai Greci di 2.500 anni fa sono molti fattori concomitanti, tra cui la nascita dell’estetica.
Il cambiamento si inserisce in una fase di particolare fioritura del pensiero greco più in generale, il quale, alle soglie del V secolo a.C., inizia ad elaborare un inedito indirizzo naturalistico che s’accompagna alla speculazione filosofica dei pionieri milesi, caratterizzata da una visione antropocentrica dell’universo. Ed è proprio a causa della fioritura della cultura naturalistica che il linguaggio stilizzato arcaico si trasforma in un qualcosa di profondamente diverso, fino a diventare un linguaggio radicalmente nuovo, il linguaggio idealistico classico.

CARATTERISTICHE DEL NUOVO INDIRIZZO ARTISTICO GRECO CLASSICO

L’arte greca classica è fortemente innovativa; non si limita ad utilizzare le parole di una lingua già esistente, ma inventa nuove parole per una nuova lingua. Abbandona il sistema associativo per seguire un sistema completamente diverso, basato sulle relazioni proiettive fra immagine reale della natura e immagine virtuale dell’arte: quella greca classica è la prima civiltà a concepire l’immagine artistica come proiezione dell’immagine naturale.
Nel nuovo pensiero artistico greco l’esperienza non viene convertita dalla coscienza, ma la sua contingenza multiforme si sublima nell’universalità del concetto. Così, in architettura, il materiale da costruzione si sublima in struttura statica, in scultura i blocchi di marmo in forme geometriche espressive di spazialità universali, in pittura il chiaroscuro, l’effetto, in linea di contorno, e, chissà, non abbiamo prove a riguardo se non rarissime testimonianze, il tono in tinta.

PENSIERO ARTISTICO GRECO E NATURA DELL’ARTE GRECA

Per gli antichi Greci l’aspetto esteriore dell’infinita varietà delle cose che costituiscono l’universo discende da un numero ristretto di modelli formali, poche forme base, primigenie, in sé perfette, le stesse per tutti, semplici, oltre le quali non si può andare: cioè la morfologia di ogni essere di questo mondo discende da degli archetipi, dei principi formali comuni. Ai canoni di questi principi ogni singola cosa cerca di adeguarsi per raggiungere la perfezione. Essendo l’arte lo strumento preposto alla definizione della perfezione formale tutta la natura guarda all’arte per conoscere il proprio modello archetipo.
Questo modello appartiene alla natura e più precisamente al suo piano ideale, che è piano oggettivo, esterno all’uomo, autonomo. Essendo di natura ideale l’archetipo non si dà alla percezione dei sensi, si cela agli occhi dell’osservatore; per scorgerlo occorre andare oltre l’aspetto fenomenico della realtà contingente; bisogna arrivare al suo aspetto intelligibile e coglierlo là, nelle relazioni armoniche che si stabiliscono fra gli elementi strutturali costruttivi dell’essenza universale delle cose, al di là di ogni particolarità accidentale. Per arrivare alla definizione del modello formale l’artista greco non si limita all’uso degli occhi, ma si serve anche della mente. Infatti se la forma ideale si cela ai sensi, non si cela però all’intelletto, nel cui ordine si rispecchia l’ordine del cosmo. Questo significa che l’arte greca classica ha il suo fondamento nella natura ma il suo compimento nella mente umana. Da ciò se ne deduce che il naturalismo idealistico classico non è, in ultima analisi, un prodotto tutto mentale: in altri termini l’artista greco si occupa di definire l’essenza universale delle cose.
Per essenza universale s’intende la forma primigenia da cui ogni cosa deriva, privata di ogni particolare superfluo e che è per tutti la stessa: nel caso dei Greci, le forme archetipe, le idee primigenie da cui discendono le forme particolari, depurate dei dettagli che ne potrebbero contaminare la purezza.
In questo quadro relazionale la natura risulta essere una copia incompleta dell’archetipo, mentre l’arte, che risulterebbe copia incompleta della natura, grazie alla mimesi riesce a fornire una copia dell’archetipo, altrimenti invisibile. L’archetipo non è frutto della fantasia personale del singolo artista, ci sono delle precise regole, dei procedimenti canonizzati che consentono di definirlo.

LA MIMESI GRECA

Al piano ideale della natura si giunge attraverso un’operazione particolare, detta “mimesi”.
Letteralmente mimesi significa imitazione, ma la mimesi greca non è affatto un processo di pura e semplice copiatura della realtà naturale. Dice Aristotele (384-322 a.C.) a proposito della mimesi che le cose si possono fare meglio di come sono, peggio di come sono, o come sono. In effetti in questa famosa frase ci sono sintetizzati i principali indirizzi seguiti dall’arte greca classica, ma questo non specifica esattamente in cosa consiste il procedimento per arrivare all’archetipo.
Tale procedimento consiste di fatto in una serie di passaggi operativi ben precisi, cioè si tratta di un vero e proprio metodo per arrivare alla definizione della forma ideale. In esso si trasformano le sensazioni visive in complesso di concetti che fissano l’essenza delle cose particolari, quindi si deriva dalle coppie di termini estremi, opposti, il termine medio ideale. In altre parole si può dire che per i Greci ricercare la forma artistica significa ricercare la forma ideale della natura, in quanto questa si riflette in quella.
Ad esempio volendo adottare il procedimento mimetico per definire la forma primigenia, il principio formale dell’occhio di un uomo, da cui derivano le forme particolari degli occhi dei singoli individui, si inizia con l’analizzare un campione di occhi umani che tenga conto della più ampia variabilità di caratteri. Nell’analisi dei singoli occhi si risale dalla sensazione alla forma singola ricorrendo a tutta una serie di particolari espedienti per eliminare le componenti variabili quali i colori e le luci accidentali, i piccoli difetti fisici ecc., insomma tutti quegli elementi che potrebbero in qualche modo disturbare la determinazione certa della forma particolare. Terminata questa prima fase analitica si passa ad una seconda fase, di raffronto delle singole forme particolari. In questa fase si prendono in considerazione le forme estreme opposte, ad esempio gli occhi a mandorla e gli occhi a palla, se ne misurano gli assi principali, quindi se ne fa la media matematica, e si ottiene così la forma ideale dell’occhio.

RELAZIONE DELL’ARTE CON LA SCIENZA

Il procedimento mimetico contempla dei momenti che inducono l’operatore ad un atteggiamento di tipo scientifico: infatti, il fine gnoseologico dell’arte chiama in causa la scienza.
Stando alla mimesi l’arte si esprime nelle dimensioni ideali delle forme generatrici di tutte le forme particolari di ogni creatura dell’universo, forme provenienti dal confronto delle forme particolari che occupano le estremità opposte di ogni singola categoria di oggetti. Le forme particolari di ogni oggetto a loro volta scaturiscono da un lavoro di semplificazione il cui scopo precipuo è quello di far pulizia di ogni particolare superfluo.
Per forma propria della singola cosa s’intende la forma dell’essere, cioè la forma reale di ogni specifico oggetto. Questo significa che l’essenza universale, cioè la forma ultima, che è per tutti la stessa, non può essere determinata senza avere chiara la forma reale di ogni singola cosa particolare. E la forma reale di ogni cosa particolare deriva dalla trasformazione delle sensazioni in concetti che contengano una buona dose di verità, cioè siano dei dati. Dunque nella mimesi rimane implicato un problema scientifico di definizione dell’essere, e la ricerca della forma ideale contempla, per definizione, la ricerca del vero; e la ricerca del vero è compito che spetta alla scienza. In conclusione l’arte prevede l’intervento preliminare della scienza.
Bello e vero dipendono dalle certezze che si possiedono, e le certezze che si possiedono discendono, nell’antica Grecia, da due fonti principali, dalla cultura razionale, che si esprime nell’astrazione teorica, e dalla cultura storica, che si esprime nella stratificazione dell’esperienza accumulata di generazione in generazione attraverso il lavoro artistico: il che corrisponde alla distinzione di un bello razionale e di un bello storico. Massimi creatori di questi due tipi di bello sono Policleto di Argo, per quanto riguarda il primo, e Fidia, per quanto riguarda il secondo.

DIVERSITÀ DEI CAMPI DI PERTINENZA FRA ARTE E SCIENZA

Da quanto detto a proposito della mimesi, risulta evidente che sia un vero e proprio metodo scientifico, affine ai metodi usati in statistica. Ma l’obiettivo principale che s’intende raggiungere con l’adozione di questo metodo rimane pur sempre legato alla sfera suggestionale, e ciò basta ad escludere la scienza, la quale rifugge dalla suggestione per attenersi al freddo dato documentario. Non solo. Nella mimesi la forma subisce un processo di epurazione dai particolari superflui, dai dettagli, cioè una semplificazione; la morfologia dell’oggetto subisce continue smussature che la conducono ad assumere aspetti più semplici e puri possibili. Nella scienza, invece, questo non avviene, in quanto contravverrebbe a quelli che sono i suoi fini istituzionali, e dal momento che è suo compito precipuo attenersi all’esperienza, si impone alla forma scientifica il mantenimento del dettaglio, seppur semplificato. La mimesi poi non si propone unicamente di descrivere in termini universali quello che l’occhio documenta, ovvero non vuole tradurre in termini intelligibili univoci e generali i termini visivi del linguaggio fenomenico e basta, cerca piuttosto nell’immagine il segno d’appartenenza dell’essere singolo all’essere universale, primigenio, generatore, e cioè il suo essere forma assoluta, prima ed eterna, nell’indeterminatezza dello spazio infinito, quindi, il senso di suggestione che questo dato puro provoca nell’uomo.
Il compito dell’artista greco non si conclude con la ricerca di un’altra forma con caratteristiche diverse da quelle empiricamente rilevabili ma allo stesso tempo rispettosa dei dati dell’osservazione, si spinge oltre, cerca di ricreare i momenti di particolare suggestione provocati dalla contemplazione delle forme pure, archetipe e delle loro relazioni metriche. Dunque, anche in una cultura estetica in cui sono fuse arte e scienza come la greca antica si distinguono due diverse sfere di pertinenza: alla scienza la sfera descrittiva, all’arte quella suggestionale. Ma al di là di tutte queste spiegazioni non bisogna dimenticare assolutamente che in quel periodo la scienza procurava piaceri e sensazioni puramente artistiche, non solo, ma veniva vissuta in modo del tutto emotivo.
Che le differenze però fra i due settori sussistevano anche per gli antichi Greci ne sono testimonianza i piccoli accorgimenti strutturali dettati dalle minuscole correzioni ottiche che i costruttori dei templi curavano per rendere più vive e plastiche le loro opere. Per non parlare poi della stessa ponderazione e del chiasma: provate un po’ a ottenerli applicando semplicemente delle regole? Per i Greci, dunque, l’arte sta proprio in questa imponderabilità che è al di là di ogni teoria, al di là di ogni precetto, in quel limite sottile lasciato all’abilità soggettiva dell’artista.
Una cosa comunque resta fondamentale nella differenza fra arte e scienza, anche se in questo periodo i confini delle due discipline non sono ben delineati, ed è che, come in una sorta di filosofia strutturata per immagini invece che per parole, l’arte si occupa di ciò che va oltre la pura e semplice nozione, si occupa di strutture metafisiche, ipotizzabili, ma non verificabili scientificamente: e ciò esula dal campo istituzionale della scienza.

PRINCIPALI PROBLEMATICHE DELL’ARTE GRECA

Se il compito dell’arte greca è quello di cogliere le misure fra gli elementi strutturali che definiscono l’essenza universale della natura, cioè la misura nel dato scientifico inconfutabile, depurato dai particolari trascurabili, il problema che si porrà agli artisti greci riguarda in primo luogo lo stabilire in che cosa consiste la misura artistica, se in un rapporto numerico, un rapporto tramandato dalla cultura, un dosaggio chiaroscurale o cromatico; in secondo luogo lo stabilire a quale cultura ricorrere, o, se si preferisce, a quale credenza appellarsi per definire il dato. Cioè se ci si deve rifare alle idee geometriche innate, alle nozioni storiche tramandate attraverso altre opere o testi scritti, oppure ci si deve rifare alla propria esperienza. Si apre così la problematica strumentale, che consiste nello stabilire quale mezzo interpretativo adoperare per misurare i reciproci rapporti fra gli elementi strutturali dell’immagine essenziale dell’essere. Naturalmente le risposte possono essere diverse; e sarà proprio questa diversità a caratterizzare le opere dei diversi autori. I principali strumenti a cui si farà ricorso saranno, come avremo modo di vedere in seguito, la matematica e la geometria, la storia dell’arte, l’esperienza visiva.

RELAZIONE DELL’ARTE CON LA MITOLOGIA

Le tematiche dominanti nell’arte greca sono strettamente connesse alla mitologia, e questo naturalmente perché essa è chiamata ad offrire i suoi servigi soprattutto nelle grandi costruzioni pubbliche come i templi. Ma non è solo questo. C’è un legame ancora più viscerale di quello che lega le tematiche dei fregi alla storia leggendaria del popolo greco, ed è quello che lega il linguaggio figurativo alle divinità, agli eroi e all’uomo. È la caratteristica principale dell’arte greca, ovvero prendere a soggetto delle sue rappresentazioni solo l’uomo e quegli esseri riconducibili direttamente a lui e alle sue imprese. Per capire questo motivo bisogna addentrarci nei meandri, complicatissimi, della mitologia greca.
Il mondo greco, come quello di tutte le antiche civiltà circum-mediterranee, è un mondo fatto di uomini, divinità e natura. Ma in Grecia, diversamente che altrove, non bisogna essere a tutti i costi un faraone o il re di un intero popolo per avere incontri ravvicinati con gli dèi; anche gli uomini comuni, non solo i nobili, possono averli. E poi tra uomo e divinità c’è un rapporto così stretto che si arriva addirittura al punto di generare una discendenza, gli eroi.
Tra le varie componenti della “piramide mitologica” sussiste una sorta di gerarchia formale che dispone tutto secondo un ordine che va dal meno perfetto al perfetto. Al primo livello si trova la natura; al secondo il meglio della natura, l’uomo; al terzo il meglio degli uomini, l’eroe; all’ultimo il meglio in assoluto, la divinità. Nella concezione greca la divinità è vista come un’umanità perfetta, priva di quei problemi che affliggono i comuni mortali, primi fra tutti la malattia, la vecchiaia, la morte. Essendo l’arte ricerca della perfezione e aumentando la perfezione con l’avvicinamento alla divinità ecco spiegato perché essendo l’uomo l’essere più vicino alla divinità è anche il soggetto dove si esprime la perfezione divina e dunque soggetto privilegiato dell’arte.
La natura con i suoi cicli e l’uomo con le sue vicende sono a tutti gli effetti cose che si muovono, che si trasformano, immerse in una dimensione spazio-temporale indipendente, ovvero sono una pluralità in divenire. In quanto cose esse possiedono, o comunque assumono, forme proprie, anche se continuamente variabili. Ma questa molteplicità mutevole, pur essendo soggetta alle leggi della casualità, aspira, tenta di adeguarsi ad un modello, un progetto, un’idea, che è per ogni essere unica e immutabile: l’archetipo. Essendo l’archetipo l’idea generale da cui discendono tutte le singole cose particolari esso non può presentare elementi contraddittori, squilibri, eccessi di pregi o difetti, ovvero tutti quegli elementi che contraddistinguono invece i singoli individui; per comprendere veramente tutto esso deve costituire il termine medio di tutto. La divinità come componente dell’ultimo livello non può che identificarsi con l’archetipo stesso.
Come natura ideale la divinità non solo vive una condizione ideale al di fuori delle vicissitudini umane, ma incarna la forma ideale. L’uomo, e qui sta il bello, essendo fra tutti gli esseri quello che si avvicina di più alla perfezione divina, anzi è del tutto simile alla divinità, riflette nelle sue forme la forma ideale, l’archetipo; in particolare gli eroi, coloro che fra tutti gli uomini sono i più simili agli dèi. Insieme alle divinità essi vivono una storia leggendaria che proprio a causa dell’olimpica influenza diviene storia ideale, mito; divinità ed eroi rappresentano l’ideale della natura, e la storia che essi vivono l’esito ideale delle azioni umane.
Storia ideale significa storia da cui è stato tolto tutto ciò che è accidentale, insignificante, ovvero tutto quello che non serve a spiegare l’etica profonda che anima ogni vicenda: la vittoria della ragione sul cieco istinto. Per gli antichi Greci l’arte è anche il mezzo a cui ci si affida per narrare visivamente le vicende dei leggendari eroi del passato mitico, o meglio, per riportare il passato leggendario nella vita di tutti i giorni, per ricordare la costante vittoria della civiltà occidentale sulla barbarie dei popoli d’Oriente.
Si affaccia così, per la prima volta, sulla ribalta della storia dell’arte, sottoforma di conflitto fra libero arbitrio e incondizionata obbedienza, il conflitto fra Oriente e Occidente, barbarie e civiltà, immutabilità e progresso, e l’arte greca ne è la prima raffigurazione in assoluto.
A differenza delle soluzioni adottate in campo figurativo dalle altre culture dell’epoca per inchiodare il passato al presente in Grecia non si ricorre al peso fisico della dimensione colossale dei personaggi effigiati, ma al peso psichico della nozione.

RUOLO CULTURALE DELL’ARTE NELL’ANTICA GRECIA

Heraklion, Creta, Museo Archeologico
TRIADE DI DRERO (VIII sec. a.C.)
Bronzo

Delfi, Grecia Museo Archeologico
KOUROS DI DELFI (VII sec. a.C.)
Bronzo, altezza cm. 19,7

Siracusa, Sicilia, Museo Archeologico
XÓANA (VII sec. a.C.)
Legno, altezza cm. 16-17

Ricapitolando quel che è stato detto fin qui si può affermare quanto segue: nell’ambito del quadro ideologico appena descritto, l’arte diviene lo strumento attraverso cui si opera la costruzione dell’immagine dell’uomo e delle sue vicende in modo tale che ad ogni punto dell’archetipo corrisponda un punto ben preciso dell’immagine artistica. Questo in ottemperanza alla concezione che vuole l’arte come processo di ricerca della forma ideale della natura e degli esiti ideali dei suoi cicli, nel loro essere unico, essenziale ed eterno, al di là di ogni apparenza mutevole, particolare e contingente. Quindi il ruolo peculiare che compete all’arte nell’ambito della cultura greca è quello di definire l’essere archetipo, o meglio di determinare l’esatta corrispondenza fra essere ideale e apparenza. Questo, in altri termini, vuol dire che in Grecia fare arte non significa solo cogliere i rapporti di assonanza che legano tra loro gli elementi strutturali dell’immagine del soggetto, ma significa anche organizzare gli elementi strutturali medesimi in modo tale da soddisfare l’esigenza d’individuazione e comprensione dell’essere universale ed eterno.

ORIGINI MITICHE DEL CAMBIAMENTO

Le radici del linguaggio rivoluzionario ellenico sono da ricercare nell’epopea di Ettore e Achille, Agamennone e Priamo, Menelao e Paride, Elena e Andromaca, e ancor più in là, in quella di Dedalo e Icaro, di Minosse e il Minotauro, di Teseo e Arianna.
Cosa rimane delle opere dei mitici artefici di questo periodo leggendario? Nulla. Per conoscere le radici culturali del nostro linguaggio figurativo dobbiamo guardare le opere realizzate dai discepoli di Dedalo, o meglio da quegli artisti che operano nella scia della tradizione dedalica. Di tali opere ne restano poche, per questo sono preziosissime. Alcune si trovano custodite nel Museo di Delfi, come l’Apollo di Mantiklos e il kouros di Delfi, rinvenuto a Creta; entrambe risalgono al VII secolo a.C. e sono in bronzo. Del Museo archeologico Nazionale di Atene è la kòre detta “di Nikandre” realizzata in marmo di Nasso, delle dimensioni di un uomo, spessa 17 cm., la statua più antica in marmo a dimensioni naturali che ci sia pervenuta; del Louvre di Parigi è la cosiddetta “dama di Auxerre”, in calcare.
Tutte queste statue si ispirano alle xóana, immagini di divinità scolpite nel legno e diffuse per tutto il Mediterraneo, comprese le nostre coste. A Palma di Montechiaro, nei dintorni di Agrigento, sono state rinvenute qualche tempo fa 3 statuette lignee, di 16-17 cm., del VII secolo a.C., delle xóana ricavate direttamente dal tronco degli alberi. Di xóana ce ne parla Pausania, il quale ci riferisce che ne esistevano ancora ai suoi tempi (II secolo d.C.). Come le xóana le statue di Delfi, Atene e Parigi hanno un aspetto rigidamente frontale, sono ieratiche e piatte, pensate come se fossero dei bassorilievi liberati dalla lastra di fondo; la loro anatomia è ridotta a forme geometriche semplici, triangoli e rettangoli; l’articolazione delle parti è ben rimarcata; il modellato è robusto ed essenziale.
Il più antico manufatto dedalico ritrovato fino ad oggi è conservato nel Museo di Heraklion, a Creta. Si tratta della cosiddetta Triade di Drero, un gruppo bronzeo dell’VIII sec. a.C., formato da 3 statue raffiguranti molto probabilmente 3 divinità: Apollo, insieme alla sorella Artemis e alla madre Latona.
Nel caso della Triade di Drero non si parla di xóana, ma di sphyrelaton, un tipo di manufatto votivo ottenuto con una tecnica molto diffusa nell’antico Oriente. Questa tecnica consiste nel martellamento di lamine di metallo (nel caso greco bronzo) intorno ad un’anima di legno precedentemente scolpita. Questa tecnica, oltremodo laboriosa, andò rapidamente in disuso per via dell’utilizzo della tecnica di fusione a cera persa, molto più adatta al raggiungimento di standard decisamente più fedeli al vero con dispendio di tempo ed energie assai inferiore.
Cosa si può dire dunque sulla base di queste remotissime testimonianze riguardo all’arte dedalica? Dedalo partendo dall’interpretazione cretese-micenea dell’arte come stilizzazione simbolica ritorna all’idea egizia di un’arte che si rivela nel simulacro, non si sente, si contempla, non si vive. Ma c’è una novità. La stilizzazione diventa sempre meno allusiva e si comincia a trasformare in rappresentazione idealizzata del mondo naturale. È l’alba del linguaggio occidentale; ma non sarà Dedalo ad inventare le parole del nuovo lessico.

LA NASCITA DELLA SPECULAZIONE INTELLETTUALE

Prima della nascita del pensiero filosofico razionale tutti i popoli dell’antichità avevano un solo strumento a disposizione per rispondere e risolvere i misteri che angosciavano la loro coscienza: il mito. I miti sono storie particolari in cui fatti veri e fatti inventati s’intrecciano in modo talmente naturale da risultare alle orecchie di chi li ascolta fatti realmente accaduti. Ad esempio si ricorre al mito per spiegare l’origine del mondo, così come pure l’origine delle varie etnie, nonché per giustificare il potere. Ma come è possibili che queste antiche genti credessero seriamente a delle favole? L’unica spiegazione plausibile è che essi avevano la certezza che questi racconti contenessero in sé elementi della loro storia più remota.
I primi uomini a dare il via alla ricerca sistematica di risposte razionali ai fenomeni naturali apparvero fra i Greci alla fine del VI secolo a.C. Da quell’istante il mondo fino ad allora conosciuto cominciò a cambiare. Con loro le grandi verità della fede religiosa vengono sottoposte al vaglio della ragione e si ha così l’inizio della speculazione filosofica. Dunque un nuovo spirito nasce fra i Greci della fine del VI secolo a.C., uno spirito che vuole indagare su tutto, su ogni aspetto della vita, anche sul divino.
Il pensiero dei primi filosofi naturalisti non nega l’esistenza di forze invisibili, padrone dell’universo, né intende opporsi al diritto dovere dell’uomo di pagare tributi in segno di riconoscimento della sovranità divina sui luoghi da lui stesso abitati. La novità della concezione di questi personaggi consiste nell’attribuire all’uomo lo status di essere autonomo e nel concedergli il diritto di indagine su qualsiasi argomento, anche quello divino; e non ad un solo uomo o a pochi privilegiati, ma a tutti gli uomini in quanto tali.
La speculazione intellettuale dal campo filosofico passa agli altri campi dello scibile, compresa l’arte in generale. In particolare, per quanto concerne le arti visive, il nuovo spirito, il primo che si possa definire interamente scientifico, si mette ad indagare il rapporto uomo – immagine – natura, e lo indaga talmente bene da portare le nuove generazioni post-arcaiche al rifiuto di esprimersi mediante i linguaggi della tradizione. Esse vogliono risalire alla fonte originaria di tutte le interpretazioni storico-mitologiche, cioè vogliono ricondurre il principio dell’arte alla natura. Dunque non è un caso che proprio tra i Greci della fine del VI secolo l’arte inizi a mutare.

LA FONDAZIONE DI MILETO

La rivoluzione culturale greca ebbe inizio nella colonia ionica di Mileto (il Mileto ionio, da non confondere con il Mileto cretese), sulle coste sud occidentali della Turchia, in Caria, per opera dei primi filosofi naturalisti greci. Della fondazione di Mileto ce ne parla la mitologia. Ma anche in questo caso ci si trova di fronte a numerose versioni dello stesso mito. Fra le tante ci si limiterà a ricordare quella che vuole Mileto figlio di Apollo e di Acalle (o Acacallide), terza figlia di Minosse, e quella che lo vuole figlio di Asterio e fratellastro di Minosse.
Il Mileto nipote di Minosse fu costretto a riparare in Caria per sfuggire alle attenzioni dello stesso nonno, il quale, ignorando chi egli fosse in realtà, si era innamorato di suo nipote; mentre il Mileto fratellastro di Minosse fu costretto all’esilio in terra caria in seguito ad un contenzioso su una questione di legittimità riguardo alla successione al trono di Creta.
Prima di chiamarsi Mileto la città si chiamava Anactoria e il suo re Anacta. Dopo l’arrivo degli esiliati cretesi la città venne ribattezzata Mileto, o in relazione al nome del giovane o in ossequio alla omonima città cretese.

IL MEDIOEVO ELLENICO

La rivoluzione iconica greca non inizia con la storia dell’arte greca, inizia con la fase “severa” del periodo classico nelle regioni centrali dell’Ellade, e si compie ad Atene con la ricostruzione dell’Acropoli. Prima di quest’epoca c’è stato un lungo periodo in cui il linguaggio figurativo greco non si discosta molto da quello dei più recenti linguaggi dei Paesi Orientali, però se ne differenzia per alcuni piccoli ma importanti particolari, dove gli esperti vi ravvisano i primi segni del cambiamento.
Stando alla storia dell’arte il linguaggio ellenico compare nel VII secolo a.C., ovvero dopo il cosiddetto Medioevo ellenico. Il Medioevo ellenico è un periodo lungo 4 secoli, compreso fra il 1200 a.C. e l’800 a.C., epoca in cui, in Occidente, architettura, scultura e pittura si erano praticamente estinte. I primi elementi del linguaggio occidentale dunque vengono alla luce dal buio più profondo della storia delle civiltà pre-cristiane, prendono forma in un’epoca senza forme, all’improvviso, come d’incanto. Gli stessi antichi Greci devono ricorrere alla mitologia per spiegare il sorgere quasi magico della loro arte. La nuova civiltà greca nasce dal vuoto che ha fatto seguito alla sfolgorante stagione micenea, periodo in cui scompaiono i palazzi e la scrittura e si torna alla barbarie. Causa di questa lunga fase di oblio e depressione fu la discesa di nuove popolazioni nomadi ancora più selvagge di quelle achee degli inizi: i Dori. Ma come è possibile che una civiltà fatta di eroi come quella micenea abbia potuto soggiacere, poco tempo dopo la distruzione di Troia, agli attacchi di una popolazione rozza come i Dori?
L’ipotesi che individua le cause del cedimento nell’indebolimento dovuto alle ingenti energie profuse nella guerra di Troia è errata. Si trattò piuttosto delle conseguenze politiche prodotte dal fatto che l’aristocrazia micenea era costantemente in guerra. Infatti i nobili delle cittadelle achee con i capi e le guardie del corpo avevano probabilmente perso ogni contatto con i coltivatori al punto da non poter fare più affidamento sulla loro fedeltà di soldati. Questo li portò ad una condizione di debolezza difensiva in caso di attacco massiccio di popolazioni tribali dove tutti gli uomini erano anche guerrieri.

L’ARCAISMO: ESPRESSIONE DI UNA SOCIETÀ ARISTOCRATICA

Delfi, Grecia, santuario di Apollo pizio
VEDUTA DEI RESTI (fondato in epoca arcaica)

Le prime manifestazioni figurative del nuovo pensiero greco vanno ricercate nelle opere dell’età arcaica. A documentarne le caratteristiche peculiari di questo periodo ci sono architettura e scultura; la pittura è andata inesorabilmente perduta.
Il termine arcaico deriva dal greco archàios, vocabolo con il quale nel V secolo a.C. i due grandi storici Erodoto (484-426 a.C.) e Tucidide (460-395 a.C. c.) indicano l’antichità, relativamente al loro tempo. Tre sono i principali stili plastici di quest’epoca; nell’ordine di definizione: dorico, ionico e attico. Nelle statue doriche le idee archetipe sono ben evidenti e articolate come in una struttura architettonica; nelle statue ioniche si fondono in un’unica, palpitante struttura luministica. Originali rispetto ai prodotti della statuaria dorica e ionica, i prodotti della scultura attica sono intenzionalmente indirizzati a creare forme che tengano in più alto conto la struttura fisica della natura umana.
Dove vi sono grandi civiltà a segnare la storia anche l’abisso fra le rispettive società è grande. Cosicché fra l’universo miceneo di Omero, rappresentativo di una società dominata dall’aristocrazia guerriera, e quello classico di Pericle, rappresentativo di una società dominata dalla borghesia, l’abisso è grande, tanto da farli sembrare due mondi popolati da genti dalle origini completamente diverse. Di questa diversità i compatrioti di Pericle dovevano esserne ben consci dal momento che sentirono il bisogno di rimarcare la differenza fra gli dèi della propria epoca e quelli dell’epoca precedente, ritenuti sopravvivenza di credenze primitive di popoli dalle usanze barbariche. Questo però non significò per loro rinnegare automaticamente le proprie radici; al contrario, significò invece cercare una continuità con quel passato.
Indipendentemente dalle ipotesi, comunque sta di fatto che il passaggio dall’età arcaica a quella classica non è spiegabile nei termini di una continuità storica in senso progressivo verso l’imitazione della natura, come si è voluto vedere fino a non molto tempo fa in molti testi di storia dell’arte; non c’è continuità, ma cambiamento di rotta nelle generazioni di artisti che attuano il passaggio dal periodo arcaico al periodo classico, passaggio dove si va precisando sempre più l’espressione della consapevolezza della corrispondenza biunivoca fra la forma delle cose e l’immagine mentale che di esse se ne fa l’uomo: cioè si vanno sempre più delineando i caratteri del pensiero umanistico greco.

SCULTURA ARCAICA: LE STATUE VOTIVE PRE-CLASSICHE

Atene, Museo Archeologico Nazionale
KOUROS DI MILO (540 a.C. c.)
Marmo di Nasso, altezza mt. 2,14

Per i Greci dell’epoca arcaica, non diversamente che per gli altri popoli antichi, l’arte sorge dalla tradizione mitizzata. Nella Grecia arcaica l’influenza dell’arte orientale su quella autoctona è ancora molto forte. Tuttavia, anche se i prodotti della giovane cultura ariana recano ancora forte l’impronta degli elementi strutturali del linguaggio stilizzato mesopotamico, ad un esame più approfondito essa presenta delle piccole ma sostanziali novità. Ad esempio, alla fine del VI secolo, la statuaria, più che le forme di un essere mitico idealizzate sulla base di canoni rituali, cerca di condensare, nel duro marmo, il risultato della ricerca di equilibri tra forme universali primigenie, dalle quali discendono tutte le forme particolari della natura. La forma artistica arcaica non è però lo specchio della forma naturale; è un’idea astratta che ha assunto sembianze umane. Queste forme scaturiscono da una diversa concezione del mondo e dell’arte, in virtù della quale l’artista opera alla luce della ricerca di un’armonia formale fra le parti e il tutto, che tenga maggior conto dell’esperienza visiva. I risultati di questa nuova impostazione sono fondamentalmente diversi, sebbene le parti mantengano l’aspetto di volumi di figure solide geometriche semplici evocatori di nomenclature orientali. La materia si dispone con ordine nello spazio senza mai cedere ad alcuna tentazione, né drammatica, né lirica, ma assumendo sempre una sorta di composta dignità. Ciononostante c’è ancora troppa rigidità, troppa staticità, i movimenti sono meccanici, le movenze marziali, lo sguardo fisso nel vuoto, privo di espressione umana. Eppure, in mezzo a tanta permanenza stilo-schematica simbolistica si notano alcuni particolari che proiettano la statuaria greca nella modernità. Uno di questi è rappresentato, ad esempio, dall’aumento del numero delle statue che raffigurano personaggi umani divinizzati.
Il kouros di Milo è una statua in stile ionico, dello stesso periodo di Anassimene (585–528 a.C. c.) e Pitagora (570 a.C. c. – 495 a.C.), eppure rispetto al nuovo pensiero naturalistico e scientifico di questi filosofi sembra indietro di secoli; ma la cosa è solo apparente. Infatti se ci si addentra nell’analisi visiva dei particolari si vede bene come in essa è già presente il nuovo principio naturalistico che lega la forma all’essenza universale della natura. Il suo studio ci permette di capire cosa intendessero i Greci per ricerca dell’essenza universale.
Il kouros di Milo, benché rappresenti un essere umano e non una divinità, prende a modello la scultura religiosa del Vicino Oriente. A prima vista sembra un idolo come tanti altri, eppure in lui c’è qualcosa di nuovo che lo rende diverso dalla statuaria sacra levantina. Questo qualcosa di nuovo è il senso della vita che sembra emanare dal suo corpo di marmo, meno rigido rispetto ai simulacri orientali, rappresentato in una postura meno rituale, più naturale. Questo “senso della vita” è ottenuto mediante alcuni accorgimenti stilistici particolari, quali la maggiore flessuosità delle braccia e la tornitura delle membra che danno un tocco di naturalezza alla legnosità dei movimenti: è ormai chiaro che ci troviamo di fronte ad un uomo idealizzato, non più di fronte alla materializzazione di un essere divino in sembianze naturali. Nella cultura egizia le forme naturali erano riservate ai personaggi di rango inferiore; nella cultura greca arcaica i comuni mortali si levano al rango superiore delle divinità senza perdere con ciò la loro caratteristica di esseri umani. È l’espressione di una nuova concezione del rapporto uomo – divinità – natura, cioè l’espressione di una nuova visione del mondo, una visione che risente di una religiosità più umana, più naturale e dei primi sintomi del naturalismo filosofico. Ma è anche l’espressione di una nuova poetica, che pone nella natura il principio dell’arte.
Le forme naturali sono infinitamente complesse, ma per quanto complesse possano essere dipendono sempre dalla combinazione di due categorie di figure solide fondamentali: quelle a superfici piane e quelle a superfici curve. Compito della scultura consiste nell’individuare queste figure, controllando, attraverso il modellato, l’esposizione alla luce delle superfici informi della materia grezza. Ora, le suddette superfici possono essere orientate verso due tipi di contatto luminoso a seconda della sensibilità dell’artista: uno ruvido e immediato, in cui la luce urta sulla superficie, rivelando in modo netto e diretto la forma primigenia; l’altro morbido e filtrato, in cui la luce s’intrattiene più o meno a lungo sulla superficie per arricchirla di sfumature e permettere all’occhio di gustare i suoi infiniti giochi con la materia, prima di scivolare sulla superficie di quest’ultima e giungere all’individuazione delle forme primigenie. Cosicché nel primo caso avremo una ricerca di valori plastici, mentre nel secondo una ricerca di valori pittorici. Nella visione ionica si segue il secondo orientamento; il primo si segue invece in quella dorica. Nella visione ionica l’ideale viene inteso come bilanciamento fra un complesso di forme che si rivelano lentamente dopo essere state esposte a lungo alla luce naturale.
Questi due indirizzi proseguiranno oltre il periodo arcaico per raggiungere la massima espressione nell’interpretazione degli artisti del V secolo.
Nel kouros di Milo si capisce benissimo come gli autori non intendano affatto rispettare i canoni della statuaria tradizionale, che in quel periodo è ancora largamente influenzata da quella egizia e mesopotamica; né gli interessa imitare il corpo umano. Ciò che gli interessa è, al di là di ogni schema precostituito, ma anche al di là di ogni copia veristica, definire le forme più semplici, quelle appartenenti al patrimonio culturale dell’umanità intera e non alla cultura di un solo popolo in particolare, a cui è possibile ricondurre, sempre, l’aspetto formale di ogni singola creatura, per quanto strana e irregolare possa essere. Infatti le forme delle varie parti che costituiscono il corpo del giovane più che rimandare all’anatomia, rimandano alla geometria: il valore estetico della statua sta nei solidi con cui si identifica la forma primigenia assoluta. Quali sono questi solidi?
Il volto è plasmato sul modello dell’ovale; il busto è invece un tronco di cono che si salda dolcemente fra le basi superiori, inclinate anch’esse, delle gambe cilindriche. Il collo, che ha il delicato compito di collegare la forma sferoidale della testa con quella tronco conica del busto, è un giunto cilindrico di raccordo fra due masse compatte il cui inserimento avviene senza provocare brusche interruzioni nella continuità dei collegamenti fra le singole parti e il tutto; anche le braccia sono tornite sul modulo del cilindro. Insomma si può dire in sintesi che nella cultura ionica l’archetipo del corpo umano si configura nel fluido passaggio fra diversi tipi di solidi della stessa famiglia, quella dei solidi di rotazione.
L’insistenza della corrente ionica sulle figure tornite si spiega con il bisogno che ha questa di rifornire la statua di una superficie su cui la luce fluisca dolcemente, scivoli senza ostacoli, dopo essersi soffermata a qualificarne l’aspetto esteriore con modulazioni di luce e ombra che richiamano episodi naturali, quali le singole membra del corpo. Per trattenerla più a lungo si ricorre a piccoli espedienti come l’introduzione di particolari quali treccioline, nel caso dei kouroi, o pieghe di chitoni, nel caso delle kòrai. Non così per la corrente dorica, per cui il forte rilievo deve evidenziare, in modo inequivocabile, l’articolarsi delle parti col tutto.
L’interpretazione in senso naturale della forma geometrica, e non in senso soprannaturale come avviene invece nella statuaria orientale, in genere, si chiarisce ancor più quando si passa a considerare le dimensioni del giovane efebo le quali superano di poco i 2 mt. di altezza. Certo un’altezza superiore alla media, ma non impossibile da riscontrare negli uomini; non gigantesca, non sovrumana, bensì statura umanissima anche se eccezionale. Come le dimensioni dei templi anche quelle di divinità ed eroi sono assai più commisurate agli standard umani che a quelli sovrumani.

Atene, Museo Archeologico Nazionale
Polymèdes di Argo
KLÈOBIS (610 a.C. c.)
Proveniente dal santuario di Apollo a Delfi
Marmo di Paro, altezza mt. 2,16

Il kouros che ci apprestiamo ad analizzare ora è universalmente noto come Klèobis, ed ha un gemello quasi del tutto identico, conosciuto col nome di Byton; entrambi sono in stile dorico e appartengono allo stesso periodo di Talete (624-546 a.C.) e Anassimandro (610-546 a.C. c.).
Chi sono Klèobis e Byton?
Siamo ad Argo, tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. È un giorno di festa e ci si appresta a sacrificare ad Hera, ma il carro rituale è privo dei buoi che lo devono trainare fino al tempio. La sacerdotessa addetta a presenziare la funzione è disperata; la vedono i suoi due figli, i gemelli Klèobis e Byton, i quali si offrono a fare da buoi per trasportare il carro rituale fino al tempio per garantire lo svolgimento della funzione. Lo sforzo a cui si sottopongono è sovrumano e una volta arrivati al tempio si accasciano privi di sensi. Affranta, la mamma sacerdotessa si rende conto di non poter far altro che chiedere alla dèa di dar loro una morte tranquilla, senza sofferenza; e la dèa l’esaudisce. Gli Argivi in onore al sacrificio dei due giovani fanno realizzare dallo scultore Polymèdes (?) due statue in marmo dell’isola di Paro, nelle Cicladi, e le offrono in voto ad Apollo.
Questa la storia riportataci da Esiodo (VIII-VII sec. a.C.); ma cosa rappresentano queste due statue dal punto di vista critico?
Nella visione dorica l’ideale viene interpretato come equilibrio fra un complesso di forme primarie che si rivelano immediatamente all’occhio nell’impatto diretto con i fattori luminosi ambientali, secondo un orientamento di tipo plastico. La testa di Klèobis si forgia sul modulo della sfera; il tronco è un cuneo trapezoidale che s’innesta con la base minore fra le basi superiori, inclinate, dei due tronchi di cono addossati che costituiscono le gambe della statua; il collo, che collega la forma sferoidale della testa con quella tronco trapezoidali del busto, è un punto di giunzione cilindrico che richiama l’articolazione architettonica fra il colonnato e la trabeazione del tempio dorico. Si può dire quindi in sintesi che l’archetipo del corpo umano nella cultura dorica si configura in un articolarsi di solidi prismatici con solidi di rotazione.

Atene, Museo Archeologico Nazionale
KOUROS DI CAPO SUNIO (inizio VI secolo)
Marmo, altezza mt. 3,40

I kouroi non sono tipici della produzione ionica e dorica. Alquanto enigmatica è la collocazione critica dell’efebo ritrovato nel mare della punta orientale dell‘Attica, nei pressi di Capo Sunio.
Pressoché contemporaneo alle statue di Polymedes, si discosta notevolmente da queste per la sua evidente ascendenza orientale. Tentativo di dirottamento verso una matrice asiatica dell’arte attica? O prodotto di uno scultore di formazione culturale indiana? La seconda ipotesi non è tanto assurda quanto potrebbe sembrare in un primo momento: infondo i Greci erano un popolo di origine indoeuropea.