I FRONTONI DEL TEMPIO DI ZEUS AD OLIMPIA
LE METOPE
I FRONTONI DEL TEMPIO DI ZEUS AD OLIMPIA
Olimpia, Grecia, Museo di Olimpia
GRUPPI FRONTONALI
Possiamo star certi che l’ancora sconosciuto autore dei due frontoni del tempio di Zeus ad Olimpia abbia cercato di portare la scultura al limite della finzione, infatti le sue statue par di vederle magicamente prendere vita davanti ai nostri occhi. Così ecco che ci sembra di riconoscere i protagonisti delle vicende raccontate nei due timpani, nonché assistere alla loro sequenza.
Nel frontone est, al centro è Zeus, a destra è Pelope, Ippodamia, una sua ancella, inginocchiata, la quadriga di Pelope, un vecchio di incerta identificazione, un giovane còlto mentre gioca col proprio alluce e la personificazione del Cladeo, uno dei due fiumi che scorrono nella piana di Olimpia. A sinistra è Enomao, la moglie Sterope, l’auriga Mirtilo o molto più probabilmente un alfiere, inginocchiato, la quadriga di Enomao, una seconda figura inginocchiata, che secondo gli studiosi dovrebbe rappresentare di nuovo Mirtilo, un indovino e l’Alfeo, l’altro fiume di Olimpia, ritenuto sacro. Zeus non ha bisogno di presentazioni, è il signore degli dèi ed è raffigurato con il fulmine in mano. Pelope è il principe della Lidia, nota regione dell’antica Anatolia (odierna Turchia), è figlio di Tantalo e protetto da Poseidone; da lui deriva il nome Peloponneso, che va a sostituire il nome originario della nota regione Apia, nome a sua volta derivato dal termine apios col quale si indica il pioppo, o Apis, re argivo. È raffigurato nudo in tenuta da guerra con elmo lancia e scudo. Ippodamia è la figlia di Enomao e futura moglie di Pelope; è còlta nell’atto di sollevarsi il peplo in segno di disponibilità al matrimonio. Enomao è il re di Pisa, l’antica Pisa, greca non italiana, la polis che aveva la tutela del santuario di Zeus, sito nell’Altis, il bosco sacro che sorgeva ad Olimpia ai piedi del colle Cronio. Figlio di Ares, è raffigurato anch’esso seminudo, in assetto di guerra, con un himation buttato sulle spalle. Infine Mirtilo, è il figlio di Ermes, ed è il miglior auriga disponibile sulla piazza. Enomao e Pelope si stanno preparando a sfidarsi in una corsa con le quadrighe al cospetto di Zeus in veste di giudice, Mirtilo si sta predisponendo a guidare la quadriga di Enomao, gli altri ad assistere alla gara. La gara consiste nell’arrivare per primi a Corinto e il premio in palio è l’uccisione del perdente.
Ora, Pisa sorge a poca distanza dalla zona sacra di Olimpia, quindi se il traguardo è a Corinto, il tratto da percorrere con le quadrighe è di circa 400 km.; come è possibile coprire questa enorme distanza con delle quadrighe in una gara? Semplice! Usando dei cavalli divini.
Enomao, in un passato non molto remoto, era stato oggetto di un terribile vaticinio: sarebbe morto per mano del genero. Per sfuggire al suo infausto destino gli viene la brillante idea di sfidare i pretendenti della mano di sua figlia in una terribile gara, quella di cui si è appena detto, sicuro di vincerla in quanto in possesso di cavalle rapide come il vento, regalo di suo padre Ares, e grazie ad un piccolo trucchetto. Questo consisteva nel pretendere che sul carro dello sfidante salisse anche Ippodamia allo scopo di indurlo a distrarsi a causa della sua bellezza.
Certo l’idea di sposare la principessa Ippodamia con quella di mettere le mani sull’Elide è un bell’obiettivo per i giovani ambiziosi temerari. Ben tredici avevano tentato prima di Pelope; tutti battuti, tutti ammazzati. Sembrava impossibile vincere la gara, a meno che non si ricorresse ad un’azione di sabotaggio.
Stando ad una certa versione del mito Pelope con la complicità di Ippodamia riesce a corrompere Mirtilo, inducendolo a sostituire le biette metalliche delle ruote del carro di Enomao con altre di cera. Per convincere Mirtilo a manomettere la quadriga del suo sovrano Pelope mette in atto uno stratagemma. Come ci racconta Pausania il periegeta (110-180) Mirtilo era profondamente innamorato di Ippodamia e sapendolo Pelope gli promette non solo metà del regno ma soprattutto lo ius primae noctis con Ippodamia, promesse che rinnegò entrambe alla fine della corsa.
La gara si svolge nel modo seguente. Pelope parte per primo, come da programma: Enomao lasciava sempre partire per primi i suoi avversari, sicuro di raggiungerli. Come di consueto una volta partito lo sfidante il re sacrificava un montone a Zeus prima di mettersi al suo inseguimento, quindi iniziava a rincorrerlo e una volta arrivatogli alle spalle lo trafiggeva con la lancia, dopodiché gli mozzava la testa e la inchiodava al suo palazzo. Ma stavolta non aveva fatto i conti con un particolare molto importante e cioè che anche Pelope è in possesso di cavalli rapidi come il vento: glieli aveva regalati Poseidone appositamente per partecipare a questa famigerata gara. Così, ancorché in pieno svolgimento, ad un certo punto della sfida, come previsto, le zeppe di cera si sciolgono, il carro di Enomao si frantuma e il re muore impigliato nelle redini dei focosi destrieri di Ares. Non migliore fine fa Mirtilo, il quale non avendo dimenticato il suo amore per Ippodamia (o la promessa di Pelope) tenta di violentarla sulla strada del capo Geresto, il punto più meridionale dell’Eubea. Pelope, accortosi della cosa, scaraventa Mirtilo con un calcio nel mare che prese da lui il nome di Mirtoo.
Per placare l’ira di Ermes, suo padre, Pelope gli erige subito un tempio e per quietare il rimorso della propria coscienza tributa onori eroici a Mirtilo; infine tributa omaggi anche ai tanti morti che sfidarono Enomao e persero. Ma non è tutto. Dopo essersi macchiato delle morti del figlio di Ares e del figlio di Ermes, Pelope pensa bene di espiare le sue colpe istituendo delle competizioni cicliche. E fu così che nacquero le Olimpiadi. All’epoca dei fatti siamo in pieno Medioevo Ellenico, XI secolo a.C., ma c’è chi sposterebbe la data almeno al periodo protostorico miceneo.
Di tutt’altro tipo è la storia raccontata nel frontone ovest. Qui non siamo più ad Olimpia, ma nella zona del monte Pelio, il cuneo roccioso che si protende nel mare Egeo, a nord-ovest della baia di Volos, in Tessaglia. Si stanno celebrando le nozze fra Piritoo, re dei Lapiti, e Deidamia. Al matrimonio sono invitati oltre ai concittadini degli sposi, Teseo e i Centauri, cugini dello sposo; esclusi Ares e Eris, per timore che potessero rovinare la festa. Timore del tutto fondato poiché le due divinità offese spingono i Centauri a bere oltre il loro limite di tolleranza all’alcool. Così ad un certo punto della festa, mentre Deidamia si appresta a salutare i commensali, Eurizione, il re dei Centauri, ubriaco, si scaglia su di lei e cerca di violentarla. Questo gesto scatena tutti gli altri Centauri che, ciucchi pure loro, iniziano a mettere le mani addosso alle donne lapite. Naturalmente la cosa non è affatto gradita dai padroni di casa, i quali tosto intervengono a difendere le loro donne. Ne nasce una furibonda lotta in cui i Lapiti danno una sonora lezione agli esseri mezzi uomini e mezzi cavalli, sconfiggendoli e cacciandoli dalla Tessaglia; come punizione al loro capo Eurizione vengono mozzati naso ed orecchie. Ecco dunque che al centro appare Febo (Apollo), qui presente in qualità di dio dell’armonia; con la sinistra stringe un arco, mentre col braccio destro cerca con un gesto di riportare l’ordine. A destra si riconosce Teseo, il noto eroe ateniese, amico di Piritoo, intento a sferrare un colpo micidiale ad un centauro che sta tentando di violentare una lapita, la quale a sua volta cerca con tutte le sue forze di liberarsi dall’aggressore prendendolo per la barba e per i capelli; a sinistra c’è Piritoo che si sta scagliando contro Eurizione, il re dei Centauri, il quale sta tentando di stuprare Deidamia. In questo gruppo si fa notare per il suo spiccato realismo il drammatico gesto di difesa di Deidamia che cerca di divincolarsi dalla stretta di Eurizione nel vano tentativo di staccarlo da sé.
Una delle statue in lotta rappresenta Ceneo, l’unico lapita a cadere nello scontro. Ceneo nasce donna ma grazie all’intervento di Poseidone si trasforma in uomo per diventare un guerriero. Nel corso della lotta i Centauri lo schiacciano scagliandogli contro dei massi e dei tronchi d’albero. Ceneo però non muore, sprofonda nel sottosuolo e riemerge sottoforma di uccellino. Donne guerriero non erano rare nell’antichità; oltre alle ben note Amazzoni, era uso far scendere in lotta il gentil sesso anche fra gli Sciiti.
Olimpia, Grecia, Museo di Olimpia
METOPE
Finito di descrivere i frontoni passiamo a parlare delle metope. Quelle esterne riportavano un disco di bronzo o fittile, quelle interne al pronaos e all’opistodomos le dodici fatiche di Eracle (Ercole per i latini). Dalla leggenda ci è noto che Eracle dopo aver messo su famiglia con Megare, figlia di Creonte, re di Tebe, fu precipitato nella follia da Hera che lo indusse ad ammazzare moglie e figli. Per espiare l’immane colpa la Pizia lo condannò a mettersi a disposizione per dodici anni del signore di Argo, Micene e Tirinto, il cugino Euristeo. Presentatosi al suo cospetto questi lo sottopose a dodici prove rischiosissime, impossibili da superare per un qualsiasi mortale. L’alto grado di pericolosità delle imprese era stato studiato a tavolino da Euristeo, il quale si voleva sbarazzare di Eracle, ma l’eroe aveva il favore degli dèi dal canto suo, e questo particolare non è assolutamente cosa da trascurare. Ma quali sono queste dodici fatiche? Vediamole una ad una in ordine di collocamento all’interno del pronaos e dell’opistodomos.
Il leone di Nemea
La prima fu quella di liberare Nemea, città dell’Argolide, sita a poca distanza da Micene, da un leone che terrorizzava la zona divorando greggi ed esseri umani. La sua stazza superava di gran lunga quella naturale e la sua ferocia era inaudita. Per sopraffarlo Eracle dapprima tentò di colpirlo con mazza e frecce facendogli le poste; in un secondo tempo, visto che questa tattica non funzionava, ne mise in atto un’altra, molto più rischiosa. Il leone aveva una tana in una spelonca inaccessibile dotata di due aperture. Eracle attese il suo rientro, e quando la belva rincasò, lesto bloccò una delle due entrate e si infilò nell’altra per affrontare la fiera corpo a corpo. La lotta fu furibonda, ma la forza sovrumana di Eracle prevalse su quella bestiale del leone. Soffocatolo, lo scuoiò e con la pelle ci si fece un “giubbotto” guarnito di “cappuccio”. L’indumento gli piacque così tanto che non se lo tolse mai più. Compiuta l’impresa si presentò ad Euristeo vestito della pelle della belva. Questi ne ebbe tanta paura che si andò a nascondere, inaugurando la prima delle altre due volte che si eclisserà.
L’idra di Lerna
La seconda fatica a cui Euristeo sottopose suo cugino fu quella di liberare la piana intorno alla palude di Lerna, sita a sud-ovest di Argo, dall’idra, un mostro responsabile della distruzione dei raccolti e della decimazione del bestiame. L’idra aveva un corpo serpentiforme a calice, coronato ad una estremità da nove teste tentacolari. La sua caratteristica peculiare era quella che per ogni testa mozzata gliene ricrescevano due. Per venirne a capo stavolta Eracle si fece aiutare dal nipote Iolao. Ogni volta che l’eroe tagliava una testa il nipote tosto ne cauterizzava con una torcia l’estremità recisa di modo che non se ne potessero formare delle altre. Il colpo decisivo ci fu quando Eracle fa saltar via la testa centrale. Nel sangue sgorgato dal corpo mutilo del mostro l’eroe immerse le punte delle sue frecce di modo che una volta inzuppate nel plasma venefico divenissero veramente letali.
Gli uccelli di Stinfalo
Stinfalo è un lago che sorge nella parte nord-ovest del territorio argolico. All’epoca delle imprese di Eracle era infestato da uccelli carnivori che possedevano artigli, ali e becchi di bronzo (o di ferro). La loro presenza seminava terrore fra le popolazioni del luogo dal momento che essi prediligevano nutrirsi di carne umana. Per procurarsi le prede usavano le piume a mo’ di frecce. Erano soliti andarsi ad appollaiare sugli alberi di un boschetto rivierasco. Impossibile colpirli quando stavano nel folto della vegetazione si rendevano più vulnerabili allo scoperto. Facendo oro di questa considerazione Eracle per stanarli dette fuoco al boschetto, quindi li fece bersaglio dei suoi dardi avvelenati distruggendoli. La metopa rappresenta l’attimo dopo la strage, quando l’eroe consegna il bottino di caccia ad Atena, raffigurata seduta su uno sperone roccioso.
Il toro di Cnosso
Questa vicenda si riallaccia a quella che vede protagonisti il toro bianco di Poseidone e Minosse. La ricordo brevissimamente: Poseidone spedì a Cnosso un magnifico toro affinché Minosse lo sacrificasse in suo onore. Ma il toro era talmente bello che il re cretese lo tenne per se e al suo posto ne sacrificò uno meno bello. Poseidone naturalmente se ne accorse e si vendicò facendo impazzire l’animale che iniziò a fare fuoco e fiamme dalle narici. Eracle naturalmente lo catturò e, nonostante il divieto del re di portarlo fuori da Creta, lo condusse ad Argo al cospetto di Euristeo montandogli in groppa come ad un cavallo.
La cerva di Cerinea
La cerva di Cerinea in realtà era un cervo dalle corna d’oro. Viveva sulle montagne di Cerinea, una località di incerta ubicazione, in mezzo a boschi talmente fitti al punto di rendersi impenetrabili persino agli dèi, addirittura alla stessa Diana. Dopo averlo inseguito per un anno, Eracle finalmente riuscì a catturarlo e a portarlo, come d’accordo, ad Euristeo. Il compimento di questa impresa fu caratterizzato da un piccolo incidente diplomatico. Infatti mentre l’eroe si trovava a passare con la preda sulla strada del ritorno ad Argo s’imbatté in Diana e Apollo, adirati per la cattura. Tutto però andò a finire nel migliore dei modi dopo che l’eroe li ebbe rassicurati che all’animale non gli si sarebbe fatto nulla di male.
Il cinto di Ippolita
Ippolita, la regina delle Amazzoni, possedeva un cinto d’oro e d’avorio, regalatole dal padre Ares, che faceva gola alla figlia di Euristeo, Admeta. Eracle fu incaricato di esaudire il desiderio della ragazza nel modo più diretto che esiste: rubarlo. E fu così che il prode eroe insieme a dei suoi compagni, dopo una serie di peripezie, riuscì a strappare il cinto dalla vita di Ippolita e devolverlo ad Admeta.
Il cinghiale di Erimanto
A sud-ovest dell’Arcadia si erge il monte Erimanto. Qui, sulle pendici inesplorate e oscure viveva un cinghiale irsuto e selvaggio che distruggeva i raccolti e nessuno riusciva a fermare. Il suo annientamento costituisce la quarta fatica del nostro protagonista. Stavolta la cattura avvenne per mezzo di una rete che consentì ad Eracle di portare la preda viva al cospetto del re. Questo come in altre occasioni preso dal panico alla vista del trofeo ancora mobile si andò a nascondere in una giara.
Le cavalle di Diomede
Diomede, re di Tracia, possedeva una mandria di splendide cavalle che invece di nutrirsi di fieno, come tutte le altre, si alimentavano di carne umana. Euristeo le volle per se e incaricò Eracle di catturarle e portargliele. L’eroe andò, le catturò e le addomesticò. Come? Dandogli in pasto il loro padrone.
I buoi di Gerione
In questa impresa il semidio è costretto a recarsi ai confini occidentali del mondo allora conosciuto, alle “Porte d’Eracle” (Porte d’Ercole). Qui, sull’isola di Eritea, viveva Gerione, un gigante mostruoso con tre busti, tre teste e sei braccia, custode di una mandria di buoi, famosa in tutta la Grecia. Anche in questo caso l’eroe torna vincitore dall’impresa dopo aver fatto fronte a svariate peripezie che lo videro alle prese con diversi mostri e pirati lungo le coste dell’Africa mediterranea.
I pomi delle Esperidi
Sempre alle estremità occidentali del Mediterraneo, forse ai piedi della catena dell’Atlante, in Marocco, prosperava un giardino particolarissimo, dove vegetavano alberi molto particolari, meli dai pomi d’oro: il giardino delle Esperidi. Le Esperidi erano tre ninfe che insieme ad un drago dalle cento teste erano state messe a guardia del giardino da Hera per impedire alle figlie di Atlante di andare a rubare le crisomele. Prima di giungere sul posto Eracle dovette far di nuovo fronte a diverse avventure. Una delle più famose è quella in cui l’eroe dovette affrontare Anteo, figlio di Gea, quindi quella che lo portò a liberare Prometeo dal supplizio inflittogli da Zeus per aver carpito il segreto divino del fuoco. Non solo, ma stavolta ebbe notevoli difficoltà anche a indovinare il luogo dove sorgeva il famigerato giardino. Anzi, a dire il vero, egli non lo trovò mai, tuttavia riuscì lo stesso a rimediare le mele d’oro. Come? Si rivolse ad Atlante, il quale si fece convincere a portargliene tre in cambio di un momentaneo avvicendamento nel faticoso compito di portare il cielo sulle spalle. In realtà la generosità di Atlante nascondeva il piano di liberarsi per sempre da quella incombente servitù a cui era stato condannato dopo esser stato sconfitto con tutti i suoi fratelli, i titani, da Zeus e dagli altri dèi olimpi. Ma Eracle fu più lesto di lui. Infatti, astutamente, chiese al titano tornato con le mele se prima di lasciarlo a sorreggere il fardello gli permettesse di prendere almeno un cuscino per attutire il contatto fra la cupola celeste e le sue spalle, poco abituate a sorreggere simili pesi. Atlante acconsentì credendo alla buona fede del tebano, ma non appena si rimise sulle spalle il globo celeste, Eracle raccolse i tre pomi d’oro e riprese il viaggio di ritorno verso Argo. Come andò a finire questa fatica? Quando Euristeo ebbe le sue mele non sapendo cosa farsene le diede ad Atena, la quale, indovinate un po’, le riportò nel giardino delle Esperidi.
Cerbero
Avendole provate tutte e vedendo che l’eroe tornava sempre vittorioso Euristeo escogitò la più malefica delle imprese; un’impresa che costringeva il cugino ad affrontare addirittura il mondo dell’aldilà: catturare Cerbero il gigantesco cane a tre teste posto a guardia degli inferi. Stavolta Eracle però se la dovette vedere con Ade, signore dell’oltretomba. Ade acconsentì che il tebano si portasse via Cerbero ma ad un costo, quello che lo avrebbe potuto fare se fosse riuscito a domarlo con le sole mani. Così Eracle ingaggiò la lotta col canone a tre teste e incurante delle ferite procurategli dai morsi e dalle sferzate della coda riuscì alla fine a mettergli il guinzaglio. E anche stavolta, giunto che fu davanti a Euristeo, questi preso da un incontenibile spavento, filò dritto dritto a rifugiarsi in un’anfora, gridando di buttare fuori quell’orribile creatura. Non sapendo cosa farsene il buon Eracle pazientemente riportò Cerbero nel suo ambiente naturale: l’inferno.
Le stalle di Augia
Questa vicenda è l’unica che si svolge nell’Elide, la regione dove sorge il tempio di Zeus olimpo.
All’epoca dell’impresa re dell’Elide era Augia, figlio di Elio. Augia possedeva un’enorme quantità di capi di bestiame che si accalcavano in stalle rimaste incustodite da trent’anni. Non è difficile immaginare quali miasmi potevano provenire da lì e quali problemi igienico sanitari ma anche economici potevano procurare: l’accumulo di letame se da un lato rendeva sterile i campi per la mancata concimazione dall’altro portava inevitabilmente allo scoppio di epidemie. A questa situazione pose ancora una volta fine Eracle. La strategia adottata questa volta fu elementare: presa la vanga su indicazione di Atena si mise a scavare un canale per deviare le acque del Peneo in direzione delle stalle. Queste passando al loro interno portarono via il letame, quindi lo depositarono nelle campagne dell’intorno avviando la fertilizzazione del suolo.
Ecco dunque quali sono state le dodici fatiche che Eracle dovette affrontare per espiare le sue colpe. Che fine fece Euristeo?
Continuò le sue persecuzioni contro i figli di Eracle fino a quando non s’imbatté in Illo, che lo inseguì, lo uccise, gli tagliò la testa e la consegnò alla nonna Alcmena. Alcmena, come era uso allora fra i Greci, una volta avuta la testa di Euristeo in mano gli strappò via gli occhi dalle orbite.