ATENE
L’ACROPOLI DI ATENE
LE GUERRE PERSIANE E LA LORO IMPORTANZA
LA RICOSTRUZIONE DELL’ACROPOLI
SIGNIFICATO DEL TERMINE CLASSICO
LIMITI CRONOLOGICI E STORICI
ARCHITETTURA CLASSICA
IL TEMPIO GRECO
STRUTTURA DEL TEMPIO GRECO: PIANTA
ALZATO
GLI STILI ARCHITETTONICI
STRUTTURA DEL PARTENONE
SIGNIFICATO POLITICO E SOCIALE DEL MITO
VALORE STORICO ARTISTICO DELLE METOPE PARTENONICHE
VALORE STORICO ARTISTICO DEL FREGIO E DEI FRONTONI FIDIACI
ERETTEO
PROPILEI E TEMPIETTO DI ATENA NIKE
SCULTURA CLASSICA: LA NUOVA STATUARIA DEL PERIODO SEVERO
LE STATUE VOTIVE CLASSICHE
POLICLETO
MIRONE
FIDIA
LA STATUARIA NELL’ACROPOLI DI ATENE PRECLASSICA
KOUROI E KÒRAI
PITTURA GRECA: I VASI DIPINTI
PITTURA ORIGINALE GRECA NEI FRAMMENTI DI EPOCA ARCAICA
Atene
ACROPOLI: VEDUTA D’INSIEME, PIANTA E DISEGNO RICOSTRUTTIVO (seconda metà V sec. a.C.)
La storia della civiltà greca è storia di lotte e distruzioni non diversamente dalla storia di tante altre civiltà antiche (e non solo antiche). Dallo sconvolgimento socioeconomico dei secoli XII/VIII prima di Cristo, provocato dalla discesa dei Dori, si salva solo Atene. È la sola polis in tutti e i 2.500 kmq di territorio dell’Attica a sopravvivere alle ripetute invasioni delle genti del nord. Atene è una vera e propria oasi di pace interna e di continuità con la storia patria. Durante il IX secolo a.C., in pieno Medioevo Ellenico, è la sola città a crescere, sia a livello urbano che civile. Anteriormente al 1200 a.C. Atene resiste ad un primo attacco di una popolazione che usa seppellire i propri morti in un modo analogo a quello dei Dori. Molto tempo dopo, la città respinge un attacco dorico proveniente dall’istmo: è l’anno 1065.
Relativamente alla prima invasione, la leggenda narra del prode Eretteo, sesto o ottavo re di Atene, il quale respinse una banda di predatori del mare provenienti dalla Tracia, guidati da Eumolpo, figlio di Poseidone. Eumolpo morì per mano di Eretteo e questi, a sua volta, per mano di Poseidone, che volle vendicare col sangue la morte del figlio. Nonostante la forza suggestiva, da commedia tragica, la leggenda non la racconta giusta. Che questo Eumolpo fosse un invasore doro, almeno dal nome, non sembra, ma può essere anche che in realtà si chiamasse in altro modo e quello di Eumolpo probabilmente fosse un nome grecizzato. Una supposizione del genere si rende lecita dal momento che il figlio di questi, Immarado, porta un nome che certo greco non è.
All’epoca dei fatti di Troia, Atene è uno dei tanti siti micenei, ma la sua origine non è achea, bensì ionia. Alla stessa stregua delle città sorelle, deve sopportare l’aggressività dei bellicosi popoli delle montagne ed armarsi per respingere in più di un’occasione i loro feroci assalti. Il tema delle invasioni da parte di selvaggi abitatori delle giogaie ai danni dei civilissimi Greci alimenta spesso le vicende leggendarie della mitologia classica. Prova superlativa ne è la decorazione plastica del frontone occidentale del tempio di Zeus ad Olimpia che raffigura il brutale tentativo di sopraffazione dei Centauri perpetrato ai danni dei lapiti, durante le nozze del loro re Piritoo con Deidàmia. Ma l’Atene dell’età classica è tutta un’altra Atene. La sua storia inizia a cambiare quando la città decide di fondare la propria economia sull’industria e il commercio piuttosto che sull’agricoltura e la pastorizia, cercando di sfruttare la parte più generosa del proprio territorio: il mare. Così al posto dell’aristocrazia terriera, nella composizione sociale della città attica viene imponendosi una nuova classe sociale, la borghesia, industriale e mercantile. La borghesia è una classe assai diversa dall’aristocrazia e la sua forza cresce di pari passo ai traffici marittimi, tanto da cominciare a starle stretta l’organizzazione sociale draconiana, espressione politica del solo ceto aristocratico. Questa situazione a lungo andare rende inevitabile lo scontro fra le due classi. Vince la borghesia e un governo democratico assume per la prima volta nella storia il comando di un’intera comunità.
Come tutte le polis micenee anche Atene si sviluppa intorno ad un’acropoli. Quello che resta oggi dell’acropoli ateniese sono solo i pochi “resti ossei” di un organismo che a suo tempo doveva essere assai complesso e ricco di strutture. Le leggende greche indicano nell’acropoli di Atene l’altro luogo sacro, oltre all’isola di Creta, dove si trovava parte delle opere di Efesto e Dedalo, nonché il simulacro di Atena Polias, ovvero parte di quel complesso di manufatti a cui gli antichi ellenici attribuivano l’origine del loro linguaggio artistico e i cui canoni costituiscono a tutt’oggi le radici più profonde del nostro linguaggio espressivo. A Creta delle opere di Efesto e di Dedalo non è rimasta traccia e l’acropoli che troviamo oggi ad Atene non è quella del tempo di Cecrope e Dedalo, bensì quella del tempo di Pericle e Fidia, cioè a dire quella delle basi del linguaggio classico. Anche in questo caso dunque, come nel caso dell’arte cretese, cercando Dedalo si son trovate le nostre antiche radici, e anche stavolta tutto nasce da una catastrofe. Però non si tratta di una catastrofe naturale, ma di una devastazione di origine umana.
LE GUERRE PERSIANE E LA LORO IMPORTANZA
Le guerre persiane (490-480 a.C.) non sono state guerre come tutte le altre. Innanzi tutto hanno messo di fronte, per la prima volta nella storia, due mondi completamente diversi, due società agli antipodi, due opposte visioni della vita e dell’uomo, quella occidentale e quella orientale, quindi, fatto ancora più importante, sono state la causa contingente che ha determinato l’insorgere di una serie di valori i quali, ancora oggi, vengono ritenuti emblematici della civiltà occidentale.
La vittoria della Grecia rappresenta la vittoria della libertà sulla tirannide, intendendo con ciò la vittoria di un sistema politico fondato sul rispetto della libertà dell’individuo, quello democratico ateniese, contro un sistema politico fondato sulla cieca obbedienza ad un sovrano, quello tirannico persiano. Non solo, rappresenta altresì la vittoria dello spirito di solidarietà fra liberi cittadini, che per difendersi si armano e si organizzano in esercito, contro lo spirito di sudditanza fra uomini che combattono per il prestigio e l’arricchimento di chi li rende schiavi. Ma la vittoria della Grecia è anche la vittoria dell’intelligenza tattica sulla forza della superiorità numerica: a tal proposito si confrontino le cifre che indicano le perdite subite dai Persiani con quelle che indicano le perdite subite dai Greci nello scontro di Maratona.
Quanto detto però non va interpretato in senso assoluto. Sarebbe un errore. La libertà a cui si richiamavano i Greci, in generale, ma anche gli Ateniesi, in particolare, non era la libertà intesa come libertà universale; non riguardava tutti gli uomini indiscriminatamente, riguardava solo i borghesi. E i Persiani erano barbari solo perché così li vedeva la maggioranza dei Greci, o meglio così li doveva vedere la maggioranza dei Greci. Infatti sotto l’influenza della cultura dominante essi venivano considerati selvaggi effeminati, temibili solo per il loro numero, educati, secondo Erodoto (484-426 a.C.), solo ad andare a cavallo, uccidere e dire la verità. Ma non tutti si riconoscevano in questa immagine. Sempre secondo Erodoto, uomo obiettivo, i sudditi del “Gran Re” erano anche un popolo coraggioso, nobile, efficiente e devoto al suo sovrano. E anzi nota che non producevano statuette per il culto, né templi né altari, considerando sciocchi quelli che lo facevano. Per Dario (550-486 a.C.), sempre secondo Erodoto che conosceva i Persiani molto bene dato che era nato suddito persiano, i mercanti greci erano uomini il cui maggior impegno era quello di imbrogliarsi a vicenda.
Le guerre persiane non procurarono solo distruzione e morte, furono anche l’inizio di una nuova epoca: l’epoca classica. La vittoria di Atene era soprattutto la vittoria della borghesia, una nuova classe, imprenditoriale e progressista, assai diversa da quella della tradizione, aristocratica, autarchica e reazionaria, tutta tesa a conservare i propri privilegi in un mondo costretto all’immutabilità; una classe divenuta ora politicamente dominante su tutto il mondo ellenico, e che si doveva fornire di una propria identità anche sul piano culturale. Per questo si fece promotrice delle nuove forze intellettuali come quelle dei Milesi e degli artisti attici, che ben le si addicevano nel rappresentare il nuovo spirito greco, desideroso di conoscere e dominare il mondo, non con la forza bensì con l’intelligenza. Cosicché l’arte greca, da questo momento in poi, sarà la prima forma d’arte occidentale, poiché pone come principio base della sua formazione l’interpretazione individuale del linguaggio artistico. Ponendo a fondamento dell’arte la natura, i Greci della nuova generazione aprono l’esperienza estetica all’interpretazione del singolo artefice, e il mondo non è altro che il riflesso dell’interpretazione umana dei fenomeni naturali: in altri termini questo significa libertà espressiva dalle forme linguistiche imposte dalla tradizione. Attenzione però, va precisato che libertà espressiva non significa assenza di interpretazioni oggettive o dominanti, significa solo che l’artista ha l’obbligo dell’oggettività ma non è obbligato a seguire l’interpretazione dominante. Nondimeno significa anche che l’artista deve esser pronto a fronteggiare eventuali conseguenze derivanti dalla scelta di una interpretazione anticonformista.
LA RICOSTRUZIONE DELL’ACROPOLI
Quando gli Ateniesi tornano nella capitale, dopo la seconda e più tremenda invasione persiana, trovano una città completamente devastata; tutto è stato distrutto o portato via. L’acropoli, la rocca sacra, è diventata un accumulo di rovine bruciacchiate; delle centinaia di statue che si trovavano distribuite un po’ dappertutto non ci sono rimaste che membra sparse, basi divelte, volti deturpati; solo l’ulivo sacro ad Atena si è salvato. Davanti ad un tale desolante spettacolo gli Ateniesi sono assaliti da un grande senso di sconforto, ma non si lasciano abbattere, cosicché, passato il momento di smarrimento, si rimboccano le maniche e iniziano a tirare su una nuova Atene. Ed eccoli di nuovo al lavoro per ricostruire i templi distrutti e riparare quelli mutilati. Pazientemente si mettono a raccogliere tutte le statue votive sfasciate, ne fanno un gran mucchio e le seppelliscono in una grande fossa comune ricavata in un’area sita fra il Partenone e l’Eretteo, la cosiddetta “colmata persiana”. Questo provvedimento si rivelerà di enorme importanza per la storia dell’arte, poiché è proprio grazie alla colmata persiana che oggi possiamo sapere quale tipo di orientamento si seguisse ad Atene prima del V secolo a.C. Infatti fra il 1886 e il 1887 vennero riportate alla luce tutte le opere sepolte nella fossa. Ai nostri giorni quei reperti costituiscono gran parte della collezione che si trova esposta nel Museo dell’Acropoli di Atene.
La paura di un ritorno delle orde orientali fa volgere il primo pensiero degli strateghi ateniesi, come ovvio, ai lavori di consolidamento delle strutture difensive, per cui come provvedimento prioritario Temistocle (528-462 a.C. c.) fa ricostruire le mura dell’Acropoli a partire da quelle settentrionali, nonché il lungo corridoio che conduce al Pireo. Non si trascurano tuttavia i lavori di riordino e riedificazione degli edifici sacri, corredo statuario e pittorico compreso.
Quando nel 468 a.C. viene eletto alla guida della città Cimone (510-449 a.C. c.), figlio di Milziade (540-489 a.C. c.), l’eroe di Maratona, si ha l’inizio della vera e propria rinascita artistica dell’Acropoli. Per la sua ricostruzione egli vuole gli artisti più importanti del momento, e chiama a dar prova della loro abilità tante illustri personalità, fra cui Kalamis, Agelada, Kritios e Nesiotes scultori, Callicrate architetto, Polignoto di Taso e Pausania pittori. Tutti questi artisti provengono da varie regioni dell’Ellade; alcuni di loro, come Kalamis, Agelada e Kritios, giungono dalla Beozia, regione famigerata per i suoi bronzisti. La scelta di Cimone sembra dunque seguire una politica di eclettismo culturale panellenico, ma non è così. Infatti ciò che accomuna i vari maestri è una linea di ricerca ben precisa: tutti cercavano di imitare la natura. Cosicché, ancor prima di essere arrivati alla metà del V secolo a.C., come d’incanto, a forme approssimativamente antropomorfiche, ieratiche e inumane, si sostituiscono forme dall’aspetto più naturale e che danno il senso concreto della vita. Nasce in questo momento l’arte classica e con essa un nuovo mondo.
La comparsa della civiltà classica è senza dubbio l’avvenimento di gran lunga più importante nella storia dell’arte del mondo antico, e non solo nel campo della storia dell’arte. Nel suo ambito si compie la prima rivoluzione artistica della storia: da un linguaggio di origine mitica si passa ad un linguaggio di origine umana. Essa è alla base della civiltà occidentale, una civiltà che si distingue da quella orientale per una diversa concezione del rapporto uomo – dio – natura.
In realtà non si tratta della prima rivoluzione in assoluto, ve ne fu un’altra, circa novecento anni avanti, con Amenofi IV, il faraone Akhenaton, però questa non diede frutti duraturi, quella greca invece si.
SIGNIFICATO DEL TERMINE CLASSICO
Classico, classica, classici, sono termini con i quali ci s’intende riferire ad un tipo di orientamento artistico volto alla ricerca della forma ideale della natura; di questo indirizzo le opere del V e del IV secolo a.C. rappresentano senza dubbio il punto più alto mai toccato. Diverso è invece il significato del termine “classicismo”. Durante il corso della storia della civiltà occidentale, l’arte è tornata più volte sulla ricostruzione della forma ideale dell’essere alla luce dell’elaborazione artistica operata dai maestri greci del V e IV secolo a.C. A questo fenomeno ricorrente si è dato il nome di “classicismo”.
Non si sa bene dove abbia avuto origine il termine classico, né si sa chi lo abbia usato per primo per definire il periodo di Policleto, Fidia e Prassitele. Probabilmente la denominazione “classico” deriva dal latino “classicus”, che a sua volta discende da “classis”, termine con cui i Romani indicavano gli organismi compiuti, perfettamente organizzati, le cui parti concorrono tutte ad un unico scopo finale.
I problemi storiografici sul periodo più importante della storia dell’arte d’Occidente aumentano col passaggio obbligato sulla questione che riguarda le date d’inizio e di fine dell’epoca classica.
La suddivisione tradizionale vuole il periodo classico compreso nel V secolo a.C., tutto, fino oltre la metà del IV secolo a.C., che in termini storici significa dalle invasioni persiane alla morte di Alessandro Magno. Quindi verrebbero incluse in questo lasso di tempo tutte le opere che vanno dalle statue dei frontoni del tempio di Zeus ad Olimpia, fino alle 1.500 statue di Lisippo. Un’ipotesi un po’ più restrittiva fa coincidere il periodo in questione con la ricostruzione dell’acropoli di Atene e la sua profanazione per mano di Sparta, e quindi compreso fra il 447 a.C. e il 404 a.C., tagliando fuori cioè sia il Doriforo di Policleto che le opere di Skopas, Prassitele e Lisippo. Comunque stiano le date, oggi sembra prevalere la tendenza a far rientrare l’epoca classica tra i confini di due avvenimenti storici fondamentali: la seconda guerra persiana e la morte di Alessandro Magno avvenuta nel 323 a.C. A beneficio dell’altra datazione va detto che se è pur vero che la luce della civiltà ateniese sopravvisse alla sconfitta spartana, tuttavia nella cultura figurativa, e non solo in quella figurativa, il senso che si respira nelle opere prodotte dopo quest’ultima data non è più quello di olimpica serenità dell’epoca immediatamente precedente, in cui Atene dominava su tutto il mondo greco.
Atene, Acropoli
Ictino e Callicrate
PARTENONE (447/438 a.C.)
Marmo del Pentelico, fronte mt. 30,88 – fianco mt. 69,60
Nel quadro dei lavori di riallestimento dell’Acropoli, Cimone affida la costruzione di un nuovo tempio dedicato ad Atena Pallas a Callicrate. Questo tempio era chiamato Hekatómpedon perché lungo 100 piedi, equivalenti a 30 dei nostri metri. L’edificio non sarà mai portato a termine, e al suo posto sorgerà il ben più noto Partenone.
La morte di Cimone, avvenuta nel 449 circa, non ferma i lavori, provoca soltanto un avvicendamento fra gli artisti ai posti di comando. Il suo successore, il democratico Pericle (495–429 a.C.), figlio del generale Santippo (520-484 a.C. c.), stimatissimo membro di una delle più antiche e nobili famiglie ateniesi, preferisce allo staff scelto dal suo predecessore quello costituito dai suoi amici. Con loro rivede e amplia il progetto di ricostruzione cimoniano. Il disegno pericleo è davvero ambizioso e lo vuole realizzato in tempi brevi. Naturalmente ciò non è possibile se non con l’intervento di un’intera squadra di artisti. Per coordinare l’apporto di ogni singolo artefice nomina un episcopos, ovvero un sovrintendente. A ricoprire questo ruolo chiama uno degli artisti più noti dell’epoca: Fidia (490-432 a.C. c.).
Per la realizzazione dell’intero progetto ci vollero 43 anni, dal 447 al 404 a.C., 25 anni di più della ventennale egemonia di Pericle, esercitata ininterrottamente dal 449 al 429 a.C. I lavori della ristrutturazione periclea iniziano nel 447 a.C. con la costruzione del Partenone, per opera dell’architetto Ictino (V sec. a.C.), voluto da Fidia al posto di Callicrate (470–420 a.C. c.), lo stesso architetto che costruirà poi il Tempietto di Athena Nike e che porterà a termine la mole partenonica nel 438.
Il Partenone è il tempio dedicato ad Atena Parthenos, che vuol dire Atena vergine, con riferimento alla castità difesa strenuamente dalla dèa contro ogni tentativo di violazione. Il Partenone non doveva essere il tempio che solo gli Ateniesi dedicavano ad Atena, ma doveva rappresentare il tempio che tutta la Grecia offriva alla dèa vergine e guerriera. Ma la Grecia, in termini di espressione architettonica, fino a quel momento, si era espressa in tante lingue diverse, ovvero tramite tanti diversi stili. Ora, non si poteva innalzare un tempio rappresentativo di tutti i Greci costruendolo secondo le linee di uno stile in particolare. Fu stabilito così che nel Partenone fossero rappresentate le principali forme con cui si identificavano le varie tradizioni architettoniche. Inoltre il Partenone non poteva essere certo un tempio di media grandezza data la sua importanza, dunque si scelse la tipologia dei grandi edifici votivi come quelli dedicati a Zeus e ad Hera ad Olimpia, oppure ad Atena Aphaia ad Egina.
Atene, Museo Archeologico Nazionale
MODELLINIO DI TEMPIO ARCAICO (VIII sec. A.C.)
Dall’heraion di Argo, Grecia
Terracotta
Prima di procedere alla descrizione del Partenone è bene aprire una parentesi per capire esattamente cosa sono gli stili architettonici, nonché le tipologie templari. I primi templi greci vennero eretti in luogo dei santuari domestici a partire dall’VIII secolo a.C. Avevano una struttura molto semplice, realizzata per mezzo di materiali assai rustici, quali pietra e legno. Col passare del tempo le strutture andarono complicandosi, diventando sempre più articolate e ricercate nell’aspetto esteriore, cosicché dai santuari primitivi, costituiti di pochi elementi, si è arrivati alla creazione di templi composti da centinaia di elementi, dalle dimensioni imponenti e dagli aspetti più diversi.
Ogni tempio, se così si può dire, possedeva un suo “volto”, una sua “personalità”. Tuttavia, pur nel mutare continuo delle forme è possibile riscontrare il riproporsi di alcune parti fondamentali, sia a livello di pianta che di alzato. Questo fenomeno ha permesso agli studiosi di tutti i tempi, a partire dall’antica Roma per arrivare agli inizi dell’Ottocento, la redazione di una serie di schemi planimetrici e prospettici, che sono andati a costituire le cosiddette tipologie architettoniche.
I templi greci sorgono sempre in punti isolati, generalmente elevati, al centro della polis. Hanno pianta rettangolare (tranne che nelle tipologie a tholos e monoptera), con i lati corti orientati in direzione est-ovest e i lati lunghi orientati in direzione nord-sud; il fronte principale è quello rivolto ad est. I riti sacrificali si svolgono all’esterno, su appositi altari marmorei detti are.
STRUTTURA DEL TEMPIO GRECO: PIANTA
PIANTE DEI PRINCIPALI TIPI DI TEMPIO GRECO
Prendendo come esempio proprio il Partenone e seguendo un senso di lettura che va dall’esterno all’interno l’analisi della pianta rivela quale primo elemento in proiezione il crepidoma, ovvero la base dell’intera impalcatura, dopodiché un secondo elemento in sezione, il colonnato, quindi, il naos o cella, preceduta e seguita da altri due spazi, più piccoli, il pronaos, davanti, e l’opistodomos, sul retro. Il naos è il cuore del tempio, dove si conserva il simulacro della divinità. Ha una forma rettangolare, con i lati maggiori che si prolungano oltre quelli minori a formare due setti murari, le ante, e i lati minori che si dispongono trasversalmente rispetto ai maggiori, a chiusura della parte più sacra della costruzione. Il pronaos è costituito dalla porzione di spazio compresa fra la seconda fila di colonne, le ante e il lato breve della cella. L’opistodomos è l’esatta copia del pronaos, solo che si trova nella parte occidentale del tempio. Lo spazio compreso fra il giro esterno di colonne, il muro esterno della cella e il lato esterno del pronaos costituisce il peristilio (o peristasi).
PROSPETTI DEI PRINCIPALI TIPI DI TEMPIO GRECO
Ciò che sfugge al controllo planimetrico può risultare più comprensibile attraverso l’analisi prospettica. Sui nudi blocchi di pietra delle fondamenta, appena affioranti dalla linea del terreno, poggia la base di cui già si è detto. Il crepidoma è formato da tre gradoni squadrati, l’ultimo dei quali costituisce lo stilobate. Dallo stilobate si leva il colonnato, la struttura portante verticale, formato dall’insieme delle colonne. Ogni colonna è costituita da una base, un fusto e un capitello. L’aspetto di questi tre elementi varia a seconda dello stile del tempio in modo tanto caratteristico da essere assunto come fattore di distinzione dei diversi ordini architettonici.
La base della colonna ionica (non dorica come nel Partenone, ché nel dorico la colonna poggia direttamente sullo stilobate con l’imoscapo) è costituita da tre anelli, di cui due a sezione convessa, detti toros, e uno a sezione concava detto trochilo o scozia o gola. Il fusto ha una forma cilindrica, molto allungata, che va rastremandosi, ovvero restringendosi leggermente verso l’alto. Il cerchio di base è detto imoscapo, mentre quello posto alla sommità è detto sommoscapo. Ad un terzo dell’intera altezza il fusto presenta un rigonfiamento, più o meno pronunciato, detto entasi. L’entasi ha lo scopo di rendere meno rigida, meno legnosa, più plastica la colonna. Ogni fusto ha un numero variabile di scanalature, 20 in media, a seconda degli stili. Il capitello è formato da due elementi essenziali: l’echino che è l’elemento di sotto, e l’abaco, che è quello di sopra. Sul colonnato poggia la trabeazione, ovvero la struttura portante orizzontale. La trabeazione è composta da tre fasce distinte: una inferiore detta architrave o epistilio, una superiore detta fregio, e la cornice trasversale detta geison orizzontale. Sulla trabeazione imposta la copertura. Questa è costituita da due frontoni triangolari e dal tetto vero e proprio. Ogni frontone è costituito dal timpano, una zona vuota che ne ricalca la forma triangolare, racchiusa fra una parete di fondo, la geison orizzontale, e le due cornici inclinate dette rampanti, inserite a copertura della linea di defluenza delle falde del tetto. Sopra le due cornici oblique corre la gronda o sima.
Il tetto è costituito da due falde spioventi. I due lati corti costituiscono la linea di defluenza, mentre i lati lunghi costituiscono la linea di colmo, quella in alto, e di sponda, quella in basso.
A coronamento del tetto, e anche dell’intera struttura, si levano, dalla linea di colmo e da quella di sponda, gli acroteri, mentre dalla sima sporgono le antefisse. Gli acroteri sono decorazioni plastiche a tuttotondo, cioè scolpite come se si dovesse ricavare un calco dell’intera figura, ritraenti di solito divinità e altre figure mitologiche. Le antefisse sono elementi decorativi, tipo teste leonine, che accolgono ad intervalli regolari le bocche di defluenza delle acque piovane, convogliate dalla sima. Il numero degli acroteri varia in rapporto alla grandezza del tempio, però è da ritenersi classico quello formato da tre unità sulla linea di colmo e sei sulle due linee di spiovenza. La grandezza degli acroteri può arrivare a toccare i due metri e mezzo, per quelli posti sul colmo del tetto, mentre il metro e mezzo per quelli posti sulle sponde. La loro dislocazione trasversale è tipica: tre sui frontoni e tre sulla sezione di mezzo del tempio.
ORDINE DORICO
La distinzione degli elementi strutturali architettonici classici in stili non si deve ai Greci, ma a Vitruvio, un architetto romano, divenuto celebre per aver scritto il “De Architectura Libri Decem”, un trattato sull’architettura, composto di dieci tomi. Ogni tomo affronta un argomento specifico relativamente a questioni riguardanti l’intero campo delle costruzioni, dalla composizione del calcestruzzo alla decorazione. Il più noto di essi è il IV, che tratta della codificazione degli ordini fondamentali dell’architettura. Di Vitruvio si sa poco e niente di certo. Non si sa il nome: forse Marco Pollione; non si sa in quale secolo sia vissuto, se sotto Augusto o Tito, se nella tarda romanità o se non addirittura nel X secolo. La fortuna della sua opera inizia in età rinascimentale con la trattatistica cinquecentesca, bisognosa di solidi riferimenti antichi. Gli ordini o stili classici vitruviani sono tre: dorico, ionico e corinzio.
Nell’ordine dorico, come quello esterno del Partenone, i gradoni del crepidoma sono semplicemente appoggiati l’uno sull’altro, senza particolari riguardi per la linea di contatto fra un gradone e l’altro. La colonna poggia con il fusto direttamente sullo stilobate, cioè è sprovvista di base. Il fusto è alto fino a sette volte il diametro dell’imoscapo; tutto intorno è solcato da un numero variabile di scanalature verticali, 20 in media, abbastanza ampie, a sezione semilunata, il cui crinale divisorio è a spigolo vivo. L’attacco del capitello è preannunciato dal collarino, un intaglio circolare molto sottile, trasversale rispetto alle scanalature, introdotto a puro scopo estetico. L’echino è a forma di scodella, mentre l’abaco è un prisma a base quadrata, molto schiacciato. L’architrave è liscio e senza partiture; il fregio è suddiviso in triglifi e metope. I triglifi sono lastre di marmo solcate da tre scanalature a sezione triangolare, mentre le metope sono lastre modellate a bassorilievo, cioè scolpite in modo tale da far emergere solo la metà della figura.
ORDINE IONICO
Nell’ordine ionico, come quello dell’Eretteo e del Tempietto di Athena Nike, la linea di contatto fra un gradone e l’altro è contrassegnata da un sottile ricorso rientrante. La colonna non poggia con il fusto direttamente sullo stilobate ma su una base, costituita da due toroi ed una gola. Il fusto è alto fino a otto volte il diametro dell’imoscapo, e anche in questo stile risulta solcato da scanalature verticali, oltre le 20 di media, a sezione semilunata, il cui crinale divisorio è spianato, per cui vengono dette scanalature a pianetto. L’attacco del capitello è preannunciato da un collarino a ovoli. L’echino ha una forma inconfondibile, a doppia voluta, mentre l’abaco è una lastrina molto sottile, dai lati semiarcuati. L’architrave è tripartito, cioè suddiviso in tre fasce dallo spessore digradante verso il basso; il fregio è continuo, cioè non è suddiviso in triglifi e metope. Lungo tutta la sua estensione accoglie raffigurazioni in bassorilievo che si susseguono ininterrottamente senza cesura alcuna.
ORDINE CORINZIO
L’ordine corinzio, per vedere il quale bisogna scendere dall’Acropoli e recarsi alla Plaka per far visita al Monumento Coregico a Lisicrate, è praticamente in tutto simile allo ionico, tranne che per alcuni elementi strutturali, come il capitello, tipico, e le proporzioni, assai più monumentali. Il primo particolare è costituito dalla base della colonna, la quale poggia su un dado quadrato detto plinto; il secondo è costituito dal numero delle scanalature, ancora più numerose che nello ionico; il terzo è costituito dall’altezza del fusto, fino a nove volte il diametro dell’imoscapo. Ma queste differenze sono minime e possono sfuggire ad un ‘occhio poco attento; la differenza più appariscente la fa l’echino che nel corinzio assume una forma davvero unica. Infatti si è trasformato in un elemento plastico, una scultura, che prende a modello l’acanto, una labiata (pianta erbacea, parente dell’ortica), dalle foglie spettacolari. L’abaco, dal canto suo, accanto ad una presenza così esuberante, non può apparire altro che un giunto di raccordo, un piano di spessore ridotto, dai lati leggermente inflessi verso l’interno.
TIPOLOGIE ARCHITETTONICHE
Oltre ad aver ispirato gli stili, l’architettura greca è stata fonte di classificazione per tipi architettonici. Le tipologie architettoniche seguono due criteri: secondo la pianta e secondo il prospetto.
Le principali tipologie secondo la pianta sono:
- in antis, con due colonne sul fronte esterno del pronaos, con il diametro di base allineato parallelamente alle pareti minori della cella e perpendicolare alle ante laterali;
- doppio in antis, con due colonne nel pronaos e due nell’opistodomos, disposte come nell’antis;
- prostilo, con quattro/sei colonne sul fronte esterno del pronaos;
- anfiprostilo, con quattro/sei colonne nel pronaos e quattro/sei nell’opistodomos;
- periptero, con un giro di colonne intorno al naos;
- diptero, con un doppio giro di colonne intorno al naos;
- a tholos, con un anello di colonne intorno al naos, in questo caso circolare: si potrebbe assimilare ad un periptero tondo.
Le principali tipologie secondo il prospetto sono:
- distilo, con due colonne sul fronte;
- tetrastilo, con quattro colonne sul fronte;
- esastilo, con sei colonne sul fronte;
- ottastilo, con otto colonne sul fronte;
- decastilo, con dieci colonne sul fronte;
- dodecastilo,con dodici colonne sul fronte;
per i templi greci;
- pentastilo, con cinque colonne sul fronte;
- eptastilo, con sette colonne sul fronte;
- ennastilo, con nove colonne sul fronte;
per i templi della Magna Grecia.
Tornando al Partenone, analizziamone ora la struttura partendo dalla pianta.
All’esterno il monumento segue la tipologia periptera ottastila di ordine dorico, ma la colonna è alta otto volte il diametro dell’imoscapo e non sette, come nei templi dorici precedenti. Le colonne sul fianco sono 17, nel classico rapporto di 1:2+1. All’interno il naos segue la tipologia anfiprostila esastila di ordine ionico. Questo è diviso in due ambienti: uno rivolto ad est, ripartito in tre navate da un colonnato dorico a due ordini; l’altro, rivolto ad ovest, costituito da un grande spazio più largo che lungo, incentrato su quattro poderose colonne ioniche (o corinzie secondo altri). Il primo ospitava il simulacro della dèa; del secondo, che ricorda nel suo aspetto il megaron miceneo, non è stato ancora possibile definirne con esattezza la funzione. Si pensa sia stato il luogo di raccolta del tesoro, nonché del corredo sacro, fra cui il peplo, utilizzato durante lo svolgimento dei riti religiosi. Le dimensioni del tempio sono ragguardevoli: circa 31×70 mt., la base esterna; circa 22×60 mt. il perimetro esterno della cella. Il peristilio risulta alquanto stretto: poco più di mt. 2,50.
Londra, British Museum
Fidia
METOPA DEL PARTENONE CON SCENA DI CENTAUROMACHIA (447/442 a.C.)
Marmo del Pentelico, altezza mt. 1,34 – larghezza mt. 1,27
La trabeazione esterna, dorica, era costituita da 92 metope e 96 triglifi, nella sequenza di 14 metope e 15 triglifi su ogni frontone, 32 metope e 33 triglifi per ogni lato. Su quelle del lato principale, il lato est, c’era raffigurata la gigantomachia, cioè la lotta dei Greci contro i Giganti; sul lato opposto, l’ovest, c’era raffigurata l’amazzonomachia, ovvero la lotta dei Greci contro le Amazzoni; sulle metope del lato nord veniva riportata l’iliupersis, cioè la lotta fra Greci e Troiani; e su quelle del lato sud la centauromachia, vale a dire la lotta fra i Greci e i Centauri. Dunque tutti soggetti bellici, abbastanza frequenti nell’arte greca.
SIGNIFICATO POLITICO E SOCIALE DEL MITO
Nell’arte greca ricorre spesso la tematica bellica. Il significato di queste battaglie è già stato accennato precedentemente. Cerchiamo ora di approfondirlo.
I Greci sono fra tutti i popoli dell’antichità, senza alcun dubbio, i meno orientali e anche i più emancipati sul piano dei diritti. La loro civiltà è fondata sulle capacità e le doti umane, prima fra tutte il raziocinio. È con loro che nasce la speculazione filosofica, la storia, la scienza. Consapevoli di essere uomini nuovi in un mondo di genti legate alla sopravvivenza del passato, la fantasia dei cantori ellenici ha inventato nuove tematiche per lo scalpello degli scultori e il pennello dei pittori. La principale di esse, abbiamo visto, quella che ricorre con maggiore frequenza nelle raffigurazioni dei fregi, è quella che ha come argomento la lotta fra la civiltà, rappresentata dai Greci, e la barbarie, rappresentata ora sottoforma di vecchie divinità ora di mostri. Ad un livello più profondo questo conflitto sta a significare la lotta fra nuove e vecchie strutture per l’affermazione di una civiltà più moderna, fondata su un uomo nuovo, libero da pregiudizi, convinto assertore della supremazia della ragione, contro l’uomo schiavo dei poteri assoluti e delle superstizioni. In questa battaglia, mitica e reale allo stesso tempo, le divinità scendono in campo insieme agli uomini per assisterli, incoraggiarli, aiutarli con i loro poteri sovrumani. Fra i combattenti si distinguono gli eroi, semidei a cui è demandato il compito di prodursi in imprese eccezionali, esemplari, che fungano da modello per tutti gli uomini. Gli eroi greci sono uomini sereni, sicuri di sé, certi del favore degli dèi. Dal loro volto traspare equilibrio interiore, la famosa “serenità” olimpica; il loro fisico è atletico, asciutto, proporzionato: chiaro segno di limitatezza negli eccessi; le loro movenze armoniose, pacate: chiaro segno di dominio su sé stessi. Tutto questo viene espresso in arte con la ricerca dei tre principali valori estetici: la proporzionalità aurea, il chiasma e la ponderazione.
VALORE STORICO ARTISTICO DELLE METOPE PARTENONICHE
Le metope partenoniche non hanno solo valore culturale storico, ma anche storico artistico. Sono le prime opere del programma decorativo plastico ad essere eseguite. Furono realizzate dal 447 al 442 a.C. In esse si conserva ancora tutto il vigore e la robustezza dello stile severo. È accertato dagli esperti che alla loro realizzazione lavorassero diversi artisti e che soltanto in alcune è ravvisabile l’intervento di Fidia in persona.
Londra, British Museum
Fidia
FREGIO INTERNO DEL PARTENONE (445/438 a.C.)
Marmo del Pentelico, altezza mt. 1,06 – lunghezza mt. 1,60
Alla sommità della parete esterna del muro perimetrale del naos, correva, per 160 mt., un fregio continuo ionico. Fu eseguito intorno al 440 a.C.; nella sua esecuzione la mano di Fidia si fa sentire in maniera molto più massiccia. Vi era raffigurata la lunga processione che si svolgeva nel corso delle Panatenee. Il lungo nastro continuo iniziava dall’estremità ovest, seguitava lungo le pareti nord e sud della cella e, seguendo due direzioni parallele, si dirigeva verso il fronte est per riunirsi nelle immagini centrali dell’intera composizione costituite da otto dèi, comodamente assisi e volti quattro verso destra e quattro verso sinistra. Le Panatenee erano feste panelleniche, cioè feste a cui partecipavano tutte le poleis della Grecia, istituite da Pisistrato in sostituzione delle antichissime feste locali in onore di Atena Polias. Si svolgevano ogni quattro anni e culminavano in solenni cerimonie religiose in onore della dèa. Le feste contemplavano concorsi musicali, danze pirriche, e soprattutto gare sportive, fra cui corse di cavalli e di uomini, lotta, pugilato, salto e lancio del disco. Durante le Panatenee, che si tenevano nel mese di ecatombeòne (luglio/agosto), giorno della nascita della dèa vergine, si svolgeva una solenne processione in cui veniva portato il peplo alla venerata statua di Atena Polias, tessuto dalle arrhephóroi e dalle ergastínai. Le arrhephóroi erano bambine di nobile famiglia, di età compresa fra i 6 e gli 11 anni, addette al culto della dèa, che per un anno intero vivevano nell’arreoforio, locale di mt. 8,50 x mt. 4,50, con una stoà di mt. 4. Le ergastínai erano nobildonne e giovinette rigorosamente ateniesi.
La processione si snodava lungo la via sacra che dal Ceramico, il quartiere posto al centro della città dove si aprivano le numerosissime botteghe dei maestri vasai, saliva verso l’acropoli, costeggiando dapprima il fianco settentrionale della rocca, per entrare poi nel recinto sacro attraverso i Propilei e terminare davanti al lato orientale dell’Archàios Nàos.
Fidia
I FRONTONI (438/432 a.C.)
Disegni ricostruttivi
Le ultime sezioni del Partenone ad essere realizzate furono i frontoni: prima quello est, poi quello ovest. La data va dal 438 al 432 a.C.: sono passati quindici anni dall’inizio dei lavori.
Sul frontone est siamo all’inizio dei tempi: Zeus partorisce dalla propria testa Atena, dèa della guerra, dell’intelligenza e della scienza; assistono al lieto evento tutti i principali eroi, protagonisti delle leggende ateniesi. Sul frontone ovest siamo al tempo della fondazione del regno dell’Attica nel 1550 (o nel 1650) a.C. Sul trono siede Cecrope, primo anax (re) e fondatore di Atene, figlio di Gea (la terra) e per questo raffigurato tradizionalmente mezzo uomo e mezzo serpente, ma non qui, nel Partenone. Cecrope era il capostipite di una nuova civiltà, la civiltà ateniese che si fondava sull’antropocentrismo, in cui tutto veniva rapportato all’uomo e alla sua mente, ma soprattutto era una civiltà che voleva cancellare il passato arcaico in cui permanevano reminiscenze orientali. Egiziano di nascita, Cecrope fece costruire l’Acropoli, pubblicò leggi, diede forma alla religione e istituì l’Areopago. Di fronte a lui, per il possesso dell’Attica, stanno Atena e suo zio Poseidone in procinto di sfidarsi in una singolare gara. Questa consisteva nel fare un regalo ad Atene e alla sua terra. Vinceva chi fra i due contendenti avesse offerto il dono più utile. Poseidone le regalò l’acqua, facendola zampillare direttamente dalla roccia con un colpo di tridente; Atena le offrì un albero d’ulivo, facendolo sorgere miracolosamente dalla dura pietra. La gara fu vinta da Atena.
VALORE STORICO ARTISTICO DEL FREGIO E DEI FRONTONI FIDIACI
Nel fregio e nei frontoni Fidia supera tutto ciò che ancora di meccanico e innaturale era rimasto nelle pur altissime opere di scultura del proprio tempo. Le sue statue rompono definitivamente il rapporto di dipendenza che vedeva ancora legate quelle dei suoi colleghi con il vuoto dell’intorno. Per la prima volta la statua è un essere senziente che determina con le sue azioni, con la sua volontà la forma dello spazio, dunque la forma dell’immateriale, dell’invisibile, dell’impalpabile: in altri termini è la volontà umana a dar corpo allo spirituale. Nessuno prima di Fidia era arrivato ad un tal grado di libertà. Egli è il maggiore dei classici nella misura in cui riesce ad esprimere la massima libertà entro il massimo rispetto dei limiti consentiti dalle regole prestabilite.
Atene, Acropoli
Filocle
L’ERETTEO (421/405 a.C.)
Marmo del Pentelico, fronte del corpo principale mt. 11,21 – fianco mt. 20,03
In seguito alla ricostruzione postbellica dell’Acropoli gli Ateniesi, a ricordo del passato mitico, vollero riunire i punti più sacri della loro storia più antica in un unico edificio, e così sorse l’Eretteo, una delle quattro perle dell’architettura classica ateniese. Di questo celebre edificio oggi non è rimasto che una candida crisalide vuota. Qui, dentro il suo ventre e nelle sue immediate vicinanze, c’erano custoditi i segni lasciati dalle vicende che diedero origine ad Atene e alla sua regione, l’Attica.
Qualche tempo dopo la disputa con lo zio, Atena, dèa vergine e guerriera, sfuggì ad un tentativo di stupro da parte di Efesto (Vulcano), dio brutto e zoppo. Conseguenza del riprovevole episodio fu che il seme del dio del fuoco si sparse a terra e generò Erittonio, quarto re di Atene. Anche Erittonio, come il suo predecessore Cecrope, dal momento che era nato dalla terra, ebbe un aspetto alquanto inquietante: metà uomo e metà rettile. La bellissima ma gelida Atena, di fronte al mostro, frutto di un gesto scellerato, si mosse a compassione e, messo da parte lo sdegno per l’affronto subito, affidò lo sfortunato neonato alle cure delle figlie di Cecrope e di Agràulo: Aglauro, Erse e Pandroso, ovvero le Aglauridi. Le tre sorelle ricevettero da Atena un cesto chiuso contenente il neonato mostro Erittonio con la precisa raccomandazione di non aprirlo mai per guardare cosa ci fosse dentro, altrimenti sarebbero divenute immediatamente pazze. Ma la curiosità delle tre sorelle era troppo forte e così contravvennero all’ordine della dèa con la conseguenza che impazzirono e si gettarono nel vuoto dalla rocca, soccombendo tutte e tre. In seguito alla disgrazia Agràulo, madre delle Aglauridi, prese il posto delle figlie e s’impegnò ad allevare il piccolo Erittonio. Questi crebbe, nonostante l’handicap, sano, robusto e intelligente, tanto da essere onorato come uno dei maggiori sovrani di Atene. Riconoscente per averlo salvato Erittonio fece innalzare un tempio ad Atena, il tempio di Atena Polias, l’Archàios Nàos, per custodire la sacra immagine lignea della dèa, caduta sull’acropoli dal cielo. Sempre in onore della dèa vergine guerriera, Erittonio istituì le feste panatenee, nel cui ambito, come già ricordato, si svolgevano anche delle competizioni sportive. Per tali competizioni Erittonio inventò la corsa delle quadrighe. Oltre a queste, il re ateniese istituì le feste dei misteri eleusini.
Sesto re di Atene fu Eretteo, al cui nome fu affidata la perpetuazione nei secoli di uno dei più insigni monumenti dell’età classica, l’Eretteo per l’appunto. A lui è legata la vicenda che concluse la lotta fra Atene e Eleusi accennata all’inizio di questa visita all’arte greca del periodo classico. Per placare l’ira del dio del mare, padre di Eumolpo ucciso da Eretteo, i suoi nipoti, i figli del fratello Butes (o Butas), nonché i discendenti tutti, i Butadi, si votarono a diventare sacerdoti del dio, se uomini, o sacerdotesse di Atena Polias, se donne.
Tutte queste istituzioni conobbero un periodo di oblio durante i secoli bui del Medioevo Ellenico, fino a quando non furono ripristinate da Pisistrato nel 566 a.C. Le prove dell’avvenuta sfida si trovavano ancora in epoca classica in due spazi distinti dell’Eretteo. Nella cella cultuale dedicata ad Eretteo e Poseidone si trovava l’impronta del tridente con la polla d’acqua che da essa ne era scaturita, mentre l’ulivo sacro si trovava al centro del giardino del Pandroseion, il tempietto dedicato a Pandroso, una delle tre Aglauridi. Adiacente al tempio bi-cultuale, separato da un muro, ma in comunicazione attraverso una o due porte, si apriva, protesa ad est, la nuova cella dedicata alla vecchia statua lignea di Atena Polias, una delle due uniche testimonianze rimaste di quelle antiche vicende. Ad ovest della parete sud si staglia l’altra testimonianza, la loggetta delle Cariartidi con la sua inconfondibile sagoma.
La loggetta delle Cariartidi è il sepolcro dove riposavano le spoglie, presunte, di Cecrope. È sostanzialmente una veranda porticata, in cui a sorreggere la copertura trabeata al posto delle colonne ci sono statue raffiguranti splendide fanciulle peplate: le cariatidi. Cariatide sta per schiava della Caria (regione della Turchia egea). Le Cariatidi sono famose per aver ispirato numerosi saggi teorici sulle proporzioni e i canoni della bellezza classica. Non si conosce con sicurezza chi ne sia stato l’autore, ma il nome che ricorre più di frequente è il ben noto Alkamenes, uno dei più raffinati e capaci discepoli di Fidia.
Alle celle cultuali si accedeva attraverso due pronai: quello nord e quello est. Questi due pronai, il primo tetrastilo con due colonne sui fianchi e il secondo esastilo sono in perfetto stile ionico, tanto perfetto che a loro si guarderà d’ora in avanti ogni qualvolta si cercherà di costruire edifici o solamente parti in questo stile.
PROPILEI E TEMPIETTO DI ATENA NIKE
Atene, Acropoli
Mnesicle
PROPILEI (437/433 a.C.)
Marmo del Pentelico
Atene, Acropoli
Callicrate
TEMPIETTO DI ATENA NIKE (430/424 o 420 a.C.)
Marmo del Pentelico, fronte mt. 5,44 – fianco mt. 8,27
Gli altri due gioielli dell’architettura classica sono i Propilei e il cosiddetto tempietto di Atena Nike. I Propilei sono l’ingresso monumentale all’Acropoli. Chiaramente un luogo così importante non poteva avere un ingresso come tanti altri; ce ne voleva uno solenne, imponente, sontuoso. Questo ingresso lo crea Mnesicle. I Propilei, al plurale, e non propileo al singolare sono costituiti da due corpi, leggermente sfalsati tra loro, resisi necessari per via del dislivello presente nel punto esatto della loro collocazione, il fronte occidentale della rocca. Ogni corpo è organizzato in tre brevi navate, tre passaggi, di cui quello centrale più grande. I fronti, rivolti ad ovest e ad est, cioè quello rivolto alla polis e quello rivolto verso l’Acropoli, sono in stile dorico, mentre il colonnato divisorio delle navate è in stile ionico. La diversa ampiezza dei corridoi è in relazione alla loro specifica funzione durante le Panatenee. Infatti la processione che dal Ceramico saliva attraverso la via sacra all’Acropoli, al momento del suo ingresso nel recinto sacro formava tre ali, una centrale e due laterali. Quella centrale era costituita dai carri sacrificali, dal corpo sacerdotale, dai portatori di offerte e dai personaggi pubblici, mentre quelle laterali era formata dalla gente comune. Collegate ai fianchi destro e sinistro si aprivano la gipsoteca, la sala dove venivano conservati i marmi votivi, la pinacoteca, dove vi erano conservati i dipinti, e il portale d’ingresso allo spazio sacro riservato al Tempietto di Atena Nike.
Il tempietto di Atena Nike è opera di Callicrate ed è un vero gioiellino, una gemma. È un tempio anfiprostilo tetrastilo ionico. È dedicato ad Atena, dèa della vittoria, con evidente allusione alla vittoria di Atene sull’impero persiano. Sorge sul pyrgos, lo sperone di roccia da dove Egeo, padre di Teseo, vide le navi tornare dalla missione cretese con le vele nere spiegate al vento (vedi leggenda).
SCULTURA CLASSICA: LA NUOVA STATUARIA DEL PERIODO SEVERO
Atene, Museo dell’Acropoli
Kritios
EFEBO (480 a.C. c.)
Marmo di Paro, altezza cm. 86
Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Kritios e Nesiotes
TIRANNICIDI (477 a.C. c.)
Marmo di Paro, altezza mt. 2
Come si è detto precedentemente, l’arte per i Greci dell’epoca classica sorge dalla natura; il metodo operativo a cui si ricorre per trarla dalla realtà naturale è la mimesi; la tecnica che riflette meglio la mimesi è la scultura. Il passaggio dal periodo arcaico al periodo classico è contenuto tutto in un arco di tempo che comprende poco più di 30-40 anni di storia. La svolta si compie in una serie di opere con le quali la scultura greca si affranca definitivamente dall’influenza culturale del mondo orientale per intraprendere una strada completamente nuova e personale. Ad oggi la critica d’arte sembra essere d’accordo nell’indicare in alcuni monumenti e statue votive, realizzate fra il 490/480 e il 450 a.C., nelle zone della Grecia continentale che ha come centro ideale e geografico l’Attica, il nodo fondamentale del processo di rinnovamento. L’intervallo individuato viene definito con il termine di periodo severo.
Siamo negli anni che seguono la grande vittoria di Maratona (490 a.C.); alla guida di Atene c’è Temistocle. La prevedibile rivalsa dei Persiani sconfitti impone la prudenza. Temistocle pensa bene di rafforzare l’esercito in previsione di un nuovo attacco in forze del nemico. Non c’è tempo né denaro per dedicarsi all’arte, ciò comunque non significa che in terra greca non si faccia più arte. Risalgono proprio al periodo compreso fra le due guerre persiane opere di fondamentale importanza, sia per quanto riguarda la statuaria raffigurante singoli personaggi sia per quanto riguarda i gruppi frontonali, dove è possibile leggervi il passaggio dall’arcaismo al classicismo.
Dunque, benché il rinnovamento converga quasi tutto su Atene, non dipende solo da esperienze ateniesi.
All’epoca l’orientamento dominante è il naturalismo. Si sperimenta il nuovo spirito naturalistico oltre che nell’Attica in tutta la Grecia centrale: nell’Argolide, nella Beozia, nell’Eubea. Fra i primi artisti ad essere interpellati per dare forma alla rinascita di Atene c’è Kritios (V sec. a.C.) Nei due tirannicidi Armodio e Aristogitone, insieme a Nesiotes (V sec. a.C.) dimostra di essere un bel po’ oltre nell’acquisizione dei dettagli naturalistici rispetto alle statue dell’Archàios Nàos di Pisistrato (600-527 a.C. c.), tuttavia il movimento del gruppo plastico è ancora meccanico, dovuto più che altro ad una contrapposizione degli arti, ad una corrente energetica proveniente dal profondo della materia, più che da una forza biologica proveniente dalle viscere stesse del marmo. Ma quando dalle sue sole mani sgorga l’efebo, oggi esposto nel Museo dell’Acropoli, la svolta è ormai avvenuta. In questa statua, detta appunto efebo di Kritios, la rigidità arcaica è superata dalla particolare posizione delle gambe che rendono morbida la postura del corpo. Il peso dell’intera massa gravita sulla gamba sinistra, mentre quella destra è leggermente sollevata nell’atto di accennare un breve passo in avanti: è il principio della ponderazione, uno dei tre principali elementi che contraddistinguono lo stile classico.
Monaco, Germania, Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek
ATENA, ARCIERE SCIITA, GUERRIERI CADUTI E ALTRA FIGURA (490 a.C. c.)
Provenienti dai frontoni del tempio di Atena Aphaia a Egina
Marmo di Paro, altezze: Atena, mt. 1,68, Arciere Sciita, mt. 1,04
Il primo monumento a spingersi decisamente oltre l’arcaismo è il tempio dedicato ad Atena Aphaia, nell’isola di Egina. L’isola di Egina è un’isoletta che si trova nel Mar Egeo, di fronte alla costa ateniese, e più precisamente di fronte all’isola di Salamina. Più o meno al centro, su un colle isolato, si erge un tempio dorico dedicato non si sa bene a chi, se alla dèa Aphaia, una dèa locale, o ad Atena. Nei timpani dei due frontoni vi erano raffigurati, con statue perfettamente tornite in marmo di Paro, un marmo candidissimo, ora esposte a Monaco, due episodi delle lunghe guerre sostenute dai Greci contro uno degli avamposti più importanti della civiltà orientale: Troia. Sul frontone est era rappresentato un brano della prima guerra, combattuta da Eracle contro Laomedonte, re della città a quell’epoca; nel frontone ovest è raffigurata la ben più nota seconda, decennale guerra, quella che vide protagonisti Achille, Ettore, Agamennone e Priamo. Il tema non è casuale: allude nell’immediato, alla guerra greco persiana e, più in generale, alla contrapposizione fra i due blocchi armati, quello occidentale e quello orientale. In queste statue viene totalmente abbandonata la stilizzazione arcaica per orientarsi verso un inedito idealismo naturalistico. Infatti la novità più appariscente di queste opere plastiche consiste nella loro evidente tendenza a riferirsi alla realtà fisica del corpo umano nell’istante in cui si procede alla definizione del modello archetipo. Non solo, ma per la prima volta le singole statue si fronteggiano, stabilendo così tra loro un rapporto di tipo dialettico, per cui ad un’azione corrisponde una reazione. Non si conosce il nome dell’autore dei due gruppi marmorei, ma gli esperti sono concordi nel ritenerli opera di un unico artista di formazione attica.
Curiosità: questi due complessi plastici hanno costituito e costituiscono tutt’oggi un enigma, non si sa con certezza quale era la posizione originaria delle singole statue all’interno dei due frontoni.
Olimpia, Grecia, Museo Archeologico
Maestro di Olimpia
FRONTONI EST ED OVEST (465 a.C. c.)
Marmo di Paro, altezza mt. 3,1 – larghezza mt. 26,4
Comunque stiano messi i prodi guerrieri, il tempio di Egina è decisamente un passo avanti sulla strada della classicità. Ma il monumento che reca le prime inconfondibili tracce dell’indirizzo classico non è lui, bensì il tempio dedicato a Zeus ad Olimpia. C’è chi vede in quest’opera il precedente diretto del Partenone, non solo per via della struttura architettonica, ma anche per la decorazione marmorea. In particolare gli esperti vedono nelle statue del frontone occidentale il preludio a quelle, poco più tarde, dei frontoni del Partenone. Addirittura c’è chi vede in queste sculture l’influenza di un Fidia ancor che giovane già dotato di una sua ben definita personalità.
Il passo decisivo verso l’idealismo classico è rappresentato dal superamento della concezione compositiva paratattica in direzione di una raffigurazione sintattica. Le statue non sono più giustapposte, ma le une legate alle altre dalla continuità dell’azione; non sono come le pedine di una scacchiera, singoli elementi che si possono scambiare di posto, sono tutto un pezzo a cui non è possibile togliere niente, rischio la perdita dell’unità dell’insieme. Il tempio di Zeus ad Olimpia è universalmente noto per il suo naos in cui si ergeva, assisa in trono, la statua colossale di Zeus olimpo realizzata da Fidia, considerata una delle sette meraviglie del mondo antico, l’ultima opera del maestro.
Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Kalamis
AFRODITE SOSANDRA (650 a.C. c.)
Copia romana del II secolo dall’originale in bronzo
Marmo, altezza mt. 1,97
L’Acropoli non è stata mai fatta solo di templi e strutture architettoniche. Se ci fossimo trovati a camminare lungo la via sacra, all’interno delle sue mura, avremmo incontrato una quantità impressionante di statue votive: figure di singoli personaggi modellate in marmo o bronzo, steli, gruppi marmorei, quadrighe, erme. Erano talmente tante che molte venivano sistemate all’interno di un apposito edificio, collocato al lato nord dei Propilei, chiamato gliptoteca; più che in un recinto sacro dentro l’Acropoli sembrava di stare in un museo all’aperto. Di tutto questo immenso patrimonio si è conservato pochissimo, per lo più copie di epoca romana.
Ad esempio, ad attenderci sull’uscio dell’area sacra avremmo trovato l’Afrodite Sosandra di Kalamis (V sec. a.C.), una statua in bronzo del 465 a.C., completamente ammantata da un ampio Himation dorico, nota da una copia romana in marmo del II secolo, oggi custodita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Quindi ci saremmo trovati a tu per tu con opere divenute ormai mitiche, realizzate da autori dai nomi altrettanto mitici, che meritano un particolare approfondimento data la loro rilevanza storico artistica.
Napoli Museo Archeologico Nazionale
Policleto di Argo
DORIFORO (450 a.C. c.)
Copia romana dall’originale in bronzo, proveniente da Pompei
Marmo, altezza mt. 2,12
Due artisti rappresentano il punto d’arrivo della ricerca delle tre principali interpretazioni coinvolte nella definizione della forma ideale della realtà naturale, la dorica, la ionica e l’attica: Policleto, per la dorico-ionica, e Fidia, per la ionico-attica.
La tendenza dorica a ricercare l’arte nell’equilibrio di forme archetipe culmina nel Doriforo di Policleto (attivo tra il 460 e il 420 a.C.). In quest’opera si completa il processo di configurazione dell’archetipo umano in forme progressivamente meno astratte e sempre più vicine a quelle naturali iniziata col Kleobis.
Il Doriforo rappresenta tradizionalmente un atleta, un portatore d’asta. Dopo il rinvenimento dei bronzi di Riace però su questa ipotesi si è prodotto qualche ripensamento. Motivo scatenante è stato il braccio flesso, molto simile a quello dei due guerrieri, contrassegnati semplicemente dalle prime due lettere dell’alfabeto, A e B, ma soprattutto la mano, sembra identica. Questo particolare dovrebbe far propendere la critica verso la nuova ipotesi che vede nella statua policletea un portatore di scudo più che di asta, dunque un guerriero, non un atleta. La sicurezza potrebbe arrivare dal braccio disteso: la mano è la copia di quella della statua A, che, come la statua B, avrebbe dovuto impugnare una spada. Comunque stiano le cose, atleta o guerriero, il Doriforo è e rimane l’espressione visiva di una teoria: la statua come complesso armonico di misure, pesi e movimento. Questa teoria Policleto l’ha codificata in un “canone”, cioè una regola di proporzioni e di dosaggi, che, se applicata, porta alla creazione dell’opera perfetta. La prima di queste regole è la proporzionalità aurea.
Le proporzioni del corpo del Doriforo sono fondate su un particolare rapporto modulare fra le parti e il tutto. Il modulo di base è costituito da un quadrato in cui si inserisce perfettamente la testa reclinata della statua. Il rapporto del singolo modulo, quindi della testa, con l’intero corpo è di 1: 8, vale a dire che la testa entra otto volte nell’intera altezza del corpo. Questa misura vige anche per le porzioni più piccole. Ad esempio: la testa entra due volte nel tronco, tre fino all’inguine, quattro dall’inguine alla pianta del piede poggiato a terra; spalla, braccio e mano sono tre volte la testa. Lo stesso modulo serve anche come regolatore della larghezza: infatti la testa entra tre volte nella distanza che sussiste fra la mano del braccio disteso e il gomito del braccio flesso. Se l’ipotesi dell’atleta è valida, allora l’asta porta l’intero complesso all’altezza di nove volte il modulo.
Ora se inscriviamo la statua di Policleto in un rettangolo che abbia come misura di base cinque volte la testa, avremmo che il rapporto fra l’intera altezza e i 5/8 di essa è uguale al rapporto fra questa frazione e i rimanenti 3/8, ovvero la differenza fra l’altezza totale e la porzione maggiore. Se chiamiamo A il segmento che misura gli 8/8 dell’intera altezza del corpo, B la porzione di 5/8 e A – B quella di 3/8, allora, secondo la nota formula della sezione aurea di un segmento, troveremmo che A: B = B: (A – B). Dunque sembrerebbe che la statua per Policleto non è altro che una realzione di misure matematiche, ma non è così. Il modulo policleteo perché funzioni deve essere applicato su una statua che si trova in una particolare posizione che si potrebbe definire di equilibrio plastico, e cioè che abbia assunto un atteggiamento ponderato. La ponderazione consiste nella gravitazione del peso dell’intero corpo su una gamba, generalmente quella destra (rispetto alla statua), e nel leggero sollevamento dell’altra, cosa che conferisce alla figura una specie di stasi attiva. Ma non basta. Perché il proporzionamento aureo funzioni occorre un altro accorgimento, il chiasma (o chiasmo). Il chiasma consiste nella corrispondenza a X (chi per i greci) fra gli arti. Alla spalla destra, abbassata, corrisponde il ginocchio della gamba sinistra, anch’esso abbassato; alla spalla sinistra, alzata, corrisponde il ginocchio della gamba destra, alzato (sempre rispetto alla statua). L’azione congiunta della ponderazione con il movimento incrociato dei giunti articolari imprime al busto un piegamento verso destra, evidenziato dalla lieve linea curva che solca il torace nel mezzo.
In sintesi Policleto, partendo dalla tradizione e guardando ai risultati raggiunti fino a quel momento, porta la statua a configurarsi in un nuovo archetipo, che si pone come media fra la staticità della tradizione dorica e la ricerca di movimento dell’esperienze eginete, il Kleobis di Polymedes e il Discobolo di Mirone. Questa media si risolve in un rapporto razionalmente controllabile, che, nonostante infondi un nuovo senso di esistenza fisica alle statue, è pur sempre rispettoso della concezione arcaica del moto, come prodotto di un sistema di dislocamenti spaziali rispetto ad uno schema precostituito. Così facendo «Policleto fissa un nuovo valore concettuale della statua: non come simulacro immoto né come veristica rappresentazione di un corpo in movimento, cioè non come immagine dell’eterno né come copia del contingente, ma come immagine della vita, intesa come realtà assoluta che s’invera e rivela nel fluire del tempo e negli atti degli uomini» (Argan). Per lui l’anima della materia è l’esistere, che si configura come risultante della rappresentazione del movimento in una forma necessariamente statica. Eccellente risultato! Ma chi supererà ogni schema pur nel rispetto delle proporzioni, chi catturerà le spinte profonde provenienti dalle viscere dell’essere senza uscire dalle misure, sarà un altro artista, uno dei più grandi, se non il più grande di tutta la storia umana: Fidia.
Roma, Palazzo Massimo, Museo Nazionale Romano
Mirone di Eleutere
DISCOBOLO (metà V secolo a.C.)
Copia romana (detta ‘Lancellotti’) dall’originale in bronzo
Marmo, altezza mt. 1,24
Dall’Eubea proviene Mirone di Eleutere, uno dei più apprezzati bronzisti dell’epoca; autore di statue famose; attivo fra il 470 e il 420 a.C. Per l’acropoli di Atene realizza intorno al 450 a.C. il noto gruppo votivo di Atena e Marsia, ma la sua statua più nota è il Discobolo, compiuta circa dieci anni prima. Di quest’opera se ne conoscono diverse copie, tutte romane.
Nel Discobolo Mirone testa i canoni classici sul corpo in movimento. Il Discobolo, lo dice la parola stessa, rappresenta un lanciatore di disco. Mirone coglie l’atleta nel momento in cui ormai carico d’energia sta per compiere l’ultima flessione prima del lancio. La statua benché isolata, libera di muoversi nello spazio-ambiente, è contenuta tutta all’interno di due piani ideali paralleli, frontale e tergale, risultando così come un bassorilievo su un fondo venuto improvvisamente a mancare. L’espressività della statua dunque è concentrata esclusivamente sul lato frontale. Questo fatto le infonde una certa fissità, ne blocca il movimento, segno evidente che l’artista ricerca l’equilibrio statico nella dinamica dei movimenti. L’intero corpo poggia sulla gamba destra, mentre la sinistra si sta sollevando. Il movimento della gamba sollevata è ripreso ed equilibrato dal movimento opposto del braccio sinistro che si inarca verso terra; l’altra gamba è controbilanciata invece dal braccio destro. Questo si solleva a formare un altro arco che si collega al primo passando per la testa rivolta verso il basso e leggermente spostata verso destra rispetto alla linea mediana passante per il centro del torace. Ancora una volta dunque il movimento è ottenuto tramite un gioco di leve. La corrispondenza a X più che rilevarsi dalla posizione delle ginocchia in rapporto a quella delle spalle si può cogliere nei due grandi archi formati uno dall’asse mani-braccia-spalle l’altro da gambe-bacino-busto-testa che si intersecano sia alla base del collo che all’altezza delle ginocchia.
Mirone concepisce dunque la statuaria come rappresentazione di corpi in movimento: la statua cessa di essere un simulacro privo di anima se simula il movimento; per lui il movimento è la vera anima dello spazio.
Londra British Museum
Fidia
GRUPPO DI DIONE E AFRODITE (440/432 a.C.)
Proveniente dal frontone orientale del Partenone
Marmo del Pentelico, altezza mt. 1,20
Policleto e Mirone; due grandi; ma non abbastanza quanto Fidia. Fidia, questo mitico personaggio, è l’artista con cui gli storici dell’arte hanno da sempre identificato la classicità al suo livello più alto. Il nome di Fidia è legato più di ogni altro alla ricostruzione dell’acropoli di Atene dopo le distruzioni persiane. A parlarci di lui è lo storico Plutarco (46-127 d.C. c.). È lui che ne fa la mente direttiva, il supervisore dell’intera impresa periclea; anche degli edifici sacri, sebbene egli non ne sia stato l’esecutore materiale. Plutarco lo fa ateniese. All‘epoca dell’assunzione dell’incarico di sovrintendente all’opera di ricostruzione dell’Acropoli doveva essere sulla cinquantina, dunque era nato intorno al 500 a.C. Come artefice egli si trovava nel pieno della maturità artistica e godeva già di una notevole fama. Per l’Acropoli aveva realizzato su commissione di Cimone, la colossale statua di Atena Pròmachos, cioè l’Atena combattente, chiamata dagli stessi Ateniesi la “grande Atena di bronzo”. Di questa statua, che Pausania ci dice si vedesse anche dal mare, pagata con la decima del bottino della vittoria sui Persiani, oggi, è rimasta solo l’area della smisurata base. Ad essa sembra riferirsi un rendiconto di spese per l’acquisto di legna, carbone, argento, rame e stagno, per nove anni, tutti materiali necessari per la produzione del bronzo. L’Atena Pròmachos era posta all’ingresso dell’area sacra, a ridosso del muro di recinzione del tempio di Atena Polias, a sinistra della via che dai Propilei sale affiancando il lato nord del Partenone, per giungere all’altare della dèa, posto sul fronte est del tempio. Molto probabilmente la dèa guerriera era rappresentata in tenuta bellica, con elmo, lancia e scudo; si ignora però in quale posa Fidia l’avesse ritratta, se stante e ponderata o nell’atto di combattere.
Per conto dei coloni ateniesi in partenza per Lemno, Fidia aveva scolpito l’Atena Lemnia, dono votivo che ritraeva la dèa in piedi, col volto leggermente reclinato, con l’elmo tenuto nella mano destra abbassata. Di questa statua, famosa per la sua bellezza, rimangono, ma la cosa non è per niente sicura, un torso a Dresda e la bellissima testa conservata nel Museo di Bologna, detta Palagi.
Ancora di Fidia era l’Apollo Parnòpios (anche questo ricordato da Pausania) innalzato presso il Partenone a ricordo della protezione accordata dal dio in occasione di un’invasione di cavallette. Di questa statua è possibile farsene un’idea guardando a quella che viene ritenuta la sua copia più celebre, l’Apollo di Kassel. Ma in che cosa consiste la grandezza di Fidia?
Policleto e Mirone raggiungono la perfezione, ma le loro statue sono fredde, sono concetti universali tradotti in sembianze umane, vivono uno spazio metafisico, separato da quello naturale.
«Al virtuosismo di Mirone e alla tendenza teorizzante di Policleto, Fidia oppone un sentimento della realtà come divenire, cercando di trasporre nelle sue opere il ritmo vitale della natura e della storia»(Argan). Con Fidia le statue entrano a far parte della dimensione umana, diventano corpi animati che vivono immerse nello stesso spazio naturale in cui vivono gli uomini in carne ed ossa, respirano la stessa aria, sono sfiorate dallo stesso vento; solo con lui si supera quel che di astratto e meccanico si trova ancora nelle opere dei suoi contemporanei. Fidia è l’artista classico che raggiunge la massima libertà nel rispetto delle regole auree. Policleto, Mirone avevano testato il canone su figure in stasi e in movimento, ma le loro statue benché moderne erano sempre dei kouroi aggiornati. Solo con Fidia il freddo marmo inizia ad avere un’anima. L’anima fidiaca non è in conflitto con la natura; Fidia fonde la figura umana con lo spazio ambiente in un ritmo che è ad un tempo quello del divenire umano, la storia, e del divenire naturale, l’esistere. Solo con Fidia i canoni classici si estendono all’intera gamma delle emozioni umane, e lo dimostra nelle statue che ornano i frontoni del Partenone e il fregio del naos.
La tendenza ionica e attica a ricercare l’arte nell’equilibrio di luci, la prima, e di forze, la seconda, raggiunge l’apice nelle statue che decorano i frontoni del Partenone. Se per Policleto l’arte andava cercata in una compagine di forme, per Fidia, il più grande scultore di tutti i tempi, l’arte va ricercata nella sintesi fra movimento e luce; movimento creato dall’energia vitale proveniente dall’interno della materia, quell’energia attraverso cui le forze endogene dell’essere cercano di imporsi sulle forze esogene della natura. Se per Policleto la mimesi è la media matematica fra le dimensioni di forme in reciproco rapporto, per Fidia la mimesi è la media fra le esperienze concrete attraverso cui si è andata precisando, nel corso della storia, la forma ideale. La figura umana, la forma, non è il prodotto di leggi superiori, indipendenti dalla volontà dell’uomo, le leggi razionali della geometria e della matematica, ma è la risultante fra le forze indomite della natura e le forze dell’uomo nella loro totalità di passioni, ragione e obbedienza ai principi morali; cioè, in altri termini, l’essere umano nella sua completezza. Questo non si può ridurre a formule, non si può astrarre in una legge proporzionale; lo si può conoscere solo attraverso le testimonianze del suo agire, e questo agire è l’arte. È per tale motivo che le statue di Fidia sono così perfette, equilibrate e universali pur nella loro continua variabilità di atteggiamenti, di forme, di sentimenti umani. Sentimenti non espressi certo attraverso il volto, che resta olimpicamente imperturbabile, bensì attraverso le posture del corpo. «L’assoluta unità plastica e la chiarezza formale dei gruppi fidiaci derivano dalla confluenza di due processi tecnici di lavorazione: quello del marmo, con ampie masse e superfici aperte all’assorbimento e alla diffusione della luce, e quello del bronzo che, col suo modellato nervoso, si presta al gioco dei riflessi» (Argan). Tutto ciò si esprime stilisticamente attraverso il cosiddetto “panneggio bagnato”, cioè facendo in modo che le forme del corpo appaiano da sotto le vesti come se queste fossero bagnate.
LA STATUARIA NELL’ACROPOLI DI ATENE PRECLASSICA
La statuaria classica dell’Acropoli è stata preceduta da un altrettanto abbondante statuaria pre-classica. Più che quelle classiche, disponiamo oggi di un discreto patrimonio riguardo agli ex-voto del periodo precedente il V secolo. Queste statue miracolosamente ritrovate in discreto stato di conservazione nella colmata di Cimone sono molto importanti per la storia dell’arte in quanto ci permettono di seguire il passaggio stilistico dall’arcaismo alla classicità. Tutte sono oggi osservabili nel Museo dell’Acropoli di Atene.
I musei sono stati definite delle macchine del tempo. In quello dell’Acropoli è possibile, passando in rassegna le opere che vi sono raccolte, vedere come muta il linguaggio attico nella polis prima di Fidia e dei suoi colleghi, risalendo a ritroso nel tempo fino alla metà del VI secolo a.C. Nella stragrande maggioranza dei reperti l’orientamento dominante è quello attico, ma non mancano statue in cui si contraddistinguono i principali stili arcaici, il dorico, più severo ed essenziale, e lo ionico, più ricco di particolari e sfumature; stili che presentano evidenti segni di avanzamento riguardo all’interesse verso l’espressione del movimento. Moltissime sono kouroi e kòrai.
Non è facile spiegare cosa intendessero gli antichi Greci con i termini kouros e kòre (kouroi e kòrai al plurale). Queste parole infatti, sebbene vengano tradotte in italiano con il termine “giovane”, nel linguaggio greco antico non intendono indicare un’età particolare, dai 18 ai 23-25 anni, bensì intendono riferirsi all’uomo al culmine delle sue facoltà fisiche e intellettuali, tutte completamente sviluppate e non ancora soggette a decadenza. Di essi si sa con certezza che erano delle statue votive. La grande quantità di statue di giovani in un luogo sacro non la si spiega se non con il semplice fatto che “così piaceva agli dèi”.
Monaco, Germania,Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek, Monaco, Germania
KOUROS DI TENEA detto APOLLO DI TENEA (560 a.C. c.)
Marmo di Paro, altezza mt. 1,53
Nell’Attica il principio generatore che plasma la materia non è sentito come un complesso di forme, fisse, universali, uniche ed eterne, ma come un complesso di forze, che agitano dall’interno la materia, per spingerla alla conquista dello spazio esterno, a sua volta agitato da altre forze, che si contrappongono a quelle interne per ricacciarle indietro e sopraffarle. L’equilibrio dunque non è tra forme dalle caratteristiche strutturali diverse, ma tra forze attive e reattive. Compito dell’arte è quello di annientarne gli effetti stravolgenti, destabilizzanti, dirompenti, per ricondurre il tutto ad un’olimpica quiete. Nella visione attica, pertanto, contrariamente alle visioni dorica e ionica, la forma ideale viene interpretata come equilibrio di un complesso di forze, agenti e reagenti fra interno, i corpi, ed esterno, l’ambiente.
Nel kouros di Tenea, detto erroneamente Apollo di Tenea, la ricerca dell’anatomia, se paragonata a quella dei kouroi dorici e ionici, risulta aver compiuto notevoli passi avanti. Ma il suo attento studio non è dettato dalle necessità imposte dall’introduzione di un nuovo valore, l’imitazione del corpo umano, bensì dalla volontà di definire le linee di affioramento delle correnti di forza profonde che circolano all’interno della materia e che si manifestano all’esterno attraverso una serie di segnali particolari: il guizzo di un muscolo, un lieve corrugamento della superficie corporea, una impercettibile depressione, una lieve asimmetria. Così, nel cuore della Grecia antica, ad una linea di ricerca orientata a definire il puro essere nello spazio si va sostituendo una linea di ricerca orientata a definire gli effetti provocati dall’esercitare una forza nello spazio: sono i primi sintomi del passaggio da un linguaggio fatto di stilemi ad uno fatto di rappresentazioni. A livello estetico il tutto si declama mediante morbidi passaggi, senza urti, fra parti illuminate e parti in ombra, vale a dire attraverso la ricerca di una maggiore ricchezza di modulazioni chiaroscurali. L’impatto fra luce e materia è morbido come nello ionico, ma mentre in questo stile plastico le modulazioni luminose non tengono conto dell’anatomia dei corpi, in quello attico si.
Atene, Museo dell’Acropoli
MOSKÒPHOROS (570/560 a.C.)
Marmo Dell’Imetto, altezza mt. 1,65
Un’opera che ha fatto un primo decisivo passo avanti in direzione del naturalismo idealistico classico è il cosiddetto moscoforo, il portatore di vitello sacrificale; statua votiva offerta, stando all’epigrafe sulla sua base, da un certo Ròmbos, pio gentiluomo di campagna. Si vuole che la statua ritragga lo stesso offerente, ma stando al carattere puramente astratto dell’indirizzo estetico seguito, l’immagine potrebbe ritrarre chiunque. La sua posizione è ancora arcaica nell’impostazione, ma ci sono chiari segni di interessamento per una più accurata resa dei particolari anatomici, come i muscoli addominali, nonché quelli di braccia e gambe. Non si tralasciano neanche i particolari più piccoli, come l’ombelico, ma solo per ricordare il baricentro della statua: siamo intorno al 570/550 a.C.
Atene, Museo dell’Acropoli
KORE DI ANTENORE (530 a.C. c.)
Marmo, altezza mt. 2,15
Una serie di kòrai, tutte provenienti dall’Acropoli, tutte ex-voto, tutte conservate nel Museo dell’Acropoli, ci permette di seguire passo dopo passo la trasformazione della scultura greca fino alla nascita dell’arte classica. La peplofòros, la kore dal peplo, è del 530 a.C. È in stile dorico, riconoscibile dal rilievo asciutto che priva di pieghe il peplo indossato dalla fanciulla. Ionica è la kore di Chio, con peplo ricco di piegoline e ampio himàtion. È fra tutte le kòrai quella che ha conservato più evidenti e copiose le tracce di colore; la sua realizzazione risale al 510 a.C. Pure ionica è la bellissima kore del 500 a.C. dal volto accattivante. Attiche cominciano ad essere le altre kòrai del museo, tutte riconducibili agli ultimi anni del VI secolo, e attica è la nota kore di Antenore, la più imponente. Il segno distintivo dello stile attico sta soprattutto nell’energia che sembra sprigionare dalle statue. Ad esempio nella kore di Antenore lo spazio intorno alla statua sembra animarsi sotto l’effetto dell’incedere vigoroso della giovane. Ma la sua vitalità più che espressa dal movimento delle membra è espressa dalla variabilità della luce sulla superficie marmorea, ottenuta mediante la regolazione della direzione e della profondità delle pieghe degli indumenti.
Parigi, Museo del Louvre
Pittore dei Niobidi
LA STRAGE DEI NIOBIDI (460 a.C. c.)
Proveniente da Orvieto
Ceramica dipinta a figure rosse, altezza cm. 54
Se della scultura greca il tempo ha conservato qualche esemplare, della pittura ci ha lasciato solo dei pallidi frammenti. Tutto quello che sappiamo di essa lo dobbiamo alle fonti letterarie e ai riflessi iconografici delle figurazioni dipinte sui vasi. Sappiamo da Plutarco che la superficie interna delle pareti del naos del Partenone era decorata con dipinti che si disponevano su tre fasce sovrapposte. Sempre da lui sappiamo anche che metope e fregi dei templi, così come le statue erano colorate. A riprova di quanto affermato dallo scrittore sui frammenti di decorazione plastica si sono spesso trovate tracce di pittura. Diversi storici dell’antichità, fra cui Plinio il vecchio (23-79 d.C.), ci parlano poi di tavole dipinte e megalografie, molto apprezzate nonché tenute in grande considerazione dai Greci. Ebbene della pittura greca, decantata dagli antichi testimoni come eccelsa, non c’è rimasto praticamente più niente, o quasi. Eppure la pittura in Grecia doveva essere copiosa dal momento che decorava fittamente l’interno dei tempi e degli altri edifici pubblici; inoltre avrebbe dovuto affollare le pinacoteche, cioè gli appositi locali riservati alla sua conservazione ed esposizione, dal momento che di queste strutture ce n’erano sempre, in ogni polis. I pochi frammenti originali, cioè fatti da Greci per i Greci, si riferiscono più che altro al periodo ellenistico e sono comunque davvero poca cosa perché attraverso di loro ci si possa fare un’idea di quella che, a detta di Erodoto, fu una delle espressioni più sublimi dell’antichità ellenica. Della pittura classica, poi, che pure vantava nomi famosi quali Polignoto, Zeusi, Parrasio e il mitico Apelle, non ci sono rimasti neanche i frammenti. Per potercela immaginare almeno un po’ ci dobbiamo rivolgere alla pittura vascolare, o ai residui pittorici giunti miracolosamente fino a noi.
Nonostante la penuria di documenti è tuttavia verosimile supporre che per gli antichi Greci la pittura era fatta per tradurre le immagini della mente in figure che avessero in se la caratteristica propria di tutte le sostanze virtuali, cioè l’assenza di materia. Dunque il linguaggio pittorico greco risultava costituito di forme piatte, prive di volume, definite dalla sola linea di contorno, e ciò sta ad indicare la precisa volontà dei Greci di riservare pertinenze diverse alle diverse discipline figurative.
Di Polignòto di Taso (510–444 a.C. c.) si sa che era attivo fra il 480 e il 450 a.C., dunque negli stessi anni dei grandi scultori classici come Mirone, Policleto, Fidia ecc. È dunque verosimile che egli si muova all’interno della tradizione pre-classica, in cui il linguaggio pittorico è impostato sulla profilatura lineare delle figure e sul successivo riempimento delle aree contornate con il colore steso a tinte piatte. La novità della sua pittura sta nel fatto che nelle immagini umane s’indovinavano, sotto le vesti, le forme del corpo. Ma egli viene ricordato soprattutto come ethographos, cioè per la sua abilità ad esprimere gli stati d’animo. Della sua arte non si hanno testimonianze visive; possiamo solo tentare a delinearne i caratteri principali guardando alla pittura vascolare.
L’analisi della decorazione di alcuni vasi famosi quali il cratere a calice in ceramica nera a figure rosse, ritrovato ad Orvieto e risalente al 460 a.C., ci da la possibilità di capire se non altro quali fossero gli orientamenti seguiti dalla pittura a quell’epoca.
Il vaso è alto poco più di mezzo metro; sulla sua superficie curva è riportato il tragico episodio della Strage dei Niobidi ed è opera del non meglio noto pittore dei Niobidi. Le figure sono delineate al tratto in tutte le loro parti e si dislocano, piatte, sulla superficie del vaso, lasciando intendere la successione dei piani solo con poche linee ondulate.
Monaco, Germania, Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek
Pittore di Pentesilea
L’UCCISIONE DI PENTESILEA (460 a.C. c.)
Proveniente da Vulci
Ceramica dipinta a figure rosse, diametro cm. 43
Zeusi di Eraclèa e Parrasio di Efeso erano entrambi attivi nella seconda metà del V secolo.
Parrasio, contemporaneo e in sicuro rapporto professionale con Fidia, si muove sulla stessa lunghezza d’onda del grande scultore. Più di Polignoto riesce a dare morbidezza ai corpi e alle vesti, che aderiscono alle membra come se fossero parte integrante di queste. Come Fidia unisce alla monumentalità una grande naturalezza di movimenti e espressioni. C’è qualcosa di lui nel cosiddetto pittore di Achille e nel cosiddetto pittore di Pentesilea, decoratori di vasi a cui la sorte ha riservato di rimanere nella memoria degli uomini più per il loro stile che per il loro nome.
Come affreschi, della seconda metà del V secolo è la danza rituale funebre, dalla tomba n. 11 di Ruvo di Puglia, e che oggi si trova al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Ma non sappiamo quanto essa ci possa dire sulla qualità raggiunta dai massimi maestri classici.
Napoli, Museo Archeologico Nazionale
BATTAGLIA DI ISSO (IV/III secolo a.C.)
Copia romana del 100 a.C. circa da un dipinto originale, proveniente da Pompei
Mosaico, altezza mt. 3,13 – larghezza mt. 5,82
Salonicco, Grecia, Museo Archeologico
Filosseno Di Eretria
IL RATTO DI PERSEFONE (350/325 a.C. c.)
Proveniente da Verghina
Pittura murale
Con Zeusi si cambia orientamento. Si passa dalla pittura-grafica alla pittura tonale. Come appare ovvio, del suo stile nella pittura vascolare non se n’è conservata traccia: è impossibile ottenere effetti di chiaroscuro con le tecniche di decorazione pittorica su ceramica. Fu celebre come ci dice Quintiliano (35-100 d.C.) per la sua abilità nel rendere gli effetti di luce ed ombra, e, come dice Luciano (120-192 d.C.), per la sua genialità e la novità dei temi.
Nicia, di Atene, era contemporaneo di Apelle, di Colofóne. Tutti e due erano fra gli artisti più rinomati del periodo (IV sec. a.C.); Apelle, in particolare, era il pittore ufficiale di Alessandro Magno (356-323 a.C.). Alla stessa stregua di Lisippo, Apelle concepisce la realtà fenomenica come un complesso di macchie di colore, più chiare e più scure. La sua tecnica sostituisce durante il corso del IV secolo a.C. quella del periodo tardo classico. Di lui si tramanda come esempio di perfetta bellezza la descrizione di un’immagine mitica: l’Afrodite Anadiòmene. Del suo stile si loda la grazia, la varietà delle movenze e il colorito animato. Del nuovo modo di dipingere è possibile farsene un’idea guardando al rarissimo brandello di affresco originale greco, risalente al 350-325 a.C., trovato nel 1977, in una delle tombe reali scoperte nella necropoli di Aighai (la stessa dove è stata rinvenuta la presunta tomba di Filippo II), nella città di Verghina, in Macedonia, ed ora conservato nel Museo Archeologico di Salonicco, raffigurante il ratto di Persefone. Oppure ci si deve volgere al gigantesco mosaico ritrovato nella cosiddetta “casa del Fauno” a Pompei e oggi esposto al Museo Nazionale di Napoli. Certo quest’ultimo risulta senz’altro di maggior effetto, ma va ricordato che la stragrande maggioranza dei reperti di grandi dimensioni che si trovano esposti nei musei o nei siti archeologici sono opere di artefici greci al servizio dei romani.
PITTURA ORIGINALE GRECA NEI FRAMMENTI DI EPOCA ARCAICA
Atene, Museo Archeologico Nazionale
PROCESSIONE SACRIFICALE (540/530 a.C.)
Proveniente da Pitsà
Tavoletta in legno dipinta a tempera (pinax), altezza cm. 12,5 – larghezza cm. 25,8
Della pittura pre-classica si sa poco di più rispetto a quella classica; molto proviene da decorazioni tombali di Etruria e Magna Grecia; pochissimo è rimasto di originale greco.
Nel 1934 a Pitsà, forse l’antica Chelydorèa, una località che sorgeva fra Corinto e Sicione, furono trovate, in una caverna, fra un mucchio di altri oggetti cultuali, quattro tavolette di legno dipinte che risultarono essere gli unici documenti di pittura originale greco-corinzia del VI secolo a.C. Il luogo del rinvenimento era probabilmente sede di un santuario rupestre dedicato alle Ninfe. Su una di queste è raffigurata una scena sacrificale. Risale al 540/530 a.C., si tratta di un’opera contemporanea al kouros di Milo. Di fronte ad un’ara sacrificale una donna ammantata si appresta a versare il contenuto di un’anfora sopra all’altare; sulla testa porta tutto l’occorrente per la cerimonia. Dietro di lei seguono tre ragazzi, di cui uno trascina la pecora da immolare, il secondo suona la lira e il terzo il doppio flauto. Dietro gli efebi incedono altre tre donne recanti rami nelle mani, forse di ulivo. Delle prime due si conosce anche il nome: sono probabilmente le stesse committenti, Eutidica e Eucolide. Tutti gli effigiati indossano un himation rosso, tranne il suonatore di lira; le donne cingono anche un chitone azzurro; il fondo è bianco.
Da quanto risulta dal piccolissimo “pinax” (cm.12,5 x cm. 25,8), la pittura arcaica scaturisce da un tracciato grafico, successivamente riempito di colore. In questa impostazione la superficie pittorica è equiparata ad un piano indistinto a cui linea e colore danno forma.
Paestum, Museo Archeologico Nazionale
TOMBA DEL TUFFATORE (480/470 a.C.)
Pittura murale
Reperito in terra italica e non greca è un documento pittorico risalente al 480 a.C. attraverso cui è possibile tentare di avvicinarci più da presso alla pittura dell’epoca classico-severa. Si tratta della tomba del tuffatore, trovata nel 1968 a due chilometri a sud di Paestum, ed ora esposta al museo archeologico della stessa località.
È una tomba unica nel suo genere. Ha forma di cassa parallelepipeda; prende il nome dal suo coperchio, dipinto con l’immagine di un tuffatore. Le immagini effigiate sulle pareti della cassa vanno lette contestualmente allo spazio della stessa. Infatti l’insieme va visto come un triclinio in cui si fronteggiano due brevi file di klínai a doppio posto su cui siedono a desinare tre coppie di uomini. Partendo dal lato lungo posto a ridosso del lato basso del coperchio con il tuffatore possiamo vedere sei adulti fra cui ne scorgiamo due, sul terzo kline a destra, in atteggiamento amoroso, mentre il primo della fila è intento a giocare al cottabo. Nel lato corto a seguire in senso antiorario c’è un giovane accompagnato da un pedagogo; nel lato lungo sito di fronte al precedente ci colpisce in modo particolare il flautista; sull’ultimo lato a chiudere c’è un servitore che sta portando una brocca di vino ai commensali, attinto dal cratere posto al centro del riquadro.
Non si conosce l’autore del dipinto ma si presume sia greco. Dall’analisi stilistica gli esperti hanno stabilito che gli artefici sono due, forse un maestro con un suo allievo locale. Infatti si riscontra una differenza nella qualità del dipinto, consistente nel modo più spedito e sicuro di realizzare alcune figure rispetto a quello più lento e incerto che impronta alcune altre.