ROMA SISTINA, TEATRO DELL’ARTE SEICENTESCA
LA PITTURA DI GENERE
IL SEICENTO A NAPOLI
CARAVAGGIO A NAPOLI
CARAVAGGESCHI NAPOLETANI
LA PITTURA DI GENERE A NAPOLI
INTERPRETAZIONE LIRICA DEL REALISMO CARAVAGGESCO
SALVATOR ROSA E IL PRELUDIO AL PITTORESCO
IL BAROCCO NAPOLETANO: UN CICLONE CHIAMATO LUCA
IL SEICENTO IN TOSCANA
Il SEICENTO A GENOVA
IL SEICENTO A VENEZIA
IL SEICENTO LOMBARDO


ROMA SISTINA, TEATRO DELL’ARTE SEICENTESCA

Roma, piazza del Popolo
Carlo Rainaldi
CHIESA DI SANTA MARIA IN MONTESANTO (1662/1675)
CHIESA DI SANTA MARIA DEI MIRACOLI (1675/1681)

Nel Seicento Roma è il più progredito centro di elaborazione della cultura d’avanguardia e questo attira in città artisti da tutti i paesi d’Italia e d’Europa. Per l’intero secolo la Città Eterna è la capitale del Barocco, il centro propulsore da cui si irradia il nuovo linguaggio universale dell’Occidente cristiano. In virtù del suo ruolo educativo diventa una tappa irrinunciabile per la formazione degli artisti, ma anche un’ottima opportunità di lavoro. Le manie di grandezza dei papi e la loro politica culturale intesa a convertire l’Urbe capitolina in una nuova città monumentale la tramuta in un cantiere sempre aperto; si costruisce ovunque, e non solo chiese.
All’edificazione di chiese e di palazzi è legata la grande decorazione muraria, ma non è l’unico settore a tirare; c’è anche un fiorente mercato di quadri da cavalletto per la passione e il prestigio delle famiglie aristocratiche e dei ricchi borghesi. Nella nuova Roma della prima metà del Seicento la parte del leone la fanno il Bernini (1598-1680), il Borromini (1599-1667) e Pietro da Cortona (1596-1669), che si accaparrano tutte le commissioni più prestigiose. Ma nella città dei papi c’è spazio e possibilità di successo per tutti, non solo per loro, c’è anche per una folta schiera di artisti di primo ordine. Ci sono emiliani, romani, lombardi, fiamminghi, tedeschi e francesi. Certo è che Bernini, Borromini e il da Cortona sono i protagonisti del secolo e rappresentano uno dei due poli intorno a cui oscilla tutta la cultura del Seicento, nonché quella del Settecento; l’altro è il realismo caravaggesco. Per tutto il Seicento e per tutto il Settecento, ma anche, in un certo senso, per tutto l’Ottocento e il Novecento, l’arte si muove fra verità e immaginazione, veduta e visione, oggettività e soggettività, pragmatismo e intellettualismo. Ma le posizioni opposte rispondono ad una esigenza di definizione etica dell’arte, e non, come potrebbe sembrare, ad una esigenza di definizione gnoseologica. Infatti, per quanto siano diverse nel Barocco e nel Realismo seicentesco le ragioni per cui si imita la natura, ovvero ingannare l’osservatore facendogli sembrare vero ciò che è invece frutto solo della propria immaginazione nel Barocco, non dire bugie nel Realismo seicentesco, in entrambi gli orientamenti la riproduzione del vero non è più finalizzata alla conoscenza del mondo naturale. Oltre a questi due orientamenti, se ne va rafforzando un terzo che discende dal Reni (1575-1642), dal Domenichino (1581-1641) e soprattutto dal Poussin (1594-1665), l’orientamento classico.
Come il Caravaggio (1571-1610) trent’anni prima, anche il Bernini, l’artista amato dai papi, viene contestato, e non solo dal fronte anticlassico borrominiano, ma perfino da quello classico. In architettura dal Rainaldi (1611–1691) e dal Fontana (1638–1714), in scultura dall’Algardi (1598– 1654) e dal Duquesnoy (1597–1643). A fornire a costoro materiale per l’esposizione delle rispettive argomentazioni ci pensa l’opera di ampliamento della Roma sistina.
Asse portante della Roma sistina è via del Corso, la via Lata, così chiamata a causa delle corse di cavalli berberi che vi si effettuavano durante il Carnevale. Ai fianchi corrono le due vie, del Babuino, a sinistra, e di Ripetta, a destra. Piazza del Popolo è l’ingresso monumentale di una città monumentale che accoglie il viandante proveniente dalla via Flaminia in visita o in pellegrinaggio. La sistemazione della piazza ha inizio con l’innalzamento dell’obelisco, il più antico di Roma, ad opera di Domenico Fontana (1543–1607), un esperto in tal genere di imprese, fra il 1585 e il 1590. Nel 1655 Bernini da un volto al prospetto interno della Porta del Popolo, quindi nel 1675, passata la peste del 1665, viene costruita Santa Maria in Montesanto, la chiesa da cui ha inizio via del Babuino. Tre anni dopo viene costruita l’altra, Santa Maria dei Miracoli, che da inizio a via Ripetta. Le due chiese, quasi identiche, sono principalmente opera di Carlo Rainaldi, ma nella prima ci mette le mani il Bernini, trasformando la pianta da tonda a ellittica per questioni di adattamento all’angolo di apertura delle strade laterali; la seconda è portata a termine da Carlo Fontana. Il modello prossimo a queste due chiese è dichiarato: il Pantheon; e anche la loro funzione: fare da propilei alla Città Santa. Compito dell’architetto è creare un ingresso degno, che suggestioni il forestiero: si ricorre così alla scenografia teatrale. La poetica del Rainaldi è dunque ben chiara: un’architettura ricca di verve, ma senza virtuosismi. Un appunto alla poetica del Bernini, ritenuta da lui, e non solo da lui, troppo sciolta: d’altronde la sua riserva al liberalismo berniniano l’aveva già manifestata tempo prima nella facciata di Sant’Andrea della Valle.

Roma, via del Corso, chiesa di San Marcello al Corso
Carlo Fontana
FACCIATA (1683)

Lavorare in città per la città significa considerare lo spazio urbano come l’ambiente naturale degli edifici. In una città monumentale anche l’ambiente deve avere dimensioni monumentali. Questo ambiente lo si può considerare fatto di altri monumenti, dunque artificiale, oppure fatto di spazio, luce, colore, dunque naturale. In altri termini si può modellare lo spazio architettonico con elementi avvolgenti, liberi di articolarsi nell’atmosfera, senza dover rimanere rigorosamente ancorati agli allineamenti prospettici disegnati dalle strade. È quello che pensa e che fa Carlo Fontana, allievo del Rainaldi. La facciata di San Marcello al Corso è leggermente incavata, quanto basta per rapportarla allo spazio urbano in maniera più sciolta e ariosa. Si tratta di una palese adesione alla visione dei fondatori del Barocco, in modo particolare al Borromini, non senza dimenticare però il garbo e la cautela che la situazione richiede.

Roma, basilica di San Pietro
Alessandro Algardi
MONUMENTO FUNEBRE A LEONE XI (1634/1652)
Marmo

Roma, palazzo dei Conservatori
Alessandro Algardi
INNOCENZO X (1645/1649)
Bronzo, altezza mt. 2,40

Alessandro Algardi è coetaneo del Bernini, muore nel pieno della maturità, a 56 anni. Dal 1625 è a Roma. È allievo di Ludovico Carracci (1555–1619) e, come il Reni e il Domenichino, un fedele rappresentante dell’Accademia degli Incamminati. La sua fortuna, ancor più di quella del Borromini, è legata al papa Innocenzo X (1644-1655). Le sue opere più impegnative sono del periodo che vede il momentaneo eclissamento della stella del Bernini. Fra il 1634 e il 1652 realizza il monumento a Leone XI nella basilica di San Pietro, mentre dal 1645 al 1649 lavora alla statua bronzea di Innocenzo X, anche per San Pietro, ma poi conservata al Campidoglio, nel Museo dei Conservatori. Il suo pensiero artistico risulta perfettamente in linea con quello dei conterranei Reni e Domenichino, nonché con quello di Nicolas Poussin: il classico come risoluzione del conflitto fra ideale e reale, immaginazione e testimonianza, alienazione e impegno. Il monumento a Leone XI ha come modello ispiratore quello ad Urbano VIII del Bernini. La struttura infatti è la stessa, con il papa benedicente, seduto su un sarcofago a formare una piramide ideale, con due figure allegoriche ai lati, in basso. Ma la scala delle grandezze è più contenuta, i movimenti più misurati, le figure non si integrano nell’insieme come parti al tutto, rimangono isolate, articolate come in una facciata classica; infine non c’è colore contrapposto fra il bianco del marmo e il bruno riflettente del bronzo: qui è tutto marmo. Anche la nicchia è di marmo candido, cosicché le statue non si rapportano allo sfondo cromaticamente, ma per modulazione di chiaroscuro. La statua di Innocenzo X è di bronzo come quella di Urbano VIII e come questa è colta nell’atto di salutare, ma mentre quella del Bernini è protesa in avanti a invadere lo spazio dell’osservatore quella dell’Algardi non lo è: segno evidente della volontà di non oltrepassare i limiti dello spazio virtuale dell’arte, il quale deve rimanere pur sempre uno spazio ideale.

Roma, Galleria Doria Pamphili
François Duquesnoy
BACCO (1629 c.)
Marmo, altezza cm. 60

François Duquesnoy, a Roma dal 1618, quando ha appena 21 anni, non è francese come potrebbe lasciar supporre il nome, ma belga; un fiammingo senz’altro strano, innamorato del classicismo cristiano di papi e papisti. Il cristianesimo è sentimento, il classicismo misura, la soluzione alle due tendenze contrapposte è il sentimento contenuto nella misura di una disciplina morale. Ma l’antico per lui è passato irrimediabilmente perduto, per cui la misura classica si identifica col sentimento di una realtà bella e perduta. Suo modello non è la statuaria fidiaca ma quella Prassitelica, come è evidente nel Bacco di marmo della Galleria Doria Pamphili.

Roma, palazzo Altieri
Carlo Maratta
TRIONFO DELLA CLEMENZA (1670/1676)
Decorazione della volta
Affresco

Esponenti del Barocco moderato in pittura sono Andrea Sacchi (1599–1661) e Carlo Maratta (1625– 1713), suo allievo. Quest’ultimo in particolare fa dell’ideale classico composta eloquenza al servizio dei valori fondamentali della fede cattolica: in altri termini dice cose care alla Chiesa ricorrendo all’autorità dei grandi maestri classici del Cinquecento, quali Raffaello (1483-1520) e il Correggio (1489 c. – 1534). Come il Carracci guarda ai classici del Cinquecento, ma non cerca, lui professionista, di superarli in una sintesi linguistica che affonda le radici nell’universale, bensì, trova nel classicismo la soluzione ideale che lo ripara da critiche e incomprensioni da parte di quella classe sociale da cui dipende la sua carriera.

Roma, chiesa del Gesù
Il Baciccio
TRIONFO DEL NOME DI GESÙ (1676/1679)
Decorazione della volta
Affresco

Roma, chiesa di Sant’Ignazio
Andrea Pozzo
GLORIA DI SANT’IGNAZIO (1691/1694)
Decorazione della volta
Affresco

Come è accaduto per altri periodi, così anche per il Seicento si deve parlare di radicalizzazione delle tendenze opposte a dispetto dei tentativi di dialogo. Da una parte continua la grande decorazione con gli sfondamenti prospettici dei soffitti di chiese e palazzi, dall’altra prosegue e si sviluppa senza sosta la pittura di genere. La prima si fa sempre più ardita, tecnicamente virtuosa, la seconda si fa sempre più scorrevole e spontanea, ma anche molto più controllata e più adatta a cogliere il senso vero, profondo delle cose, opponendo alle grandi scenografie architettoniche le piccole, preziose opere da cavalletto.
I gesuiti a Roma posseggono due grandi chiese, quella del Gesù e quella di Sant’Ignazio. I due sfondamenti prospettici che aprono virtualmente il soffitto per far entrare il mondo celeste in quello terreno rispondono a fini prettamente propagandistici: la persuasione barocca al fine è diventata tecnica al servizio dell’emissione di plateali messaggi suggestivi. Le figure escono dai limiti dell’architettura dipinta e non solo dipinta: in qualche caso si sovrappongono alle strutture murarie reali. Lo stesso Maratta non ha il coraggio di arrivare a tanto. Nella decorazione della volta del palazzo Altieri l’artista trattiene l’immagine virtuale all’interno della cornice: preferisce in ciò seguire il moderatissimo signor Reni piuttosto che lo spericolato signor Berrettini da Cortona. Ormai siamo davanti ad un’autentica esplosione di illusionismo prospettico, è il trionfo della luce e del movimento, è la traduzione a 10 anni di distanza della cattedra di San Pietro in pittura.
All’opposto ci sono i seguaci del Van Laer (1599–1641) come il Codazzi (1603-1670), il Cerquozzi (1602-1660) Jan Miel (1599-1663) e il cosiddetto Monsù Bernardo, al secolo Eberhard Keil (1624-1687), un allievo danese di Rembrandt (1606-1669).

LA PITTURA DI GENERE

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica
Pieter Van Laer (detto il Bamboccio)
IL VENDITORE DI CIAMBELLE (1630 c.)
Olio su tela, altezza cm. 33 – larghezza cm. 42

A Roma, accanto alla pittura di storia, si va vieppiù sviluppando nei primi anni del secolo la cosiddetta pittura di genere, una pittura disapprovata dal Reni e dalla critica idealista. Ciononostante inizia a trovare degli appassionati collezionisti anche nella terra del papa, e proprio in mezzo alla nobiltà religiosa, che in questo caso si dimostra molto più illuminata degli intenditori d’arte.
Per pittura di genere si intendono quei lavori, per lo più di piccole dimensioni, che prendono a soggetto paesaggi agresti con o senza rovine, composizioni di fiori e frutta, zingari e bari, battaglie. Fra questi si distinguono le bambocciate che consistono nel ritrarre aspetti di vita quotidiana ambientati a Roma. Si tratta di fatti minuti, che si svolgono agli angoli delle strade, ogni giorno. I soggetti più comuni sono venditori ambulanti, mendicanti e mestieri, ma non mancano pezzi dedicati a feste e avvenimenti mondani. A lanciare le bambocciate nella capitale sembra sia stato il pittore fiammingo Pieter Van Laer, soprannominato il “bamboccio” per via della sua corporatura alquanto sgraziata. Da lui deriva il termine “bambocciate” con cui si usa indicare questo particolare genere di quadri. Tale tipologia non discende dal caravaggismo ma è legata alla lezione caravaggesca, nella quale i seguaci vi trovano lo spunto per rinnovare il modo consuetudinario di guardare il vero nonché l’invito a dare importanza ai momenti di ordinaria esistenza. Quello che sfugge loro del maestro però è il messaggio rivoluzionario contenuto nelle tele da cavalletto. La diversità nelle bambocciate non vuol significare ricerca dell’arte nelle cose più umili in polemica con l’idea di un’arte rifulgente nei grandi avvenimenti storici, ma attrazione per gli aspetti pittoreschi della realtà quotidiana.

IL SEICENTO A NAPOLI

Napoli, certosa di San Martino
Cosimo Fanzago
CHIOSTRO (1623/1631)

A Napoli il Barocco inizia dopo che Domenico Fontana vi traccia le linee direttive del nuovo assetto urbano. Su questo schema Cosimo Fanzago (1591–1678) da inizio alla modernizzazione della città. Napoli non è Roma, non ci sono i resti gloriosi dell’antica potenza, non deve diventare una città monumento, e questo significa che la Napoli sorgiva è più libera di esprimersi in termini di fantasia. L’attività di Cosimo è vasta ma episodica. Tutta sua è la certosa di San Martino, dove mostra una certa propensione per l’accentuazione plastica e luministica, linea che si va imponendo in pittura ad opera di artisti come lo Spagnoletto (1591–1652).

CARAVAGGIO A NAPOLI

Napoli, palazzo del Pio Monte della Misericordia
Caravaggio
SETTE OPERE DI MISERICORDIA (1606/1607)
Olio su tela, altezza mt. 3,90 – larghezza mt. 2,60

L’opera del Fanzago non è sufficiente a sospingere Napoli fuori dal clima tardo-manierista. Le cose iniziano a cambiare radicalmente nel 1606, ovvero dall’istante in cui passa per la città Caravaggio, in fuga da Roma. A Napoli il Merisi lascia due opere fondamentali, La Flagellazione e Le Sette opere di misericordia, ed è subito rivoluzione.
L’estate del 1606 volge ormai al termine, Caravaggio si rifugia a Napoli, in quest’epoca capitale di un altro stato, il Regno di Napoli; al vertice c’è un viceré. Subito al di sotto c’è la sua corte, la nobiltà partenopea, seguono la ricca borghesia e il clero, tutti bisognosi di prestigio. Alla base c’è la media, la piccola borghesia e la plebe affamata. Nei primi cinquant’anni del Seicento Napoli conta 350.000 abitanti: una megalopoli per l’epoca. Neanche Roma ne ha tanti. Solo Milano sta intorno alla sua cifra. Per avere un’idea meno approssimativa della densità napoletana basti pensare che la quasi totalità dei centri del meridione d’Italia non contano molto più di 3.000 abitanti cadauno.
Napoli all’inizio del XVII secolo è una vera e propria capitale moderna, dove si concentrano tutti i poteri, politico, economico e giuridico. Effetto immediato di questa concentrazione è l’inurbamento, ovvero la trasformazione forzata, senza un piano che ne disciplini l’attuazione, della campagna in città: un fenomeno endemico nell’urbe partenopea. L’inurbamento non interessa solo gli strati sociali popolari, ma anche l’aristocrazia. Motivo? portare la corte più vicina al viceré, per vivere all’interno della sua cerchia. Uno spazio esclusivo, riservato ai pochi fortunati di alto lignaggio. Uno spazio straordinario da cui il resto della popolazione, meno fortunata, è tenuta fuori. Tutti però, nobili e plebei, ricchi e poveri possono usufruire dello spazio amico delle chiese: in questo periodo in città se ne contano, insieme a conventi e cappelle, fino a 3.000.
Per gli artisti la città offre ottime opportunità di lavoro con le classi borghesi rampanti in cerca di visibilità sociale. Caravaggio è ben conosciuto nell’ambiente e anche apprezzato. Per lui non ci sono problemi e non ci mette molto a trovare commissioni. Tuttavia è sempre la Chiesa a fornire le maggiori opportunità di lavoro, e per non scontentarla deve cedere a qualche restrizione, limitazioni che riguardano soprattutto il rispetto dell’iconografia sacra. C’è anche un altro paletto che la Chiesa mette: pretende che l’arte abbia come fine ultimo quello di portare il fedele alla devozione. Per chi ottempera a queste richieste il successo è assicurato, altrimenti c’è l’emarginazione. Ma è pur vero che dove il controllo è maggiore, maggiore è il desiderio di trasgressione: forse questo è uno dei motivi che spiega in parte il successo della pittura caravaggesca a Napoli. L’altro è senz’altro legato al mercato che le opere del Caravaggio vanno rapidamente conquistando. Ciò comunque non deve far dimenticare che lo stesso Merisi si deve piegare alla volontà della committenza e fare qualche concessione. Così nelle Sette opere di misericordia ecco ricomparire gli angeli. Ma non è solo ciò che appare nei dipinti che rende la sua arte destabilizzante, è anche e soprattutto il modo di vivere l’esperienza pittorica, sempre intensa e drammaticamente inconsueta, personale. Le Sette opere di misericordia sono riunite in un unico episodio ambientato in un vicolo, di quelli stretti che si trovano nei quartieri popolari del capoluogo partenopeo, al crepuscolo, quando alla poca luce residua del sole, ormai tramontato, si sostituisce quella fioca delle torce. Ebbene è questa la luce che rivela cosa sta accadendo fra le viuzze della Napoli degli inizi del Seicento. Tra la gente che si accalca nei meandri delle stradine sta avvenendo un incontro, si sta consumando un momento di solidarietà umana a cui partecipano gentiluomini e popolani, un prete e un pellegrino, signori e diseredati. La tematica è medievale, ma il modo di esprimerla è completamente nuovo. Lo spirito è sempre quello dei grandi realisti: rendere immanenti i contenuti simbolici per dargli forza di penetrazione psicologica, sconvolgere chi guarda, facendolo entrare nella situazione virtuale, abbattendo il sipario che divide la rappresentazione dalla realtà.

CARAVAGGESCHI NAPOLETANI

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Battistello
SAN PIETRO LIBERATO DAL CARCERE (1615)
Dipinto in deposito presso il museo, proveniente dal palazzo del Pio Monte della Misericordia
Olio su tela, altezza mt. 3,10 – larghezza mt. 2,07

Il primo napoletano a capire la lezione del Caravaggio è Battistello Caracciolo (1578–1635). Nel 1615, a 38 anni, dipinge per il Pio Monte la tela con San Pietro liberato dal carcere. In questa tela il pittore da una interpretazione del luminismo caravaggesco che sarà fondamentale per il futuro della cultura figurativa napoletana: il lume siderale non rivela la cruda realtà del fatto, ma da alla vicenda il fascino del mistero, della sospensione del tempo; il chiaroscuro che denota il luminismo caravaggesco si precisa in linea separatrice d’ombra, cosicché alle forme plasmate dalla luce si sostituiscono le forme ritagliate dal disegno: un modo diverso di intendere la funzione strutturale di quest’ultimo mezzo. Di qui la differenza più in generale tra la pittura del partenopeo e quella del lombardo: nelle tele del Battistello non c’è l’intento polemico che permea le tele romane del Caravaggio. La cosa si spiega: a Napoli non c’è il clima che contrappone il tardo-manierismo alle correnti innovatrici.
Il successo napoletano del Caravaggio non si può dire certo indenne da un certo “indebolimento costituzionale”, anzi ben presto il caravaggismo cambierà tono, assumerà un’espressione più tranquillizzante. Come mai? La verità è che nessun seguace campano, come del resto nessun seguace laziale, toscano o lombardo, ha il coraggio di prendere la vita di petto come fa lui. È pur vero che i caravaggeschi napoletani non possono far a meno delle commissioni dei gesuiti, dei teatini, dei francescani, dei certosini, ma neanche Caravaggio ne può far a meno. In realtà ciò che manca a questi artisti è il fuoco eversivo che arde nell’anima del pittore maledetto. E non basta: molto dipende anche dalla formazione, che se non porta alla ribellione porta alla condivisione dei principi dominanti.
Il Battistello si volge al caravaggismo quando ormai ha già una carriera alle spalle, non può buttare tutto alle ortiche per darsi anima e corpo alla religione caravaggesca: ribelli ci si può pure diventare, ma è sempre più difficile con una professione avviata. I suoi studi gli permettono di cimentarsi in tutto il repertorio tecnico del periodo.
Il Battistello è fra tutti i caravaggeschi napoletani quello più vicino al metodo e alle finalità del Caravaggio; le prime opere sono quelle più vicine alla ribellione. Ma già nella Flagellazione di Capodimonte, degli anni Venti, ispirata a quella del Merisi per San Domenico del 1607, il corpo di Cristo è il fisico di un uomo atletico, duro e lucente come il torso di una scultura antica, e il suo volto è una maschera tragica che si è fatta espressione umana: c’è molto della speculazione classicista e poco della naturalezza spontanea del lombardo. Nel 1629 il Battistello trasforma le sette opere di misericordia ne le opere misericordiose dei padri gesuiti. Al faticoso impegno verso i bisognosi del Caravaggio sostituisce i precetti da osservare per favorire il rapporto paternalistico fra Chiesa e masse. La lezione rivoluzionaria caravaggesca rientra del tutto allorquando il Battistello diventa membro dell’Accademia di San Luca.

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Lo Spagnoletto
SILENO EBBRO (1626)
Olio su tela, altezza mt. 1,85 – larghezza mt. 2,29

A contrastare l’interpretazione in chiave intellettualistica del realismo caravaggesco concorre l’opera di Jusepe (Josè) de Ribera, detto lo Spagnoletto.
Josè de Ribera è quello tra tutti i caravaggeschi napoletani che riesce a diffondere maggiormente e in maniera più duratura il messaggio del Merisi. Ma come per gli artisti alessandrini col realismo lisippesco il de Ribera, nella sua fase matura, usa il realismo caravaggesco alla stessa stregua di un repertorio di effetti speciali per impressionare, stupire la sua clientela.
Formatosi a Roma, arriva a Napoli nel 1616, all’età di 25 anni. Si serve del lume caravaggesco per mettere in evidenza la pura carnalità, la pura fisicità delle cose. Vede nell’immagine rivelata dalla luce caravaggesca il vero volto della realtà, priva di veli e di aggiunte edulcoranti: non c’è ideale nella volgarità della natura umana, dunque non c’è riscatto nella pittura. Il suo realismo è puro anti-idealismo. Tra le tante opere lasciateci una in particolare vale come testimonianza della sua poetica materialistica: ilSileno ebbro, del 1626. La tela dipinta per un mercante d’arte di Napoli, Gaspare Roomer (1595-1674), collezionista colto, trae spunto da un bassorilievo di epoca ellenistica (è la moda del momento), dunque da un soggetto mitologico. Ma come si può facilmente notare anche il mito, il venerato mito, oggetto di studio e di fantasia, nella sua interpretazione diventa una indecorosa scena di piacere, dominata dal corpo del sileno ubriaco, ributtante nella sua carne molle e nella sua grande pancia prominente. Quando passa dai sileni ai filosofi e ai santi, lo Spagnoletto passa dai ciccioni agli straccioni smagriti dalla carne flaccida.
La sua polemica anticlassica non dura per sempre. Con la maturità cambia obiettivo e dalla ricerca del brutto e del deforme si volge alla ricerca del bello e del benfatto.

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Massimo Stanzione
SANT’AGATA IN CARCERE (prima del 1633)
Olio su tela, altezza mt. 2,30 – larghezza mt. 1,85

L’altro campione dell’arena napoletana, Massimo Stanzione (1585-1656), incontra Caravaggio dopo anni di “catechismo”: impossibile dunque con queste premesse pretendere un caravaggismo esplosivo. Lo Stanzione non sta alla dura realtà delle cose, opera secondo i dettami della mimesi, compie delle scelte, sceglie il meglio delle forme, il meglio delle luci e dei colori, il meglio delle movenze. La rivelazione luminosa non sconvolge gli osservatori, al contrario li tranquillizza, riportando tutto ad un tono più misurato, più rassicurante, familiare.

LA PITTURA DI GENERE A NAPOLI

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Aniello Falcone
BATTAGLIA (prima metà XVII sec.)
Olio su tela, altezza mt. 1,10 – larghezza mt. 1,26

Napoli, Museo di San Martino
Micco Spadaro
UCCISIONE DI DON GIUSEPPE CARAFA (1647)
Olio su tela, altezza cm. 29 – larghezza cm. 38

Spoleto, Galleria Paolo Sapori
Giuseppe Recco
NATURA MORTA CON PESCI (seconda metà del XVII secolo)
Olio su tela, altezza mt. 1,28 – larghezza mt. 1,79

Spoleto, Galleria Paolo Sapori
Giovan Battista Ruoppolo
FRUTTA E ORTAGGI CON PAESAGGIO (XVII secolo)
Olio su tela, altezza mt. 1,35 – larghezza mt. 1,55

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Maestro dell’Annuncio dei Pastori
L’ANNUNCIO (1625/1650)
Olio su tela, altezza mt. 1,84 – larghezza mt. 2,66

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Paolo Porpora
NATURA MORTA CON FUNGHI, RANE, LUCERTOLE E SERPENTI (XVII secolo)
Dipinto in deposito presso il museo, proveniente dalla collezione del Banco di Napoli
Olio su tela, altezza cm. 36 – larghezza cm. 64

L’interpretazione contrapposta data al caravaggismo dal Battistello e dallo Spagnoletto si radicalizza dando origine a due temi espressivi antitetici: quello lirico e quello veristico. Al primo appartengono pittori come il già ricordato Massimo Stanzione e il poetico Bernardo Cavallino (1616–1656); alla seconda schiera l’anonimo Maestro dell’Annuncio dei Pastori (attivo tra il 1620 e il 1660) e praticamente tutti gli specialisti di nature morte, lazzaroni e battaglie, fra cui spiccano Giuseppe Recco (1634–1695), Giovan Battista Ruoppolo (1629-1693) e Paolo Porpora (1617-1673) per le prime, Aniello Falcone (1600 c. – 1665) per i conflitti, e Micco Spadaro (1609 c. – 1675) per le opere di bene di santi e sante.

INTERPRETAZIONE LIRICA DEL REALISMO CARAVAGGESCO

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Bernardo Cavallino
SANTA CECILIA (1645)
Olio su tela, altezza cm. 62 – larghezza cm. 49

Con l’aumento dei seguaci del Merisi aumenta anche la tendenza a distaccarsi dalla ferrea moralistica della sua azione pittorica e a trasformare la concitazione drammatica in effusione lirica. Sebbene inseribile nel quadro del Naturalismo seicentesco la pittura del Cavallino si discosta dall’ortodossia caravaggesca per diversi aspetti, primo fra tutti il prevalere dell’interpretazione poetica sulla testimonianza visiva. È quella di Bernardo Cavallino un’esperienza che si colloca ormai nel momento di trasferimento del verbo figurativo realista nel Barocco.

SALVATOR ROSA E IL PRELUDIO AL PITTORESCO

Londra, National Gallery
Salvator Rosa
STREGHE E INCANTESIMI (1646)
Olio su tela, altezza cm. 72 – larghezza cm. 132

Un discorso a parte va fatto per Salvator Rosa (1615-1673). Salvator Rosa nasce a Napoli e nell’ambiente napoletano si forma, ma la sua attività la svolge fuori Napoli, soprattutto a Roma e a Firenze. Si dichiara contro la pittura di genere e contro la retorica barocca, tuttavia la sua è pittura di genere e anche un po’ retorica. È un intellettuale che ostenta il linguaggio volgare per spirito di contraddizione: non esiste la perfezione; tutto è perfettibile. La sua pittura è la pittura dell’impossibile, del non essere. Inventa la veduta fantastica: una veduta fatta di panoramiche scenografiche, tempestate di strani personaggi come streghe e mostri. Con lui nasce la veduta pittoresca, una veduta spontanea, di getto, libera da regole, ricca di suggestioni, piena di implicazioni, stravagante, poco impegnativa. Ai suoi saggi, meno di un secolo dopo, si ispirerà la nuova estetica illuministica oscillante fra un pittoresco percettivo e di fantasia.

IL BAROCCO NAPOLETANO: UN CICLONE CHIAMATO LUCA

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Luca Giordano
SAN FRANCESCO SAVERIO E SAN FRANCESCO BORGIA (seconda metà XVII sec.)
Olio su tela, altezza mt. 4,21 – larghezza mt. 3,15

All’esatto opposto dello Spagnoletto e di tutta la masnada dei ribelli caravaggeschi troviamo Luca Giordano (1632 c. – 1705). Le fonti che lo ispirano sono dichiarate: Lanfranco (1582-1647), ma ancor più Pietro da Cortona. La peste del 1656 determina a Napoli un prima e un dopo Giordano. In effetti questo artista trascina l’arte del suo tempo fuori dal buio Seicento per immetterla nel luminoso Settecento. Luca è un pittore di una nuova generazione; la sua opera è quel che rimane della pittura quando non si macera più nei problemi di natura ideologica, cioè è pura tecnica; per lui un pittore deve fare della tecnica del dipingere una fonte di emozioni: è la concezione dell’arte come puro virtuosismo. E Luca Giordano è un virtuoso; prodigiosa è la sua bravura che traduce d’incanto in immagine qualsiasi cosa gli si proponga. “Luca fa presto” viene soprannominato per la rapidità con cui passa dal contenuto letterario alla forma visibile. Dipinge in maniera così celere da anticipare l’argomento stesso della rappresentazione.

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Mattia Preti
IL CONVITO DI ASSALONNE (1675/1680)
Olio su tela, altezza mt. 2,02 – larghezza mt. 2,94

Mattia Preti (1613-1699) è l’altro protagonista della ripresa napoletana dopo la peste, ma rimane artista ancorato al Seicento. Mattia è calabrese; prima di arrivare a Napoli passa per Roma, in Emilia e a Venezia. Il suo contatto con i caravaggeschi è importante ma non determinante. A loro preferisce gli emiliani, Lanfranco e Guercino (1591-1666), ma al di là di questi i veneti storici del calibro di un Tintoretto (1518-1594) e di un Veronese (1528-1588). L’anno della pestilenza è a Napoli; ha 43 anni ed è ormai artista maturo. Fa la conoscenza con il Giordano e da questo momento tira fuori una pittura carica di cultura, ma che tuttavia non si traduce in eclettismo; il suo limite è di tutt’altro genere. Benché si avvalga di tonalità schiarite, nulla può di fronte all’affermarsi della più giovane e fresca verve del suo rivale. Rimane comunque il fatto che la sua arte, tesa a rendere naturale l’immagine culturale, non sarà priva di sbocchi nel secolo dei lumi ormai prossimo.

IL SEICENTO IN TOSCANA

Firenze, palazzo Pitti, galleria Palatina
Francesco Furini
ILA E LE NINFE (post 1630)
Olio su tela, altezza mt. 3,30 – larghezza mt. 2,61

Firenze, palazzo Pitti, sala degli Argenti
Francesco Montelatici detto Cecco Bravo
LORENZO IL MAGNIFICO ACCOGLIE LE MUSE E LORENZO ASSICURA LA PACE ALL’ITALIA (1638/1639)
Affresco

Nel Seicento i centri dell’avanguardia artistica sono Roma e Napoli. Firenze e la Toscana dopo essere state il polo egemone della cultura visiva per tre secoli passano in coda. Il Barocco nella città gigliata e nella regione non ha mai messo radici; la presenza di Pietro da Cortona a palazzo Pitti fra il 1637 e il 1640 non ha destato nessun entusiasmo. È andata sicuramente meglio a Luca Giordano negli anni Ottanta: ma ormai siamo alla vigilia della temperie illuministica.
Ancor meno successo ha avuto il caravaggismo. La cosa si spiega: patria degli intellettualissimi manieristi la Toscana non riesce a scrollarsi del tutto di dosso quel senso di superiorità che le deriva dal fatto di ritenersi detentrice di un principio artistico eterno e inviolabile: il disegno. Ciò le impedisce di occuparsi dei problemi che si vanno dibattendo ai vertici dell’arte del periodo e la condanna a declassarsi in un provincialismo colto, ma privo di sbocchi oltre gli stretti confini del proprio territorio.
Gli artisti più aggiornati sono, chi per un verso chi per l’altro, tutti legati alla lezione dei bolognesi, soprattutto dei Carracci. Agli insegnamenti di Ludovico sono legati il Passignano (1559–1638) e il Cigoli (1559-1613), ma, al contrario dei suoi allievi bolognesi, l’umbro e il toscano non vanno oltre un tardo manierismo aggiornato. Tributari di Annibale si dimostrano Giovanni da San Giovanni (1592-1636) e Cecco Bravo (1601-1661) quando affrescano la sala degli Argenti in palazzo Pitti. Una risonanza caravaggesca si lascia intravedere quindi nell’opera di Francesco Furini (1600 c. – 1646).
Se le cose languono in campo pittorico, in campo scultoreo e architettonico non vanno meglio. Il Silvani (1579–1675), architetto, e Pietro Tacca (1577–1640), scultore, non sanno andare al di là dell’invenzione elegante e della terminologia scelta con attenzione. In questo ambiente tendente all’isolamento, sebbene aggiornato, si distingue Stefano della Bella (1610-1664), incisore. È lui a divulgare l’arte di genere in Toscana, l’unica nota di colore, sebbene le sue acqueforti ne siano prive, in un panorama acromatico di conformismo accademico.

Il SEICENTO A GENOVA

Genova, via Garibaldi
Galeazzo Alessi
VEDUTA ATTUALE DELLA STRADA NUOVA

Genova, palazzo dell’Università
Bartolomeo Bianco
CORTILE E INTERNO (1634/1638)

Dopo il primo ventennio passato a Roma la maggior parte dei caravaggeschi torna nei paesi e nelle città d’origine. Qui il loro caravaggismo subisce più o meno profonde metamorfosi.
Il 1605 è un anno più tragico del solito per il Caravaggio. È arrestato per l’ennesima volta in quanto in possesso di un falso permesso di porto d’armi. Uscito di prigione ci rifinisce subito dopo per aver insultato due donne, madre e figlia, e come se non bastasse ferisce con la spada un notaio. Per questo ultimo fattaccio scappa a Genova.
Genova rappresenta l’anello di congiunzione fra la cultura italiana e quella fiamminga. A modernizzare la repubblica marinara ci provano per primi nel tardo Cinquecento e nei primi decenni del Seicento due architetti “stranieri”: il perugino Galeazzo Alessi (1512-1572) e il lombardo Bartolomeo Bianco (1590-1651 c.). Al primo si deve una delle vie più belle della città, la strada Nuova, ribattezzata in seguito via Garibaldi; al secondo si deve via Balbi e lo scenografico cortile del palazzo dell’Università.
In pittura all’inizio del secolo domina incontrastato il Barocci (1535 c. – 1612), ma presto il marchigiano se la deve vedere con le novità portate dallo stesso Caravaggio, a Genova nel 1605, dal Gentileschi (1563-1647 c.), dal Vouet (1590-1649) e dal Battistello. Ma l’artista che più di ogni altro incide profondamente sull’ambiente pittorico genovese è Antoon Van Dick (1599-1641), giovin prodigio, allievo del Rubens (1577-1640).
Antonio è a Genova fra il 1621 e il 1627. A soli 22 anni è il ritrattista ufficiale dell’aristocrazia genovese. La presenza di un fiammingo nel capoluogo ligure non è un fatto inedito. Antonio è stato preceduto dallo Snyders (1579-1657) e da Cornelis de Wael (1592-1667). Da questo humus culturale italo-fiammingo traggono ispirazione Bernardo Strozzi (1581–1644), il maggior pittore genovese, e Giovanni Benedetto Castiglione (1609–1664), al quale spetta l’elevazione della pittura di genere a lirica figurativa. Di netta marca caravaggesca è la pittura di Gioacchino Assereto (1600-1649), mentre a Pietro da Cortona e ai quadraturisti emiliani sono ispirate le opere dei decoratori, fra cui si distingue su tutti Gregorio de Ferrari (1647-1726).

IL SEICENTO A VENEZIA

Firenze, palazzo Pitti, galleria Palatina
Domenico Fetti
LA DRACMA PERDUTA (1616/1617, ma secondo altri 1619/1620)
Olio su tavola, altezza cm. 75 – larghezza cm. 44

Venezia, chiesa di San Niccolò dei Tolentini
Johann Liss
VISIONE DI SAN GEROLAMO
Olio su tela, altezza mt. 2,25 – larghezza mt. 1,75

Il Barocco per Venezia rappresenta un momento di crisi, almeno per quanto riguarda la pittura. La Serenissima risorgerà nel Settecento con il Piazzetta (1683-1754) e il Tiepolo (1696-1770), ma sarà vita breve. Anche in questo caso il fenomeno si spiega facilmente: il potere politico ed economico si sta spostando da Oriente ad Occidente. A mantenere a galla il prestigio della pittura veneta in periodo di crisi è un romano, Domenico Fetti (1589–1623), e un tedesco, Johann Liss (1597-1630). A dare una mano arriva anche, da Genova, padre Bernardo Strozzi. Dietro la spinta di questi artisti si risveglia l’interesse per la blasonata tradizione. Così si riprende a dipingere alla Giorgione (1477 c. – 1510), alla Tiziano (1488 c. – 1576), alla Tintoretto, ma con Giulio Carpioni (1611-1678 c.) si dipinge anche alla Poussin. Fra i tanti imitatori si distinguono Francesco Maffei (1605-1660) e Sebastiano Mazzoni (1611–1678), tintorettiani.

Venezia, chiesa della Salute
Baldassare Longhena
ESTERNO, PIANTA E INTERNO (1631/1637)

Le cose vanno molto meglio in architettura con Baldassare Longhena (1598-1682). Coetaneo del Bernini muore due anni dopo. Il Longhena è allievo dello Scamozzi (1548–1616), ma reinterpreta la lezione del Palladio (1508-1580) in senso moderno. Infatti non parte da un’idea di spazio precostituita, ma dalle esigenze dell’ambiente tanto sociale quanto naturale: si tratta in sostanza di un funzionalista. All’attivo ha molte ville come il suo maestro spirituale, ma il capolavoro assoluto è la “Salute”. La progetta nel 1631 per ringraziare il Signore di aver fatto cessare la pestilenza, ma viene realizzata molti anni dopo. La pianta è divisa in due vani: uno, il più grande, per accogliere i fedeli, l’altro, più piccolo, per celebrare il rito. Al primo da forma ottagonale, mentre al secondo rettangolare biabsidato. Sull’uno e sull’altro, all’esterno, erige due cupole emisferiche senza costoloni, come si usa a Venezia. La scelta estetica è dettata dall’ambiente lagunare: da una parte ci sono le cupole di San Marco, dall’altra quelle di San Giorgio e del Redentore. Le calotte, pur poderose, non sembrano gravare sull’edificio, un miracolo dovuto al colore che le sfuma sulle tonalità verdi-azzurre della laguna. A venir meno all’ortodossia dell’articolazione tamburo-calotta ci pensano le grandi volute abbinate disposte a raggiera. La chiesa così risulta essere un nucleo vibrante di condensazione e irradiazione luminosa. All’interno la luce si modula secondo due diverse intensità principali: forte nel vano grande, soffusa nell’anello rituale.
La critica definisce pittoresco lo stile del Longhena, però occorre precisare, non si tratta del pittoresco barocco, bensì di quello della tradizione veneta. Nei suoi palazzi sul Canal Grande a farla da padrona è ancora la vibrazione luminosa della laguna, per ottenere la quale addensa le strutture architettoniche intorno ai vuoti delle finestre.

IL SEICENTO LOMBARDO

Milano, duomo
Cerano
IL BEATO CARLO VISITA GLI APPESTATI (1602)
Tempera su tela, altezza mt. 4,75 – larghezza mt. 6

Milano, Pinacoteca di Brera
Morazzone
MARTIRIO DELLE SANTE RUFINA E SECONDA (prima del 1625)
Olio su tela, altezza mt. 1,92 – larghezza mt. 1,92

È il 1630, il flagello che si porta via Don Rodrigo come fosse un poveraccio qualsiasi, si tira dietro anche Daniele Crespi (1597 c. – 1630), pittore di formazione lombarda. La data risulta fatidica anche per altri quattro artisti lombardi: il Cerano (1565 c. – 1632), il Morazzone (1573–1626), Giulio Cesare Procaccini (1574–1625) e Tanzio da Varallo (1575-1633 c.), il fior fiore della pittura lombarda del primo Seicento, una pittura dai caratteri singolari, che però non va oltre Milano e la Lombardia.
All’inizio del Seicento la regione padana comprende anche parte della Svizzera, e più precisamente il Canton Ticino (Borromini è di questo paese), l’Emilia, nonché parte del Veneto. I caratteri della pittura regionale portano il marchio del Medioevo. Colpa del duomo che nel Seicento non è ancora finito? Può darsi! Sta di fatto che nell’epoca in cui lievita la rivoluzione barocca tutto il territorio lombardo sta vivendo una nuova irripetibile ondata di acceso spiritualismo neo-medievale. Promotore di questo nuovo impeto religioso è il cardinale Carlo Borromeo (1538-1584), il quale per il fervore mostrato sul campo e per i miracoli che gli vengono attribuiti viene fatto santo. Ciononostante non riesce a trasmettere lo stesso suo impeto a gente con i piedi per terra come i lombardi. Perfino il cardinal Federico (1564–1631), non riesce a stargli dietro: non sa far altro che congelare nell’intellettualismo il trasporto spirituale del cugino. Così il rinnovamento artistico lombardo, che pure c’è, resta preso nella morsa del compromesso fra passionalità e controllo, rivoluzione e conservazione.
Per spiegare la forte carica emotiva della pittura religiosa seicentesca lombarda c’è dunque una sola chiave fondamentale: il rigorismo dottrinale sostenuto dalla ferrea moralità di san Carlo.
In pittura ad esprimere lo stesso impegno convinto del Borromeo sono un paio di artisti: Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, e Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone. Entrambi muovono dalla tradizione lombarda del Ferrari (1475 c. – 1546), ma risentono della formazione romana e del manierismo filippino del Barocci.
Il Cerano ritrae senza un velo di pietà gli aspetti più crudi e sinistri della realtà esistenziale della povera gente (quella tanto amata da san Carlo). La scelta del soggetto accosta la sua pittura a quella di genere, ma i risultati sono ben diversi: non c’è compiacimento per il soggetto “desueto”, bensì il rispetto del vero e del prossimo. La sua arte può essere definita come una sorta di classicismo dal carattere metafisico-surreale, ricco di episodi gravosi, realistici, ma livellati dal respiro della rappresentazione teatrale e dalla tendenza alla sublimazione storica.
Più incline alla partecipazione emotiva è il Morazzone. Coetaneo del Caravaggio, nel San Francesco in estasi sfiora note di autentico fanatismo ascetico, molto simile a quello di un altro Francesco pittore appassionato quale il Del Cairo (1607-1665).

Bergamo, Accademia di Carrara
Evaristo Baschenis
NATURA MORTA CON STRUMENTI A CORDA (metà XVII secolo c.)
Olio su tela, altezza cm. 75 – larghezza cm. 108

Sempre dalla Lombardia prende avvio anche un nuovo modo di fare pittura realistica. Il gusto per il vero senza enfasi oratorie porta gli artisti a considerare sullo stesso piano soggetti molto diversi tra loro. Evaristo Baschenis (1617-1677) ritrae quasi esclusivamente strumenti musicali come se si trattasse di persone in carne ed ossa. C’è nello strumento musicale dipinto una chiara allusione alla vita e alla morte: le immagini delle casse armoniche di violini e mandole mute non sono altro che immagini di corpi privi di anima.
In queste nature morte apparentemente simili a tutte le altre c’è una novità. C’è nella realtà ritrattata l’identificazione con il sé: l’oggetto è il punto di compenetrazione di due esistenze che l’intelletto separa, ma che la coscienza, nella sua totalità, non ha ragione di dividere.