A ROMA A CACCIA DI FANTASMI
I FORI
LE ORIGINI
LE PRIME TESTIMONIANZE VOTIVE
LA LEGGENDA DI ROMOLO E REMO
LA FONDAZIONE DI ROMA
LE PRIME “MEMORIE” ROMULEE
PERIODO MONARCHICO
I PRIMI TEMPLI DEL FORO
PRIMO PERIODO REPUBBLICANO
GLI ANNI DIFFICILI
SCULTURA ARCAICA
I ROMANI E L’ARTE
Roma
VEDUTA DEL FORO ROMANO
A Roma prosegue e si conclude il ciclo storico del linguaggio occidentale antico. Se ad Atene se ne inventa l’anima idealistica è a Roma che l’arte classica muta nella versione definitiva greco-romana, ed è a Roma che si dissolve sotto l’incalzare del cristianesimo. A Roma si delinea e si compie anche il destino dell’altra anima del linguaggio occidentale, quella realistica e anticlassica.
La storia dell’arte romana rientra nel quadro della storia del linguaggio classico in terra italica. I primi contatti con l’arte greca risalgono all’epoca dell’egemonia etrusca sulla città, all’epoca dei Tarquini. Con l’avvento della repubblica l’influenza greca aumenta in maniera direttamente proporzionale allo sviluppo dei rapporti commerciali con la Magna Grecia e con il continente ellenico, dopodiché con la conquista dei regni ellenistici l’arte classica diventa l’arte ufficiale dello stato romano. Dall’incontro del linguaggio romano con quello greco nasce il linguaggio greco-romano, il latino classico. Il linguaggio filo-ellenico non sostituisce però definitivamente il linguaggio romano preesistente, coesiste; quest’ultimo sopravvive in provincia e fra la plebe. Il contatto della corrente ellenistica col linguaggio plebeo da origine al latino anticlassico, opposto a quello greco-romano di matrice classica. I due latini convivono per alcuni secoli l’uno affianco all’altro, poi, in seguito al diffondersi di nuove religioni provenienti dalle province orientali, il latino anticlassico e popolare si trasforma in linguaggio paleocristiano, mentre quello classico si eclissa. Per conoscere da vicino la straordinaria storia dell’arte romana, dal suo inizio aniconico al gigantismo monumentale del periodo tardo-imperiale, approdiamo con la Nuova Argo alle porte della Città Eterna e dirigiamoci verso i ruderi del Foro Romano per andare alla ricerca dei fantasmi del passato capitolino.
Il fato ha voluto che Roma da piccolo villaggio di pastori e agricoltori diventasse la più grande potenza del mondo antico e da città iconoclasta si trasformasse nel centro propulsore della cultura figurativa dell’intera civiltà occidentale. Ma prima che Roma diventi il nuovo centro d’irradiazione della cultura occidentale l’ambiente romano è tutt’altro che favorevole all’arte.
Ogni civiltà ha scritto la propria storia in luoghi particolari. Gli Egizi l’hanno scritta lungo le sponde del Nilo, i popoli d’Oriente nelle città costruite in mezzo al deserto, i Greci sulle acropoli; i Romani l’hanno scritta nei fori. Nei fori, che furono il “centro” di Roma antica, si trovano infatti monumenti che oltre ad avere un valore testimoniale altissimo per la storia e l’archeologia ne hanno uno altrettanto rilevante per la storia della cultura figurativa dell’antica Roma.
Purtroppo pochissimo materiale di quello che doveva costituire il centro più frequentato del mondo antico è giunto fino a noi. Usura, incuria, saccheggi perpetratisi nel tempo hanno menomato, degradato, deturpato questa preziosa testimonianza del passato, riducendone gli imperiali resti in un cumulo di ruderi. Tuttavia è possibile, facendoci aiutare dall’immaginazione, ricostruirne mentalmente gli edifici, le statue, le decorazioni parietali che ne delineavano l’aspetto esteriore.
I fori, in sé, non sono altro che spazi pubblici polifunzionali, l’equivalente delle piazze medievali e dei moderni “centri” cittadini; ma sarebbe un errore ridurli solo a questo. Essi rappresentano molto di più che semplici piazze: sono le quinte privilegiate che fanno da sfondo a oltre undici secoli di storia; è il luogo dove vengono conservate sottoforma di pietra scolpita le credenze e le memorie storiche di un intero popolo.
A Roma, così come si confà ad una grande città, ce ne sono più di uno, distinti secondo due tipologie fondamentali: i fora venalia e i fora civilia. I primi sono sostanzialmente dei mercati; i secondi sono spazi destinati prevalentemente allo svolgimento di funzioni pubbliche quali quelle politiche e religiose, ma anche alla trattazione di affari, al commercio e all’amministrazione della giustizia. Col passare del tempo e l’aumento del peso politico di Roma, prima nella penisola poi nell’intero Mediterraneo, si trasformano in centri monumentali.
I fori si distinguono anche sulla base dei periodi storici in cui hanno visto la luce. Così abbiamo i fori repubblicani e i fori imperiali. In linea di massima, i primi sono delle grandi estensioni, in genere delle aree rettangolari, delle corti, circondate da edifici pubblici e monumenti; i fori imperiali sono costituiti da grandi cortili circondati su tre lati da portici a più ordini e chiusi sul quarto da un tempio.
I più noti fino ad oggi sono per i “fora venalia” di epoca repubblicana: il Boario (il mercato del bestiame), l’Olitorium (il mercato delle verdure), il Piscarium, o Piscatarium (il mercato del pesce), il Cuppedinis (il mercato degli alimenti rari); per i “civilia”: il più grande di tutti, il foro Repubblicano o Foro Romano propriamente detto. Per quelli imperiali abbiamo: il foro di Giulio Cesare, quello di Augusto, di Nerva, di Traiano (il più grande in assoluto) e di Vespasiano (quest’ultimo ancora sotto via dei Fori Imperiali).
Il complesso dei fora civilia si svolge in una valle delimitata a nord-ovest dal colle Capitolino, a sud-est dal Palatino e a nord-est dal complesso Quirinale – Viminale – Esquilino.
Come dice Ovidio (43 a.C.-17 d.C.), l’area dove sorge il Foro Romano era un tempo una zona paludosa, al centro della quale si trovava una distesa d’acqua stagnante, denominata in seguito “lago Curzio”, solcata a sud dal Velabro, uno dei tanti ruscelli avventizi che si andavano a gettare nel Tevere passando per le estensioni prative che si aprivano ai piedi dei sette colli. In questa valletta malsana le prime comunità di pastori, insediatesi sulla sommità dei poggi tufacei, scendevano per seppellire i loro morti. E infatti sono proprio le semplici tombe a pozzetto a costituire i reperti archeologici più antichi rinvenuti nell’area del Foro: siamo intorno al X – IX secolo a.C.
Il Tevere divide il territorio della zona in due: la sponda destra è di pertinenza degli Etruschi, mentre quella sinistra è di pertinenza dei Latini. La zona dei fori nel X e XI secolo a.C. non è affatto una valle solitaria, ma un territorio già discretamente popolato da agricoltori e pastori. Intorno ad essa gravitano parecchie popolazioni, fra cui, oltre ai Latini, gli Arcadi (forse), i Sabini (molto da presso), gli Equi e i Volsci (alla lontana). Sui colli si erano andati formando già da un paio di secoli insediamenti stabili. A testimonianza di questi insediamenti agro-pastorali a sud-est del colle Palatino, ai piedi del tempio della Magna Mater, si sono ritrovate le impronte di un antico insediamento risalente al IX secolo a.C. Si tratta di un accampamento fatto di capanne di paglia e fango, sostenute da otto pali in legno, simili in tutto e per tutto alle capanne degli attuali popoli africani primitivi. Il calco di queste impronte è oggi visibile al Museo della Civiltà Romana, a Roma. Nel Museo Palatino è possibile vedere una ricostruzione dell’insediamento, compresa la forma complessiva delle capanne. Di loro ci si può fare un’idea molto vicina al vero guardando anche alle urne cinerarie che riempivano i pozzetti di sepoltura scavati nella Valle del Foro.
Non si sa con esattezza a quale particolare etnia appartenessero le singole comunità insediatesi sui primi colli, il Capitolino e il Palatino. Stando a Virgilio (70-19 a.C.) sul Palatino abitavano i discendenti di Evandro, il re esule dall’Arcadia che accolse Enea profugo da Troia; ma è molto più probabile che sul suddetto colle ci fossero pastori latini. L’unica cosa certa è che erano tutte popolazioni appartenenti ad un’unica cultura, quella che gli archeologi classificano come laziale.
A tale convinzione si è giunti dal modo in cui seppellivano i morti: l’incenerivano e li mettevano dentro urne dalla forma particolare, vasi tondeggianti con coperchi a forma di cono, oppure a forma di capanna. Insieme alle urne venivano sepolti anche oggetti in metallo e terracotta dalla forma di armi e attrezzi in miniatura; il tutto veniva sistemato dentro un contenitore a forma di anfora, il dolio, quindi sotterrato. A mo’ di segnale per individuare il punto della sepoltura venivano lasciati in superficie alcuni piccoli oggetti. È dunque il settore funerario una delle primissime fonti dispensatrice di motivi e soggetti per l’attività figurativa. Ma si tratta di manufatti di piccole dimensioni e di scarso impatto estetico, oggetti o che non vedeva nessuno o poco appariscenti.
Fra le varie etnie non ci sono grossi problemi di vicinato se si eccettuano ricorrenti furti di bestiame. Su tutte emergono gli Etruschi, una progenie che già da allora si dimostra ben più progredita delle altre stirpi italiche. Non molto lontano, ad Ostia, ci sono le saline, strutture indispensabili per un popolo formato in prevalenza da allevatori di ovini; tutto intorno i boschi di querce assicurano la vita alla selvaggina e ai maiali, allevati allo stato brado. Il Tevere è già un fiume largamente frequentato e utilizzato come via commerciale; presso l’Isola Tiberina s’incrociano le quattro vie principali di comunicazione fra est e ovest (nodo Salaria-Ostiense), nord e sud (nodo Aurelia-Appia) del centro Italia. Mancano però gli utensili di ferro, a cui si sopperisce con l’abbondanza di quelli fatti in bronzo.
La vita attiva si svolge principalmente nel foro Boario e nell’Olitorio, strutture che si sono andate formando spontaneamente presso l’unico punto di guado fra le due rive del Tevere. L’area del Foro Romano rimane un’area appartata, dalla forte vocazione sacrale e funeraria; in essa avviene l’incontro fra il mondo umano e quello soprannaturale.
Non esistono monumenti (e per un bel pezzo non ce ne saranno), né, di conseguenza, statue votive. Ciò non significa però che non ci siano culti religiosi. Buona parte di essi sono incentrati su divinità importate dall’Oriente. In questa epoca è già attiva l’ara dedicata ad Ercole nel foro Boario, collocata alle spalle dell’attuale chiesa di Santa Maria in Cosmedin. Questo altare si ricollega alla vicenda mitica che vede protagonista Ercole, i buoi di Gerione e il mostro Caco; presso la sua mensa si svolgono riti che hanno lo scopo di scongiurare i furti di bestiame.
Nella suddetta zona, secondo una versione della leggenda, Caco, un pastore furbacchione, dipinto come un mostro sputafuoco, approfittando del momentaneo appisolamento di Ercole, cercò di rubargli i buoi che Gerione gli aveva affidato. Per depistare l’eroe, che una volta risvegliatosi si sarebbe sicuramente messo alla ricerca degli armenti, Caco prese i buoi per la coda e li trascinò all’indietro, verso una grotta sita vicino all’ara. L’intento era quello di lasciare impronte che indicassero una direzione diametralmente opposta a quella effettivamente seguita dalle bestie. Ma il Conan dell’antichità non ci cascò e accortosi dell’inganno punì in modo esemplare il pastore ladro.
Un altro rito pre-romuleo è quello legato al sacello di Venere Cloacina, luogo contrassegnato oggi da un circolo appena percettibile, ai margini della via Sacra, laddove la stessa si confonde con la lastricatura della piazza del Foro.Qui, molto prima della fondazione di Roma, le fazioni che entravano in conflitto si purificavano con rami di mirto, pianta sacra a Venere.
Abbastanza nota è anche l’ara dedicata a Saturno, collocata alle spalle della tribuna dei Rostri Imperiali. Il culto di Saturno nel Lazio era molto antico. Si dice che fossero stati i Pelasgi, i mitici popoli del mare, a portare il culto in Italia, nonché a costruire l’altare nel Foro. Ma i dati archeologici dicono che l’altare in questione risale all’inizio del VI secolo a.C., dunque all’epoca di Tarquinio Prisco. L’unico altare arcaico che è pervenuto completo dei suoi annessi è il cosiddetto Volcanal, il quale altro non è che un altare dedicato a Vulcano. Il luogo sacro è contrassegnato solo da un’ara quadrata aperta su un lato, un ceppo iscritto e una base. Il cippo risale al 570 a.C. circa, dunque all’epoca di Servio Tullio, e si trova di fronte alla curia Iulia, sepolto sotto un grande lastricato nero detto il Niger lapis. Grazie ad esso ci possiamo rendere conto di come i Romani primitivi esprimessero visivamente le proprie credenze religiose. Le aree sacre venivano contrassegnate soprattutto mediante elementi naturali; non v’è ombra di raffigurazioni votive. Il motivo è senz’altro da ricercare nel particolare tipo di religione, animistica, seguita dai Latini durante l’epoca arcaica. Tuttavia non bisogna credere che sia completamente assente la raffigurazione votiva. Probabilmente questa è limitata alla produzione di simulacri domestici come le immagini di lari e penati, e comunque riguarda manufatti di dimensioni assai ridotte perché si possa parlare di statuaria vera e propria.
Roma, Palatino
VEDUTA DELLE PENDICI PALATINE CON LA ZONA DEL LUPERCALE
Fatto il quadro storico-sociale e artistico della situazione pre-romulea possiamo passare ora alla fondazione di Roma.
La leggenda della fondazione di Roma, come tutte le leggende, presenta più versioni. Quelle più autorevoli sono la versione di Virgilio e la versione di Livio (59 a.C.-17 d.C.), in cui c’è l’esplicito tentativo di rendere più razionale possibile la tradizione. Non bisogna però dimenticare i passi più fantasiosi che da sempre hanno costituito alimento apprezzatissimo dall’arte e che sia Virgilio che Livio si sono premurati di escludere dal loro racconto.
La trama tradizionale vuole che la storia di Roma abbia inizio sotto un fico detto “ficus ruminalis” (il fico ruminale), posto di fronte ad un antro chiamato il Lupercale perché sacro al fauno Luperco. Questa grotta, oggi scomparsa, si trovava alle pendici del colle Palatino, sul versante prospiciente il Velabro, proprio laddove l’altura volge il fronte alla valle Murcia (la valle del circo Massimo). Tale versante fu poi distinto dal Palatino propriamente detto con il termine di Cermalo, parola derivante da germano, ovvero gemello. Sotto il fico ruminale Romolo e Remo vengono depositati dalle acque del Tevere in fase di ritiro dopo un poderoso quanto provvidenziale straripamento, avvenuto proprio nei giorni della loro nascita. Infatti fu proprio la tracimazione del fiume a indurre i servi incaricati di uccidere i due gemelli dall’usurpatore Amulio, zio della madre Rea Silvia, ad abbandonarli in una cesta nelle acque stagnanti, invece che lasciarli in balia della corrente dove sarebbero sicuramente morti.
Questo fico sacro fu trapiantato all’epoca di Tarquinio Prisco (616-579 a.C.) dall’augure Atto Navio in un’aiuola posta al centro del foro Repubblicano, nonché ritrapiantato in epoca augustea dal pretore urbano Lucius Naevius Surdinus, esattamente laddove sorge oggi un albero della stessa specie accanto ad un ulivo e ad un tralcio di vite.
La leggenda prosegue con una lupa, la quale avvicinatasi ai margini di una pozza melmosa per bere, attratta dai vagiti, scopre i due neonati abbandonati nella cesta. Presa fra l’impulso di divorarseli e quello di allattarli, contrariamente a tutte le aspettative, cede all’istinto materno e li adotta. Ma mentre offre le mammelle ai gemelli viene sorpresa da Faustolo, un pastore che sta conducendo al pascolo le greggi del re. Questi intenerito dalla situazione prende su i due lattanti e li porta alla moglie Acca Larenzia, la quale prosegue il compito iniziato dalla lupa. Un’altra versione, meno fantasiosa, ci parla solo di Faustolo e della moglie, soprannominata “la lupa” in quanto donna dedita alla prostituzione.
Divenuti dei giovani belli e forti, Romolo e Remo si fanno subito notare per le innate doti di temerarietà e intelligenza tattica. Come fossero dei Robin Hood si aggirano per i boschi che circondano l’amena valle del Foro, armati di tutto punto, per rubare ai ladroni e donare ai loro amici pastori. Ovviamente agendo in questo modo diventano presto famosi tra la propria gente, mentre risultano invisi ai malintenzionati e a tutti coloro che intendono vivere di abigeato.
Fattisi adulti, decidono di vendicare l’usurpazione del trono di Albalonga subita dal nonno Numitore per mano del fratello Amulio, nonché l’atroce fine della madre Rea Silvia.
Restituito il legittimo re ad Albalonga, arriva anche per loro, ormai uomini maturi, il momento di fondare una nuova città.
La fondazione di una città all’epoca di Romolo e Remo non è per niente un fatto semplice: non si prende un aratro, si traccia un solco nel terreno e ci si proclama re. Si segue invece un preciso rituale. La prima cosa da fare è scrutare il cielo in cerca di segni che manifestino la volontà degli dèi. Perciò si scelgono i luoghi meglio esposti: a Roma i colli. Una volta giunto il parere favorevole, si aggioga una coppia di buoi ad un aratro e in solenne processione si segnano i confini della nuova città: il pomerio. Il pomerio, che vuol dire dopo il muro, non è un semplice confine, ma è un limite sacro. Una volta terminata questa operazione preliminare si può iniziare a costruire. Così fece Romolo, così avrebbe fatto Remo se la sorte non avesse deciso diversamente.
Com’è consuetudine in quest’epoca, nel caso in cui vi sono più pretendenti alla fondazione di una città, per decidere chi ne ha diritto si ricorre alla pratica del “birdwatching”. La regola vuole che il solco lo tracci chi tra i pretendenti ha visto a fine giornata più uccelli augurali. Così una mattina Romolo e Remo salgono sul colle Aventino e si mettono a scrutare il cielo verso oriente. Il primo avvistamento lo fa Remo, che dalla sua postazione sul mons Murcus (Aventino piccolo), vede sopraggiungere sei avvoltoi da Sud-Sud-Est, quindi dalla parte destra: e questo porta male. Poco dopo dall’Aventino Romolo ne avvista dodici, provenienti da Nord-Est, quindi dalla parte sinistra: e questo porta bene. Stando alle regole aruspicine spetta a Romolo il diritto di tracciare il solco della città. E così fu: era il 21 Aprile dell’anno 753 (o 754) a.C.
Cosa rimane di questo solco? Contrariamente a quanto si pensa la Roma di Romolo, la “Ruma quadrata”, non è posta sulla sommità del Palatino, ma comprende un’area assai più ampia che si snoda nella piana sottostante. Nel suo perimetro rientrano il Palatino, il Capitolino, la Velia e la valle del Foro. I suoi confini vanno dall’ara di Ercole all’ara di Conso, al lato opposto del circo Massimo, quindi da questa alle antiche Curie, sul versante del Palatino prospiciente l’arco di Costantino, per finire al tempietto dei Lari, presso il tempio di Vesta. Del pomerio oggi non v’è più che una esigua ma importantissima traccia sul versante del Palatino che da sulla Velia.
Se sia veramente questo il famoso perimetro della “Ruma quadrata” di Romolo non si sa, è certo invece che risale all’epoca di Romolo e che va a rinsaldare il processo di estensione dell’area urbana alla valle del Foro, con conseguente spostamento sul colle Esquilino del cimitero, ferme restando all’interno del nuovo perimetro urbano le sole sepolture dei bambini. Altra cosa sicura è che non è stato lui a tracciarlo: è ormai accertato che Romolo e suo fratello gemello Remo non sono mai esistiti. Comunque Romolo o non Romolo tracce della fondazione di Roma ce ne sono, sicure.
Divenuto re, per Romolo iniziano i guai e con essi anche gli eventi miracolosi attraverso cui si risolvono. Ora la sua Ruma ha un piccolo difetto: è popolata di soli uomini; urgono le donne. Non c’è tempo per il corteggiamento, occorre passare immediatamente ai fatti; per questo si pensa al rapimento di massa. Fra le donne dei vicini si punta sulle sabine, ed è così che avviene il proverbiale “ratto delle sabine”. Naturalmente ai Sabini la cosa non piace affatto cosicché danno battaglia ai Latini di Romolo. Il conflitto si consuma nella piana del Foro, esattamente nei pressi del “lago Curzio”, così chiamato in memoria di un certo Mettius Curtius.
Parentesi: qui, stando ad un’interpretazione, Mettius Curtius, cavaliere sabino, riuscì a salvarsi per miracolo dal pantano in cui era finito mentre stava lottando contro Romolo, mentre secondo un‘altra versione, Mettius Curtius, cavaliere romano, nel 362 a.C., per salvare la patria si gettò, armato, così come aveva sentenziato un oracolo, in una voragine apertasi all’improvviso nel Foro. I Romani a memoria di tale avvenimento recintano la pozzanghera storica e la contrassegnano con una stele commemorativa. Augusto la fa prosciugare e al suo posto ordina di installare una grande lastra di marmo sulla cui superficie fa ritagliare l’imboccatura della voragine. Chiusa parentesi.
La battaglia ingaggiata contro i Sabini non ha affatto un esito scontato, Romolo stesso rischia la vita dopo essere stato colpito da un sasso. In seguito a questo incidente i Latini, rimasti momentaneamente privi di comando, si stanno per ritirare, quando ad un certo punto, invocato dal loro re, interviene Giove in persona ad arrestarli. Non è chiaro ancora in quale punto esatto del Foro accadde il fatto, o nei pressi dell’arco di Tito, o nei pressi del cosiddetto tempio di Romolo. A memoria di questo evento “miracoloso” Romolo fa innalzare un’ara votiva a Giove Statore, cioè Giove arrestatore, sulla quale successivamente farà innalzare un tempio.
Di questo tempio non è rimasto nulla. Forse la base: un mucchio di sassi cementati, nelle immediate vicinanze dell’arco di Tito, o un nucleo pietroso che fa da fondamenta all’attuale tempio di Romolo, comunque da ricollegare entrambi ad un rifacimento postumo.
Roma
CLOACA MAXIMA (iniziata nel VI sec. a.C.)
Pietra senza malta
La scomparsa di Romolo avviene nel 717 a.C. ed è, come si addice ad un personaggio leggendario, avvolta nel più fitto mistero. Infatti il fondatore di Roma non se ne va come tutti gli esseri mortali. C’è chi lo vuole svanito durante una tempesta scoppiata nel corso di una parata in piazza d’armi, a campo Marzio; c’è chi lo vuole dissolto presso il Volcanal, che da allora venne considerato un luogo nefasto e perciò sepolto sotto il Niger Lapis. Tutti gli storici però sono tacitamente d’accordo sulla vera causa della sua scomparsa: viene assassinato dagli stessi patres per sbarazzarsi di un re divenuto ormai onnipotente.
Dopo Romolo si susseguono per un certo periodo di tempo alternatamene re latini e re sabini. Ai suoi successori di stirpe sabina si devono importanti istituzioni, ma scarse costruzioni di rilievo artistico: fa parte degli antichi Latini e Sabini dare poca importanza all’aspetto esteriore delle cose per via della loro religione dai tratti ancora spiccatamente animistici.
Legata al nome di Numa Pompilio (753-673 a.C.) è la Regia, centro del potere e residenza del re. Con lui la piana del Foro inizia a trasformarsi da zona di battaglie e sepolture in area residenziale e centro direzionale della nuova città. Stando all’archeologia la Regia di Numa non è altro che una capanna in tutto simile a quelle effigiate nelle urne cinerarie. La tradizione attribuisce a lui l’istituzione delle vestali con relativa fondazione del tempio dedicato a Vesta. Ma come è ben noto, è sempre la tradizione a dircelo, le vestali e le loro inquietanti regole già esistevano prima che nascessero Romolo e Remo (la loro mamma era una vestale).
A Tullo Ostilio (710-642 a.C.) si deve la prima curia, la curia Ostilia, situata ai piedi dell’arx capitolina, i cui resti sono oggi sepolti sotto la chiesa dei Santi Luca e Martina. Ad Anco Marcio (o Marzio, 678-616 a.C.) si deve il celeberrimo ponte Sublicio, collocato più o meno dove attualmente si trova il moderno ponte Palatino: ma stiamo ancora parlando d’ingegneria civile piuttosto che di architettura. Ad Anco si deve pure la prima delimitazione del comizio, tracciata seguendo criteri di pura funzionalità pratica. In realtà l’area era stata già demarcata da Romolo all’epoca della guerra latino-sabina, ma si trattava solo di terra battuta contrassegnata da un bordo rialzato.
Da quanto detto fin qui appare evidente che dai primissimi insediamenti di Latini e Sabini al quarto re, Anco Marcio, l’arte non è di casa a Roma. Ciò è da mettere senz’altro in relazione con la religione, la quale in materia di divinità non sente affatto il bisogno di oggettivare il sacro in simulacri dalle sembianze antropomorfe. Ne è esempio il simulacro aniconico della Magna Mater Cibele, costituito da una pietra nera.
Le prime opere monumentali e le prime statue si hanno a partire dal 616 a.C. con l’insediamento del primo re etrusco Tarquinio Prisco (616-578 a.C.). Dotato di tutt’altra formazione rispetto ai suoi predecessori, nonché sensibilità per l’arte (era figlio di Demarato di Corinto, greco trapiantato in Italia) il lucumone della leggenda fa compiere alla cultura estetica romana, fino a quel momento aniconica, il primo passo avanti verso l’iconismo artistico. A lui (per lo meno la tradizione gliela attribuisce) si deve un’impresa ingegneristica che si rivela di straordinaria importanza anche per la storia dell’arte: la bonifica della valle del Foro mediante la costruzione della Cloaca massima. Con questa imponente opera la vallata si trasforma e diventa, mano a mano che passa il tempo, sempre più il centro vitale, il cuore pulsante dell’antica Roma e il luogo dove si scriverà la sua straordinaria storia civile e artistica.
La Cloaca maxima è un‘opera immensa per l’epoca. La galleria arriva a toccare oltre i 4 mt. di altezza e oltre i 3 mt. di larghezza; si snoda ad una profondità che raggiunge i 10 mt. circa. È dotata di una volta a tutto sesto formata da tre arcate sovrapposte fatte con grossi blocchi di tufo che si reggono tra loro senza bisogno di malta cementizia. Nata come sistema di drenaggio, ben presto viene utilizzata come impianto di raccolta e convogliamento delle acque sia bianche che nere, funzione svolta tutt’oggi nonostante i secoli accumulati. A Tarquinio Prisco si deve anche la ricostruzione della Regia in pietra. Questa, che va a sostituire quella di Numa Pompilio, era costituita da un ampio cortile trapezoidale sul quale si affacciavano tre ambienti allineati tutti su un lato. Dopo l’intervento di Tarquinio Prisco la Regia viene ristrutturata almeno altre tre volte. I resti oggi visibili si riferiscono naturalmente all’ultimo intervento. Della ristrutturazione tarquiniese, forse, rimane un pezzo di lastra fittile in cui v’è raffigurato un Minotauro fra due pantere. Con l’avvento della repubblica, si trasforma da residenza regale a edificio deputato allo svolgimento di particolari funzioni. Dentro le sue stanze si conservava il primo dei sette talismani della grandezza di Roma, i dodici ancilia, cioè gli scudi a forma di otto, e la lancia di Marte.
Oltre alla già ricordata bonifica della valle del Foro, Tarquinio Prisco si dedica alla sistemazione della valle Murcia, dove, al posto del quartiere latino fondato da Anco Marcio, costruisce il circo Massimo, un’arena che arriverà ad ospitare fino a 350.000 spettatori, riservata ai giochi e alle corse dei cavalli. Il circo Massimo fu edificato per inaugurare i Ludi Magni, dedicati a Giove Capitolino. La struttura incappa in vari incidenti: va a fuoco per ben due volte e gli spalti cedono in più di una occasione. All’epoca di Antonino Pio (138-161 d.C.) il crollo delle gradinate causa la morte di oltre mille persone, mentre al tempo di Diocleziano (284-305 d.C.) ne periscono 13.000.
Il suo nome è collegato anche ad un’altra importantissima impresa costruttiva: fu sotto il suo regno che si iniziò a erigere il più imponente tempio della Roma arcaica, il tempio di Giove Ottimo Massimo.
Roma, Museo della Civiltà Romana
TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO (509 a.C.)
Plastico schematico
Il Foro Romano, spina dorsale dell’intero sistema politico capitolino, è strutturato all’inizio intorno a due vie che corrono parallele tra loro: il vicus Iugarius ed il vicus Tuscus, ovvero via degli Iugari e via degli Etruschi. Queste due vie ricalcano il corso del Velabro, divenuto con i Tarquini il corso della Cloaca massima. Il vicus Iugarius univa il centro forense con il foro Olitorio, mentre il vicus Tuscus con il foro Boario. Le due strade giunte in vista dell’area cultuale si univano alla via Sacra. La via Sacra collegava la piazza del Foro con il Campidoglio, dove sorgeva il tempio di Giove Ottimo Massimo, il maggiore tempio della Roma arcaica. Il centro della piana era poi collegato al complesso Quirinale-Viminale-Esquilino dall’Argiletum (oggi via Nazionale), l’asse viario che introduceva alla suburra, il quartiere popolare dell’antica Roma.
Del famoso tempio di Giove Ottimo Massimo, uno dei più importanti edifici sacri di Roma, non ci sono rimasti che alcuni, poderosi massi ciclopici relativi alle fondazioni, attualmente visibili lungo la via del tempio di Giove, nel piazzale Caffarelli, e all’interno del Museo Capitolino. Dal punto di vista politico testimonia della raggiunta egemonia di Roma in materia religiosa su tutto il territorio laziale. Il tempio di Giove Ottimo Massimo sostituiva a tutti gli effetti il tempio di Giove laziale che si trovava sul monte Albano, ovvero Monte Cavo, e che era lo stesso per tutti i popoli latini. Viene inaugurato nel 509 a.C., anno di nascita della repubblica; quindi Silla lo fa completamente ricostruire nell’82/81 a.C.
Il tempio originario, opera di architetti etruschi, era di ordine tuscanico. La struttura ricalcava quella dei maggiori templi tusci e i materiali usati per la sua costruzione erano gli stessi: legno per colonne e architravi, tufo per i muri, terracotta per le parti decorative. Misurava 53 mt. di larghezza per 63 mt. di profondità. Il fronte principale era orientato verso sud; il naos si ergeva su un robustissimo podio ed era suddiviso in tre spazi dedicati nell’ordine a Minerva (Atena), Giove (Zeus) e Giunone (Hera), triade divina introdotta dallo stesso Tarquinio Prisco in sostituzione della precedente, formata da Marte (Ares), Giove e Quirino (divinità locale). Sui fianchi del naos tripartito si ergeva un peristilio fornito di sei colonne tuscaniche, che si andava a interrompere bruscamente sulla parete di fondo, quella esposta a nord; sul fronte invece il tempio presentava un pronao costituito da una tripla fila di sei colonne ciascuna. Il tetto, dai forti spioventi, portava al centro della sommità un acroterio raffigurante Giove su una quadriga, mentre la statua di Giove Capitolino assiso sul trono campeggiava nella cella centrale. Era questa una statua modellata dal celebre Vulca di Veio, l’autore dell’Apollo di Veio, uno dei rarissimi artisti arcaici di cui ci sia giunto il nome. Anche la statua di Giove, come quella di Apollo, era in terracotta. Il signore dell’Olimpo era abbigliato come un sovrano etrusco, con la corona d’oro in testa, con la tunica purpurea bordata e la tebenna, il tipico mantello arrotondato; in mano teneva il classico scettro con aquila in resta, simbolo del potere supremo.
Roma, Foro Romano
TEMPIO DI SATURNO (497 sec. a.C.)
Roma, Foro Romano
TEMPIO DEI CASTORI (484 a.C.)
Roma, Aventino
TEMPIO DI CERERE SULL’AVENTINO (493 a.C.)
L’attività edilizia dei re etruschi continua ininterrottamente, ma si rivolge più che altro ai fori mercantili. Il momento del Foro Romano vero e proprio arriva solo con la fondazione della Repubblica. Con l’avvento della repubblica si vuole cancellare ogni traccia del passato monarchico, ma soprattutto il ricordo dei re etruschi, sinonimo di dominazione straniera; si vuole riaffermare la romanità della città, però nello stesso tempo non si vuole tornare indietro.
Le innovazioni introdotte dai re tusci non hanno cambiato l’atteggiamento dei Romani verso l’arte. Continuano a vedere nelle immagini artistiche non solo l’espressione del dominio etrusco, ma al di là, le fedeli alleate di religioni straniere e quindi possibili motivi di deviazioni dalle credenze autoctone, con conseguente corruzione dei costumi. Inoltre le statue possono provocare il culto della personalità, dunque costituire un pericolo per la saldezza e la continuità dello Stato.
I Romani della Roma repubblicana sono ossessionati dall’idea che qualcuno si possa riappropriare del potere supremo e restaurare la dittatura personale. La paura non è affatto infondata: tentativi ce ne sono stati parecchi. A questa fobia è probabilmente da collegare l’estrema cautela con cui si procede al varo delle proposte di innalzamento di statue commemorative nel Foro. Per alcuni Romani addirittura, i patrizi più attaccati alle tradizioni, l’arte è un’occupazione indegna, un lavoro per gente che non ha niente di più importante da fare, espressione di culture straniere, manifestazione di popolazioni dedite all’ozio e alla lascivia, segno di civiltà impotenti, roba da levantini: un atteggiamento che perdurerà molto a lungo. Ad esempio i Greci vengono definiti “pazzi” perché si occupano di arte e filosofia. Livio racconta che nel II secolo a.C. venne fatto distruggere un teatro a lavori ormai iniziati perché giudicato «…cosa inutile e nociva ai costumi».
La pregiudiziale ideologica verso pittura e scultura risparmia l’architettura. Motivo? È utile.
Tendenzialmente dunque nel periodo repubblicano ci sarebbero tutti i presupposti per un ritorno all’aniconismo romuleo e pre-romuleo, ma i tempi sono troppo cambiati, il popolo romano è un popolo pragmatico e, nonostante tutto, riconosce all’arte una qualche utilità. Di templi ce n’è sempre bisogno e per quanto riguarda la scultura può ben servire a fissare nel tempo i costumi morali e civili di Roma e dei suoi cittadini più valorosi, dunque può essere utile all’educazione del popolo. In termini di cultura artistica ciò significa che il nuovo linguaggio figurativo repubblicano continua la tradizione figurativa etrusca. Che l’arte abbia comunque una funzione e per questo sia tollerata è dimostrato dal fatto che anche dopo la cacciata dei Tarquini l’Urbe è sempre ricca di templi, monumenti, statue votive e commemorative. Però occorre precisare che si tratta sempre di opere severamente controllate sia negli atteggiamenti che nelle dimensioni.
In contrasto con le preferenze dei sovrani tusci, gli interventi monumentali repubblicani si concentrano nella zona delle memorie più che in quella dei commerci. I templi serviani dedicati alla Fortuna e alla Mater Matuta sono distrutti, il comizio viene ricostruito; solo la Regia, divorata dal fuoco, viene conservata, ma non già come residenza del sovrano, che non esiste più, bensì come edificio sacro adibito a particolari funzioni liturgiche.
Nel cuore di Roma antica, con i beni confiscati ai Tarquini, si erige (o viene terminato) il tempio di Saturno, svolgente anche funzioni di tesoro di stato. Dell’aspetto estetico dell’edificio originario, iniziato forse sotto il regno di Tarquinio il Superbo (regno 534-509 a.C.), non c’è testimonianza alcuna. I pochi resti che giganteggiano a sinistra dell’arco di Settimio Severo appartengono ad un rifacimento del 42 a.C.
I primi anni della repubblica non sono affatto facili; le lotte intestine ne minano continuamente le basi istituzionali. Dei contrasti interni alla “capitale” ne approfittano le altre città del Lazio per ridare vita alla Lega Latina senza Roma. La società capitolina dovrà affrontare diversi scontri con le altre comunità latine prima di riuscire a farsi riammettere nella Lega. La battaglia decisiva che ne decreta il reintegro avviene al lago Regillo, il 15 luglio del 499 a.C. E anche questa volta i Romani ce la fanno grazie ad un intervento divino.
La contesa fra i figli della lupa e gli altri latini è giunta ad un punto cruciale; tutto dipende dall’attacco della cavalleria, reparto spesso risolutivo nei conflitti. Nonostante l’incitamento del dittatore Aulo Postumio Albino (V sec. a.C.), comandante in capo delle truppe romane, i cavalieri non sembrano avanzare con la necessaria determinazione. A quel punto compaiono tra di loro i due Dioscuri, Castore e Polluce. Rincuorati da questa apparizione i soldati romani si caricano di nuova energia e si lanciano con foga sul nemico. Risultato? Una vittoria completa. Quasi contemporaneamente i due gemelli divini sono visti abbeverare i loro cavalli nel Foro, presso la fonte di Giuturna. Questa apparizione è per i cittadini dell’Urbe il chiaro annuncio della vittoria del loro esercito contro quello della coalizione latina. In seguito a ciò il trionfatore del lago Regillo decide di far erigere un tempio nello stesso luogo dell’apparizione divina. Così nel 484 a.C. nasce ufficialmente il tempio dei Castori, inaugurato dal figlio di Aulo il 27 gennaio.
Anche di questo tempio, nella sua versione originale, se ne sa poco e niente. Quel che resta oggi risale alla ristrutturazione voluta da Tiberio (14-37 d.C.) nel 6 d.C. Dalla sua enorme gradinata parlano oratori e imperatori, al suo interno i nuovi magistrati giurano l’osservanza alle leggi. Qui i censori ogni anno passano in rassegna il corpo dei cavalieri e sentenziano l’annullamento del diritto di voto per tutti coloro che se ne sono dimostrati indegni. L’edificio svolge anche la funzione di succursale dell’ufficio centrale di pesi e misure. A completamento dell’intera regia commemorativa, nei pressi della fonte di Giuturna, intorno alla metà del II secolo a.C. circa, Lucio Emilio Paolo (229-160 a.C.) fa collocare due statue di marmo raffiguranti i due figli di Zeus. Di queste statue ne rimangono oggi degli splendidi resti conservati nell’Antiquarium Forense, il Museo del Foro, che si trova a ridosso della chiesa di Santa Francesca Romana.
Prima di uscire dal V secolo a.C., una nota particolare va riservata al tempio di Cerere, Libero e Libera, il primo tempio plebeo, oggi totalmente scomparso, eretto sull’Aventino nel 493 a.C. per volontà del tribuno della plebe Spurio Cassio (540-485 a.C.). La sua eccezionalità risiede nel fatto che, contrariamente a quanto era accaduto fino ad allora, gli architetti, Damofilo e Gorgaso, non erano etruschi ma greci della Magna Grecia, e che la statua della dèa Cerere, custodita nel naos, non era in terracotta ma in bronzo.
Roma, Foro Romano
TEMPIO DI GIUNONE MONETA (345 a.C.)
Ad appena un secolo dalla fondazione della repubblica Roma ha conosciuto una serie ininterrotta di guerre, ma né la lotta intestina fra patrizi e plebei, né il lungo ed estenuante conflitto con Veio e neanche le distruzioni dei Galli sènoni riescono a piegarla e costringerla a capitolare; da ogni crisi la città trae forza per ricominciare. Unico elemento di continuità storica fra una ricostruzione e l’altra è l’arte.
Nell’anno 390 a.C., i Galli sènoni occupano Roma. La città resiste, difesa da un manipolo di coraggiosi arroccati sul Campidoglio. Il colle Capitolino è costituito da due distinte cime, il capitolium e l’arx, poste rispettivamente a sinistra e a destra di chi guarda dalla valle del Foro. Le due sommità sono divise da una depressione detta asylum, l’attuale Piazza del Campidoglio. Sull’arx, all’estremità est, c’era uno spazio, l’auguraculum, riservato all’augure per scrutare il cielo alla ricerca dei segni che esprimessero la volontà degli dèi. Dopo vari assalti falliti, i Galli tentano l’espugnazione dell’arx capitolina con un massiccio quanto improvviso attacco notturno. Tutti dormono, anche i cani e le sentinelle messe a guardia della rocca; uniche ad essere sveglie sono delle innocue oche. Queste vedendo l’avvicinarsi dei barbari entrano in agitazione e cominciano a starnazzare. Il chiasso sveglia i Romani i quali, guidati da Marco Manlio Capitolino (?-384 a.C.), si mettono ad improntare la difesa. Lo scontro è quanto mai violento, ma l’esito della battaglia vede i Capitolini vincitori e i barbari sconfitti. Da quel momento, il 3 agosto, le oche del Campidoglio avranno tutti gli onori riservati agli animali sacri agli dèi, mentre i cani, nello stesso giorno, verranno crocifissi vivi per le zampe anteriori ad una forca di sambuco. In seguito al brillante successo ottenuto Marco Manlio si monta la testa e comincia a dar segni di dispotismo. Ma i “figli della lupa” hanno un modo molto semplice e diretto per dissuadere tutti quelli che vengono colpiti dalla cupidigia del potere: li buttano giù dalla rupe Tarpea. In seguito all’accaduto, per scongiurare ogni tentativo di restaurazione del potere assoluto, il figlio di Marco Furio Camillo (446 a.C. c. – 365 a.C.), l’eroe di Veio, Lucio Furio Camillo a nome dell’intero popolo romano erige, nel 345 a.C., sulle rovine della domus di Marco Manlio Capitolino, sull’arx del Campidoglio, il tempio dedicato a Giunone Moneta, che vuol dire Giunone ammonitrice.
Roma Foro Romano
TEMPIO DELLA CONCORDIA
Il periodo che va dal 350 a.C., ovvero dalle guerre per la riaffermazione del dominio sul Lazio, al 146 a.C., cioè al termine della terza guerra punica, è di eccezionale importanza per la storia di Roma, un po’ meno per la storia dell’arte. L’edilizia monumentale pubblica continua a risentire dell’influenza greca mediata da quella etrusca e da quella della Magna Grecia.
Per suggellare la tregua fra patrizi e plebei avvenuta grazie alla promulgazione delle leggi Licinie-Sestie, Furio Camillo fonda nel 367 a.C. il tempio della Concordia.
Roma, Palatino, Museo Palatino
ANTEFISSA A TESTA DI SILENO
Terracotta, cm 26,5×19,2
Della più remota fase della storia artistica di Roma, che comprende il periodo monarchico e buona parte di quello repubblicano, di originale non rimangono che pochi frammenti di mura, residui di infrastrutture, oggetti tombali. Di arte figurativa nessuna statua e pochi pezzetti di opere plastiche legate alla decorazione architettonica, come testimoniano i reperti del Museo Palatino. La scarsezza dei resti è dovuta, come per la plastica etrusca, alla fragilità del materiale usato, la terracotta, ma è molto probabile che la scultura fosse già abbastanza copiosa alla fine dell’epoca monarchica, quando con Tarquinio Prisco si iniziano a costruire templi. Dal punto di vista stilistico sembra che fosse molto vicina alla Lastra fittile policroma con scena di corsa di carri del VI secolo a.C., proveniente dall’area del tempio della Vittoria, o all’Antefissa a testa di donna di epoca arcaica proveniente dall’area della “casa dei Grifi”, entrambe custodite nel museo.
Esteticamente il corredo templare prodotto nell’intervallo di tempo compreso fra l’anno di fondazione della repubblica e la conquista dei regni ellenistici continua a gravitare in tutto e per tutto nell’orbita della cultura tuscanica. Per avere un’idea dello stile seguito in queste raffigurazioni occorre guardare alle antefisse con testa di Giunone Sospita, ritrovate nell’area del tempio della Magna Mater, databili ai primi decenni del V secolo a.C.
Nel III secolo a.C. le decorazioni fittili appaiono molto vicine per stile alle teste di divinità ritrovate nell’area del tempio della Vittoria e sempre presso il tempio della Magna Mater, sul Palatino, raffiguranti l’una un probabile Zeus l’altra una divinità con corona di pampini, entrambe esposte nel Museo del Palatino. Per quanto riguarda il tuttotondo si sa di una statua dedicata all’augure Attus Navius, fatta collocare nel Foro, nell’antico Comizio, da Tarquinio Prisco.
Risale forse al periodo di fondazione della repubblica il simulacro ligneo di Saturno, della cui esistenza ci riferiscono le fonti storiche. Di questo manufatto non si sa altro se non che si trovava nel tempio dedicato allo stesso dio nel Foro e che era oggetto di un culto molto importante. La statua era completamente avvolta da un manto, forse di lana, e ogni anno veniva unta con olio proveniente da ulivi sacri.
Sempre nel Foro Romano, a partire dal IV secolo a.C., gli spazi liberi dagli edifici pubblici diventano il luogo privilegiato per accogliere statue onorarie di bronzo e colonne commemorative. Queste opere erano generalmente dedicate a cittadini che, rivestendo cariche pubbliche, si distinsero soprattutto per imprese militari. Fra le tante vengono ricordate in modo particolare le statue di Lucio Furio Camillo e Gaio Menio, vincitori sulla Lega Latina ad Anzio, nel 338 a.C. I monumenti onorifici divennero talmente abbondanti nell’arco di un paio di secoli che nel 158 a.C. i censori Publio Cornelio Scipione (236-183 a.C.) e Marco Popilio furono costretti a rimuoverli in massa per problemi di sovrabbondanza.
Alcune sculture forensi invece delle grandi imprese belliche celebravano grandi vittorie politiche, come quella ottenuta da Quinto Marcio Censorino, consistente nella sua elezione a censore, il primo plebeo della storia di Roma a rivestire questa carica. Nel 294 a.C., a memoria dell’eccezionale risultato, egli fece collocare nel Foro una statua raffigurante Marsia che si libera dai ceppi che gli stringono le caviglie: chiara allusione alla liberazione dalla schiavitù per debiti, uno dei più gravosi problemi risolti con l’elezione del Censorino.
Fatto assai curioso è che insieme agli originali delle opere del periodo monarchico-repubblicano, che come abbiamo visto dovevano pur essere numerose, si sono persi anche i nomi degli artefici che le hanno create. O meglio: non si sono persi, non si sono mai saputi, tranne che in qualche raro caso. Sulle possibili cause i motivi ideologici li abbiamo già visti, ora passiamo ad analizzare i motivi culturali.
Come ho già avuto modo di dire, contrariamente a quanto accadeva in Grecia e negli altri Paesi civili, a Roma l’arte non figurava fra le più importanti espressioni dello spirito umano, anzi, al contrario, veniva ritenuta un’occupazione indegna di un cittadino romano. La scarsa considerazione della cultura figurativa presso i Romani dell’epoca monarchica e repubblicana dunque spiega come mai, tranne che in alcuni rari casi, nomi di artisti romani non ce ne sono mai pervenuti; semmai di qualche artista greco, come Stephanos, Pasiteles, Menelaos, Archesilaos. Lo stesso Vitruvio (80-15 a.C. c.), l’unico architetto romano di cui ci sia giunto il nome, non è certo che fosse romano, né che abbia mai costruito qualcosa. Come per i simulacri in epoca monarchica, questo non significa che artisti romani a Roma non ve ne fossero. Certo nessun patrizio si sarebbe mai sognato di cimentarsi nella creazione di opere d’arte. Tutt’al più i plebei potevano trovar di che vivere come mano d’opera artistica nella costruzione di templi e monumenti. Ma sembra che gli artisti, tutti, romani e stranieri, non godevano di grande considerazione, e non solo presso i patrizi. Anche se ritenuto lavoro di qualità, mai e poi mai un patrizio romano avrebbe impiegato il suo tempo a concepire e plasmare opere d’arte. Di esse i “figli della lupa” si limitavano a deciderne tematiche e contenuti; sarebbe spettato poi agli specialisti, artefici appartenenti ad altri ceti, ad altri popoli, spesso schiavizzati, occuparsi della realizzazione pratica dei manufatti.
Partendo dalla stessa considerazione è possibile comprendere anche perché la civiltà romana non ha mai prodotto una cultura figurativa completamente autonoma e perché per avere uno stile che si possa definire propriamente romano occorre aspettare circa nove secoli dalla fondazione di Roma, cioè prima di vedere innalzata la colonna Traiana. Tuttavia anche in questo caso non si tratta di arte romana fatta da Romani, ma si tratta di adattamenti del linguaggio ellenistico al contesto socioculturalpopolare romano operato da artisti greci o nati nelle province romane.
Le cose iniziano rapidamente a cambiare con le prime conquiste, e soprattutto nel periodo successivo, quello imperiale. Le opere d’arte, figurando come parte dei bottini di guerra, possono assurgere a prezioso strumento per dare la misura della potenza di Roma, che poi sarebbe quella del suo capo supremo, l’imperatore, e del suo esercito. Inizia a farsi strada così una nuova concezione dell’arte: il linguaggio figurativo, nella sua qualità di ricchezza legittimamente confiscata ad un popolo sottomesso con la forza delle armi, è un patrimonio di cui il conquistatore dispone per esaltare il prestigio di Roma. L’arte ellenistica si trasforma in questo modo da mezzo di celebrazione di personaggi mitici in mezzo di celebrazione di personaggi storici, individui in carne ed ossa, che con le loro imprese si innalzano a mito. Ed è proprio questa interpretazione della funzione strumentale dell’arte uno dei principali motivi che rende l’esperienza estetica romana importante per la trasformazione storica della cultura figurativa del mondo occidentale: la prosperità, cioè Roma, non è solo affidata alla benevolenza delle sue divinità, ma anche al valore del suo apparato militare, espressione prima e concreta del potere capitolino.
Presto, alle opere autentiche esposte nel foro o portate in processione, si vanno sostituendo delle copie, più o meno fedeli, cosicché l’importanza delle immagini d’arte non sta più in quello che testimoniano al momento, ma in quello che evocano.