L’ARTE DEL PERIODO FEUDALE: RADICI CAROLINGIE DELL’ARTE PREROMANICA
ARCHITETTURA CAROLINGIA
I CAROLINGI E LA PITTURA
MAESTRANZE ROMANE ALL’OPERA SOTTO IL PONTIFICATO DI PASQUALE I
DESCRIZIONE DELLA CHIESA DI SANTA MARIA IN DOMNICA
SANTA PRASSEDE
DESCRIZIONE DEI MOSAICI ABSIDALI DELLA CHIESA DI SANTA PRASSEDE
ARCHITETTURA PREROMANICA: IL RISVEGLIO PRECOCE DELLA CIVILTÀ ROMANA
CONCORSO DELLA SCULTURA ALLA FONDAZIONE DELL’IDEOLOGIA BORGHESE
L’ARTE DEL PERIODO FEUDALE: RADICI CAROLINGIE DELL’ARTE PREROMANICA
Milano, Sant’Ambrogio
Vuolvinio
ALTARE MAGGIORE (829/850)
Lamine e filigrana d’oro e d’argento con smalti e gemme incastonate nelle cornici
Stando alla suddivisione tradizionale l’arte dell’epoca carolingia e ottoniana appartiene al periodo storico denominato Preromanico; stando al suo significato letterale pre-Romanico sta per fase che precede il Romanico, il periodo del ritorno alla vita dopo l’anno mille. Sembra dunque che le opere prodotte nell’intervallo di tempo collocato fra l’oblio e la rinascita faccia parte di un altro evo, lontano da quello buio e selvaggio delle invasioni barbariche, in realtà non è così. Carolingi e Sassoni sono barbari, pur se affascinati dal fasto orientale e dalla grandezza romana di cui si vogliono rendere degni emulatori. Ma benché encomiabili, le loro intenzioni rimangono solo buone intenzioni e basta, in quanto in arte non vanno molto al di là di una riproposizione dei canoni bizantini aulici.
In linea di massima, in storia dell’arte, sarebbe sempre meglio evitare il prefisso “pre” in quanto potrebbe indurre a credere che ci siano dei periodi che preparano l’avvento di altri periodi. È ben vero che ogni situazione storica discende da situazioni precedenti, ma non è che le situazioni precedenti preparino scientemente le situazioni future, anche se in ogni tempo si opera nel presente in vista del futuro. Ma il futuro è sempre imprevedibile e non è detto che si leghi al presente secondo una linea continua di progressività. Così nel caso del termine preromanico e romanico sarebbe meglio usare i termini di arte del periodo feudale e arte del periodo comunale.
Detto ciò, è innegabile che attraverso la politica artistica dei Carolingi e dei Sassoni lo stato dell’arte nei territori loro soggetti migliori un po’, grazie anche alla conversione anzitempo di queste popolazioni al cristianesimo cattolico, cosa che li rende meno “barbari”.
Ufficialmente l’epoca carolingia inizia la notte di Natale dell’anno 800 quando, nella basilica di San Pietro, papa Adriano I (772-795) pone sul capo di Carlo Magno (800-814) la corona del nuovo Sacro Romano Impero. La vita del nuovo impero è brevissima, dura solo 88 anni, fino alla morte dell’ultimo imperatore carolingio, Carlo il Grosso (881-887). Dopo di lui segue un periodo di anarchia, che in Italia termina nel 962, con la presa del potere supremo da parte di Ottone I di Sassonia (962-973), figlio di Enrico l’uccellatore (919-936). L’età ottoniana si conclude 62 anni dopo con la morte di Enrico II, ultimo imperatore, avvenuta nel 1024.
Appartiene al periodo carolingio l’altare di Sant’Ambrogio, voluto dal vescovo di Milano Angilberto II (824-859), nel quadro dei lavori di ristrutturazione della chiesa simbolo della Milano cristiana. La tavola liturgica si trova al centro della navata principale, sotto il tiburio ottagonale, sulla cripta dove sono conservate le reliquie di sant’Ambrogio (340-397) e dei due martiri cristiani Gervaso e Protasio (III sec.). L’artefice che lo firma è Vuolvinio. Di lui si sa molto poco di certo. Non si sa di dove venga, né se sia un barbaro; si pensa sia un franco. Certo è che, chiunque esso sia, di sicuro non è un dilettante. Infatti nel suo caso non si può più parlare di linguaggio barbarico, primitivo ed elementare. Vuolvinio è un artista colto, tanto colto da saper risalire con disinvoltura alle fonti tardo-antiche. Forse è uno dei primi rappresentanti di quell’artigianato che sta rinascendo con il riordinamento politico dell’Occidente.
In questa opera Vuolvinio dimostra di essere più in là della sperimentazione barbarica; si svincola dagli schemi bizantini e apre l’arte a nuove soluzioni. Su un sostrato linguistico ancora fortemente orientale egli, cultore della romanità, va ad aggiungere elementi tipici della tarda antichità.
Nello stesso altare convivono due indirizzi distinti: uno più pittorico e raffinato, nei riquadri della faccia anteriore, e uno più plastico e popolare, nei pannelli della faccia posteriore. La mano di Vuolvinio è nei bassorilievi posti sul retro, ma è verosimile che a lui si debba la direzione dell’intero lavoro.
Se nel dibattito storico artistico è ancora tutta da misurare l’influenza della cultura figurativa barbarica su quella bizantina e romana, con Vuolvinio è invece misurabilissima l’entità del fenomeno inverso, ovvero l’influenza della cultura figurativa bizantina e romana su quella barbarica. Con ciò non s’intende far riferimento solo alla tematica cristiana, evidentemente estranea ai barbari, ariani, quanto piuttosto all’accoglimento di elementi linguistici di chiara derivazione latina e bizantina che fanno fare un salto di qualità ai primitivi cesellatori d’Oltralpe. È innegabile, nei rilievi a sbalzo dell’altare, quindi, ottenuti con tecniche orafe, l’influenza della componente bizantina nella sensibilità di Vuolvinio a cogliere e orchestrare, in funzione delle scene raffigurate, gli effetti di luce riflessa dai metalli preziosi. Ma il movimento che scuote le figure, il senso dell’ambiente, l’ariosità degli spazi, l’amore per gli scorci, la tendenza a concretizzare il divino non lasciano dubbi sul fatto che con lui ci troviamo di fronte ad un artista che vuole far rinascere la cultura greco-romana; ciò a suggello della volontà di Carlo di risvegliare la cultura latina. Dunque per Vuolvinio si può parlare già di arte preromanica nel senso pieno del termine. Le sue formelle non saranno ignorate dal nuovo artigianato che proprio in questo momento sta vedendo timidamente la luce.
Cappella Palatina
ALZATO E PIANTA
Aachen (Aquisgrana), Germania, cappella Palatina
INTERNO (consacrata nell’805)
Anche in architettura appare evidente la volontà di riallacciarsi alle fonti nobili del linguaggio imperiale. Ad Aquisgrana, la capitale del nuovo impero d’Occidente Carlo Magno si fa costruire la residenza imperiale, un complesso di edifici di cui oggi non è rimasto un gran che di originale. Uno solo di essi è giunto fino a noi pressoché immutato: la cappella Palatina.
La cappella Palatina è la più antica opera monumentale in pietra della Germania; è la cappella di Carlo Magno e della sua corte. La sua struttura riprende semplificandolo l’impianto di San Vitale. Lo spazio interno risulta essere più squadrato e più massicce si presentano le strutture. Anche se le pareti e la pavimentazione sono ricoperte di marmi colorati e mosaici i forti pilastri angolari e le basse arcate del primo ordine conferiscono all’insieme una gravità del tutto estranea all’impianto vitaliano.
Isernia, chiesa dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno
CROCIFISSIONE (826/843 c.)
Particolare della decorazione parietale
Affresco
In pittura l’influenza bizantina continua a farsi sentire ininterrotta anche quando in altri campi delle arti visive le cose stanno rapidamente cambiando. Motivo? Il difficile distacco dal grande patrimonio formale levantino, espressosi soprattutto in questo settore.
Rintracciare gli elementi strutturali innovativi del linguaggio preromanico nelle opere prodotte nei secoli IX e X è impresa da esperti: infatti risulta assai arduo distinguere la pittura preromanica da quella bizantina tanto è simile. Tuttavia attraverso l’analisi di alcuni componimenti pittorici è possibile individuare quegli aspetti tipici che ne rendono più apprezzabili le differenze.
Dell’epoca di Gregorio IV (827-844) sono gli affreschi che si trovano nella cripta della chiesa dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno. Le fonti iconografiche sono probabilmente siriache, ma a parte ciò il fatto più importante è che in questa complessa raffigurazione, zeppa di implicazioni simboliche, troviamo l’affermazione di canoni di chiara ascendenza occidentale, quali la cognizione positiva dello spazio, l’unità ambientale fra figura e sfondo, la trasposizione in termini storici degli avvenimenti narrati.
Val Venosta, San Procolo
FUGA DI SAN PAOLO DA DAMASCO
Di tutt’altra stoffa sono gli affreschi che decorano le pareti della chiesetta di San Procolo nella Val Venosta, l’antica Raetia dei Romani. In particolare l’affresco che rappresenta, secondo alcuni interpreti, la fuga di san Paolo da Damasco (ma è molto più probabile che si tratti di san Procolo), calato dalle mura in un cesto, mostra caratteri di chiara derivazione popolare, sia per lo stranissimo modo di effigiare le pieghe degli abiti mediante strisce intensamente colorate, sia per il modo immediato con cui sono resi i gesti e le forme, ridotte al minimo essenziale. Per il resto sono rinvenibili, nell’impostazione generale bizantina, influssi della cultura monastica salisburghese di matrice celtica, riconoscibili soprattutto nella cornice a greca multicolore e in prospettiva, di raffinato gusto decorativo.
MAESTRANZE ROMANE ALL’OPERA SOTTO IL PONTIFICATO DI PASQUALE I
Roma, Santa Maria In Domnica
INTERNO (prima metà del IX secolo)
Con la fondazione del Sacro Romano Impero il centro del potere politico si sposta in Germania ed è l’inizio di un periodo molto oscuro per la Chiesa. Ciononostante la massima autorità religiosa resta a Roma. Siamo agli inizi del IX secolo; con i Carolingi la lunga notte barbarica volge ormai al termine. Se la pittura è la disciplina artistica che nel Medioevo evolve più lentamente a Roma questa lentezza è ancora più accentuata. La causa è il diretto controllo della curia papale sull’attività figurativa. Eppure anche nell’apparente inerzia qualcosa si muove. Ce lo dicono tre chiese romane di quest’epoca.
Ogni chiesa, ogni monumento, ogni luogo possiede un corredo di immagini che ne tramandano la storia, gli eventi celebri svoltisi nei loro pressi, i personaggi illustri che ne hanno marcato il prestigio. Però non tutte queste immagini importanti per la storia lo sono altrettanto per la storia dell’arte. È il caso del patrimonio iconografico di una serie di chiese, tra le più antiche di Roma, ma anche tra le più rimaneggiate, costruite sotto il pontificato di Pasquale I, tra l’817 e l’824. La parte più interessante di queste costruzioni, dal punto di vista storico artistico, è costituita dagli schemi strutturali architettonici, laddove hanno mantenuto l’assetto originario, e dai brani decorativi a mosaico dell’epoca rimasti in sito. Questi frammenti rivestono una particolare importanza in quanto testimoniano dell’attività sul campo di maestranze formatesi a Roma, sull’esempio dei maestri bizantini. Queste maestranze, a loro volta, rivestono un particolare valore in campo storico artistico, in quanto agiscono nell’ambito di un programma culturale ben preciso, teso al recupero delle basi strutturali delle fonti linguistiche paleocristiane tardo antiche.
Pasquale I sale sul trono pontificio tre anni dopo la morte di Carlo Magno, ovvero quando è ancora fresco quel particolare clima culturale istaurato dall’imperatore, denominato Rinascenza (o Rinascita) carolingia. Durante il suo pontificato decide di riportare sui luoghi del martirio le spoglie dei santi seppelliti fuori le mura di Roma ed erigerci su delle chiese. Questa idea è l’occasione per mettere all’opera le maestranze romane che si sono andate costituendo nel corso del IX secolo.
La scesa in campo di queste maestranze non è dovuta solo alla politica di Pasquale, bensì anche al particolare stato di aggravamento dei rapporti fra impero bizantino e Chiesa. All’epoca del pontificato di Pasquale I il ducato romano si è ormai costituito in stato indipendente, e, svincolato dall’influenza dell’esarcato ravennate, cerca nella riaffermazione dei valori tardo-antichi l’espressione della propria identità Occidentale.
Tre sono le chiese attraverso cui si attua la politica culturale preromanica di Pasquale I: Santa Prassede, Santa Cecilia e Santa Maria in Domnica. Le prime due sono dedicate alle sante martiri Prassede e Cecilia, la terza a nessuna santa martire in particolare.
DESCRIZIONE DELLA CHIESA DI SANTA MARIA IN DOMNICA
La chiesa di Santa Maria in Domnica, detta anche Santa Maria alla Navicella, per via della fontana a forma di nave che arreda il piazzale antistante il pronao della chiesa, contrariamente a Santa Prassede e Santa Cecilia non è un titolo, ma una diaconia. L’appellativo Domnica, secondo una credenza erronea, deriverebbe dal fatto che la chiesa fu edificata sul terreno di una certa Ciriaca, matrona romana, il cui nome greco corrisponderebbe al latino Domenica, da cui Domnica.
Le diaconie sono chiese che nascono con funzioni assistenziali. In un’Italia divisa fra Longobardi e Bizantini, il popolo, fedele alla Chiesa, si vede spesso costretto a tirare la cinghia a causa delle ritorsioni operate dai dominatori. A questa situazione di indigenza pubblica risponde la Chiesa incaricandosi di organizzare l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, nonché regolare l’afflusso delle derrate alimentari all’interno della città, curarne la conservazione e provvedere alla equa distribuzione; sorgono così le diaconie. Esse vedono la luce molto probabilmente fra il VI e il VII secolo; sono strutture che vanno a sostituire gradualmente l’istituto del Praefectus annonae, di origine romana. Materialmente la diaconia comprende magazzini di deposito, locali per la distribuzione e uffici, come pure ricoveri per pellegrini e, a volte, anche per malati. A causa della loro funzione esse sorgono all’interno delle mura cittadine, in prossimità delle principali vie d’approdo delle merci. Infatti Santa Maria in Domnica sorge sul punto più alto del Celio, lungo la direttrice che collegava, e collega tutt’ora, porta Metronia al Colosseo. In essa il richiamo alla tipologia basilicale paleocristiana è palese nello schema della pianta, molto semplice, con tre absidi, tutti collocati sulla parete di fondo, così come pure nella suddivisione in navate e nelle arcate, strette e numerose. Il rapporto fra navata centrale e navate laterali è di 1:3 lo stesso che in Sant’Agnese, ma la chiesa risulta più ampia, come mai? L’assenza dei matronei e il rapporto fra altezza e profondità danno all’interno un maggior respiro. Al tutto aggiunge poi solennità l’inserimento di un ampio catino absidale: segno evidente che i tempi stanno cambiando.
Roma, Santa Maria In Domnica
MADONNA COL BAMBINO FRA DUE SCHIERE DI ANGELI (817/824)
Particolare di decorazione absidale
Mosaico
Nella decorazione dell’abside domina al centro Maria, che con una mano tiene in grembo il Bambinello, mentre con l’altra presenta un Pasquale I straordinariamente magro. Gesù Bambino è frontale e ieratico, fisso nell’atto di benedire; Pasquale I è in basso, a sinistra, ai piedi del seggio, e sta tenendo con le mani un piede della Madonna, con evidente allusione al ruolo della Chiesa come sostegno della religione cristiana. Ai loro lati è una schiera di angeli assiepati intorno al trono, collocato sopra un tappeto disteso su un prato verde infiorato.
Dal punto di vista linguistico la cosa da rilevare è che in questi mosaici, ancora una volta, più che l’influenza del linguaggio aulico si fa sentire forte l’influenza del linguaggio provinciale misto a quello latino. Questa commistione si rende evidente in alcuni particolari stilistici quali la resa dello spazio, il colore e il modo di ordinare le tessere. Per quanto riguarda i primi due punti, nell’immagine si ha decisa la sensazione della capienza dello spazio naturale, sensazione dovuta alla concomitanza di due fattori fondamentali: il senso prospettico creato dalla sovrapposizione dei nimbi degli angeli e il senso della distanza fra una figura e l’altra dovuta all’uso del colore, impostato sui contrasti delle tinte primarie, rosse, gialle e blu. Per quanto riguarda la tecnica e il materiale c’è da rilevare il modo largo di porre le tessere, una accanto all’altra, e la maggiore grandezza delle stesse, nonché una meno accurata levigatura della superficie riflettente. La scelta di una tecnica meno raffinata e di un materiale più grezzo hanno uno scopo: ottenere la vibrazione luminosa in superfici musive larghe e uniformi.
Roma, Santa Prassede
GLI ELETTI DELLA GERUSALEMME CELESTE (817/824)
Particolare della decorazione dell’arco trionfale
Mosaico
Passando dal Celio all’Esquilino, dalla chiesa di Santa Maria alla Navicella alla chiesa di Santa Prassede, cambia solo il tema di raffigurazione non lo stile.
La chiesa è dedicata a Prassede, sorella di Pudenziana, figlia del senatore Pudente, già fondatore di un titolo. La nobildonna si fece promotrice della costruzione di una chiesa “Sub Titulus Praxedis”, nel Vicus Lateranus. Si guadagnò il grado di santa perché nel corso delle persecuzioni antonine diede asilo ai cristiani, nonostante la legge ne facesse espressamente divieto, pena, la morte. Scoperta, fu giustiziata.
Santa Prassede nella sua forma originaria è oggi irriconoscibile, tante sono state le alterazioni avvenute nel corso dei secoli, ma al suo interno custodisce due gioielli che hanno fatto la storia dell’arte medievale: l’abside col suo bell’arco trionfale, nonché una cappelletta laterale, il sacello di San Zenone.
Siamo sempre agli inizi del IX secolo e Pasquale I è nel pieno esercizio dei suoi poteri. Vuole riportare le reliquie di Santa Prassede dal luogo di sepoltura, le catacombe di Priscilla, al luogo dove avvennero i fatti che la condussero alla santificazione. A questo scopo fa costruire una nuova chiesa al posto del vecchio titolo, semplice e decorosa, sul modello di quelle paleocristiane, con pianta a croce latina commissa, a tre navate e quadriportico antistante. Per decorarne l’interno a mosaico chiama ancora maestranze di scuola romana. L’intervento voluto da Pasquale I si limita alla calotta dell’abside, all’arco dello stesso e a quello trionfale. Qui si mette mano alla decorazione svolgendo le classiche tematiche cristiane.
DESCRIZIONE DEI MOSAICI ABSIDALI DELLA CHIESA DI SANTA PRASSEDE
I soggetti iconografici che decorano le chiese sono scelti in base alla funzionalità architettonica e liturgica delle varie zone. L’abside risulta essere il punto privilegiato dello spazio ecclesiale per accogliere quei temi apocalittici che raffigurano il tempo finale del ritorno di Cristo. Siccome gli schemi basilicali si ripetono immutati per millenni, anche gli apparati decorativi (ma sarebbe più appropriato dire complementari) risultano immutati nei secoli: è il caso del rapporto abside-giudizio finale. La decorazione della calotta absidale di Santa Prassede rappresenta la parusia, cioè il ritorno di Cristo alla fine dei tempi. La parusia in questione ricalca nel contenuto l’interpretazione giovannea e nella forma il mosaico absidale dei santi Cosma e Damiano, di circa tre secoli prima. L’ornamento musivo è diviso in due zone: in quella superiore ci sono raffigurati, in pose rituali e frontali, sette personaggi; in quella inferiore vi è rappresentato l’agnello pasquale con dodici pecorelle. Sopra, al centro, c’è Gesù, intento a scendere da una scalea di nuvole rossastre; ai suoi fianchi, san Pietro e san Paolo gli presentano santa Pudenziana e santa Prassede; alle due estremità ci sono san Zenone o san Ciriaco e Pasquale I, con pianeta giallo zolfo e campagi. Sotto vi è la tradizionale effigie che fa riferimento al Salvatore con i dodici apostoli che escono dalle due città sante: a sinistra, Betlemme, che allude alla Chiesa dei pagani; a destra, Gerusalemme, che allude alla Chiesa dei Giudei. Anche il tema figurativo dell’arco absidale è tratto dall’Apocalisse di San Giovanni (canti 4 e 5). Al centro della parete, all’interno di un medaglione blu, c’è l’Etimasia, il trono gemmato. Sopra, accosciato, si trova l’agnello-Cristo, sotto c’è il libro con i sette sigilli. Il tutto a significare che solo Cristo risorto è in grado di sciogliere i sigilli. Ai lati del medaglione ci sono i sette candelabri (o lampade), tre a sinistra e quattro a destra, che identificano le sette Chiese dell’Asia, ovvero la comunità cristiana di ogni luogo e ogni tempo. Nella fascia sottostante, rivolti verso il centro dell’abside, disposti su tre file sovrapposte e divisi in due gruppi di 12, ci sono i 24 vegliardi con le mani coperte che recano le corone d’oro, simbolo della sapienza. Passando all’arco trionfale troviamo di nuovo i temi tratti dall’Apocalisse di San Giovanni. Qui gruppi di beati si dispongono simmetricamente ai lati della gerarchia divina secondo due ordini distinti e separati. Nella parte superiore, al centro del recinto gemmato che delimita la Gerusalemme Celeste, troviamo Gesù fra apostoli, santi e profeti. A sinistra ci sono uomini, donne e vescovi recanti le corone del martirio; a destra un gruppo meno distinto, preceduto da Pietro e Paolo. In mezzo a loro un angelo indica la Città Celeste mentre stringe con la sinistra una canna d’oro. Sullo sfondo domina un cielo blu profondo, solcato da piccole nuvole bianche, mentre a terra si distende un prato verde fiorito: l’immagine del paradiso. Nel registro inferiore troviamo, su ambo i lati dell’arco, una folla di personaggi stagliati su un fondo d’oro che assiste all’avvento finale di Cristo. In questo brano architettonico i rimandi storici volgono nella direzione dell’arcone trionfale come in Santa Maria Maggiore, ma guardando al gruppo di beati che si dispongono ordinatamente a ridosso delle porte d’ingresso della Gerusalemme Celeste, nel registro superiore dello stesso arco, possiamo apprezzare una innegabile affinità stilistica con gli angeli dell’abside di Santa Maria in Domnica. Infatti in entrambi i casi il modo di far sentire il vuoto è lo stesso: attraverso la sovrapposizione delle teste. Se poi si appunta l’attenzione sulla folla di personaggi avvolti in bianche vesti, ammassati nel registro inferiore, si ritrova paro paro lo stesso espediente stilistico messo in atto nella chiesa della navicella, e cioè quello di dare il senso della moltitudine evidenziando solo un minimo particolare, costituito in questo caso dalle teste dei fedeli.
Roma, Santa Prassede, sacello di San Zenone
CRISTO IN GLORIA (817/824)
Decorazione della volta
Mosaico
La stessa volontà rispettosa del comune senso percettivo la si nota nella cappella dove riposano le spoglie di san Zenone.
Anche questa piccola costruzione fu commissionata da Pasquale I, che la volle per accoglierci le spoglie della madre Teodora. Il sacello venne detto “Hortus Paradisi” in virtù del fatto che per ogni cinque messe celebrate al suo altare si libera un’anima.
Di Zenone si sa poco e niente. Non si conosce né la biografia né la data del martirio. Si sa solo che le sue spoglie riposano in questa cappella.
Oggi il sacello di san Zenone è in diretta comunicazione con la cappella della Sacra Colonna e quella del cardinale Coetivy; ma all’epoca della sua realizzazione era isolato dal resto delle cappelle laterali.
L’ingresso al sacello è preannunciato da un’urna cineraria, ansata e strigilata. La struttura interna presenta una pianta che ricorda lo schema a croce greca, ma le due nicchie che ne costituiscono i bracci laterali sono decentrate rispetto all’asse verticale delle pareti soprastanti. L’asimmetria si ripropone poco più su nelle due finestrelle cieche, le quali tagliano gli archi d’imposta della copertura del cubicolo centrale, forgiata a mo’ di vela, la più antica che si conosca. Questa poggia idealmente su quattro colonne classiche poste ai quattro spigoli del dado centrale. Dalla loro sommità si dipartono quattro angeli reggi clipeo. La decorazione musiva della volta prosegue lungo le pareti interne con l’etimasia che si sagoma sulla controparete dell’ingresso, fra i ss. Pietro e Paolo; quindi compaiono, a seguire in senso orario, sant’Agnese, santa Pudenziana e, separata dalla finestrella cieca, santa Prassede. Nella parte inferiore della lunetta della nicchia sottostante si affacciano quattro mezze figure che rappresentano, a partire da sinistra di chi guarda: Teodora “episcopi” madre di Pasquale I, con il nimbo quadrato dei viventi, santa Prassede, la Vergine e santa Pudenziana. Sulla parete dell’altare vi è raffigurata una “deesis”, cioè Giovanni Battista e Maria come intercessori per l’umanità verso Cristo giudice. Sull’ultima parete ci sono raffigurati Giovanni col Vangelo in mano e, separati da un’altra finestrella cieca, Andrea e Giacomo. Infine, nella lunetta della nicchia sottostante c’è Cristo benedicente fra due personaggi, forse san Valentino e san Zenone.
Passando all’analisi stilistica, anche se a prima vista i mosaici della cappella di san Zenone fanno pensare all’arte bizantina di corte, in realtà si ispirano al mondo paleocristiano. Ne sono diretta testimonianza alcuni particolari estranei alla nomenclatura levantina quali la rappresentazione della deesis, l’immagine clipeata di Cristo al centro della volta e la posizione di alcuni personaggi. L’interlocuzione della sovrastruttura musiva con la struttura architettonica non è un fatto del tutto insolito nell’ambito della figuratività bizantina, ma qui, nella deesis, la luce divina si fa luce concreta nella finestra posta tra la Madonna e il Battista, così come la stessa finestra si pone sulla linea mediana che unisce idealmente Cristo/luce dell’imago clipeata col Cristo/luce della lunetta dell’altare, nonché coi raggi della cimasa dell’ancona e col Gesù Bambino dell’icona. Nell’imago clipeata, ovvero l’immagine simbolica dell’empireo medievale, l’effigie del Cristo pantocratore, incorniciata in un clipeo, la borchia posta al centro degli scudi romani, sembra materialmente sorretta dai quattro angeli (o arcangeli), disposti a raggiera in funzione architettonica, lungo le due diagonali della vela.
Un altro particolare rilevato dagli studiosi e che conferma l’indirizzo neolatino dell’intera struttura è la singolare posizione di alcuni personaggi rispetto a tutti gli altri, come ad esempio san Giovanni, nella parete nord. Costoro ci fanno notare come il santo non proceda nello stesso senso di sant’Andrea e san Giacomo, ma nel senso opposto. Il motivo è che i tre apostoli non sono raffigurati in processione verso l’altare, ma si muovono per offrire corone o rotoli a Gesù, posto al centro della volta. Questa soluzione iconografica sta a testimoniare la volontà di recupero di due principi tardo-antichi, gia presenti nel battistero di San Giovanni in Fonte presso Santa Restituta a Napoli, del 400, quali l’acclamazione verticale e il coinvolgimento dell’osservatore verso il centro e verso l’alto.
Roma, Santa Cecilia
CRISTO FRA I SANTI PIETRO, PAOLO, AGATA, CECILIA, VALERIANO E IL PAPA PASQUALE I (IX sec.)
Particolare di decorazione absidale
Mosaico
Le stesse maestranze romane, o provenienti dalla stessa scuola, le ritroviamo all’opera, sempre al servizio di papa Pasquale I, in Santa Cecilia, presso l’ansa del Tevere, all’uscita della via Portuense da Roma. Motivo dell’impresa: rendere decoroso il nuovo ambiente fatto predisporre dal pontefice per accogliere le reliquie della santa, provenienti dalle catacombe di Pretestato.
L’immagine absidale è la fotocopia di quella di Santa Prassede. In questo mosaico Pasquale è in compagnia di santa Cecilia, la quale gli sta accanto tenendogli una mano sulla spalla; insieme a loro ci sono san Valeriano e sant’Agata. Tutti sono ieraticamente disposti ai lati di san Paolo e san Pietro, i primi due a sinistra di chi guarda, gli altri due a destra; al centro, come sempre, è Gesù Cristo.
Se il cliché espressivo della chiesa non cambia, cambia però la storia della santa.
Cecilia, nobile romana, appartenente alla stessa famiglia patrizia di cui fece parte quella Cecilia Metella (I sec. a.C.), alla quale fu dedicato il ben noto mausoleo sulla via Appia, si vide condannata a morte, dopo il marito Valeriano e il fratello Tiburzio, a causa della sua fede cristiana. Uscita illesa dal primo supplizio (non viene specificato quale), fu sottoposta ad un secondo, consistente nella decapitazione, ma anche stavolta sopravvisse miracolosamente ai colpi del carnefice (ben tre). Non potendogliene infliggere un quarto, perché vietato dalla legge, fu lasciata morire dissanguata sul pavimento di casa. Essa assurge a patrona della musica a causa di un equivoco interpretativo riguardo alla storia della sua passione. In questa interpretazione viene detto che Cecilia, il giorno del suo matrimonio con Valeriano, cantasse in lode al Signore accompagnata dagli organi.
ARCHITETTURA PREROMANICA: IL RISVEGLIO PRECOCE DELLA CIVILTÀ ROMANA
Tuscania, Viterbo, chiesa di San Pietro
INTERNO (VIII/XII sec.)
Nell’epoca del Sacro Romano Impero, in Italia e in Europa iniziano a farsi strada altri modi, altre sensibilità, altri mezzi espressivi rispetto a quelli di matrice orientale. L’opera d’arte non è più tanto un oggetto pregiato perché fatta di materiale prezioso, quanto perché manifestazione dell’ingegno umano. In arte l’ingegno umano si manifesta con l’originalità dell’immagine e con l’abilità dell’esecuzione, cioè attraverso l’invenzione e la qualità della tecnica con cui si rende docile e malleabile anche la materia più ostica e resistente.
L’architettura è la prima disciplina a manifestare l’esigenza di un cambiamento espressivo poiché l’architettura bizantina garantisce la tecnica ma non l’invenzione e le costruzioni barbariche garantiscono l’invenzione ma non la tecnica. Chi tiene in egual conto invenzione e tecnica è l’architettura romana. Come fu già nell’architettura romana anche nell’architettura preromanica si sente la necessità di una dialettica concreta fra materia e spazio, inerzia e movimento, oscurità e luce. La materia è sentita in tutta la sua reale incombenza, come peso tangibile da patire ma di cui ci si può liberare attraverso la tecnica. La parete non è più pensata come supporto subordinato alle esigenze decorative, è considerata invece nella sua natura concreta di muratura di sostegno; lo spazio non è più simulato col rivestimento musivo, è vuoto concreto, praticabile; la luce non è più luce metafisica, riflessa, ma fisica, incidente. Nella realizzazione di questi effetti la tecnica svolge un ruolo fondamentale. L’arte edificatoria ha il compito di creare strutture capaci di opporsi alla gravità materiale, rispondendo ai carichi con sostegni adeguati, contrastando nel modo tecnicamente più efficace le spinte gravitazionali delle masse murarie, accumulando materia dove occorre materia e eliminandola dove va eliminata. In questi elementi strutturali lo sforzo di sostegno si deve sentire, il pieno si deve contrapporre al vuoto in maniera chiara, netta, l’arco deve sostituire l’architrave; le finestre devono modulare l’afflusso della luce affinché essa produca sulle strutture l’effetto plastico desiderato e far sentire il peso della muratura attraverso lo spessore delle strombature.
La più antica costruzione in cui è possibile ravvisare i primi elementi linguistici del nuovo linguaggio architettonico romanico è la chiesa di San Pietro che si trova a Tuscanica, presso Tarquinia, nel cuore della Maremma laziale. La costruzione sorge sulla cima di un pianoro, che un tempo fu l’acropoli dell’antica Tuscania, e domina un’amena vallata dalle forme dolci e aperte. L’edificio costituiva, insieme al palazzo vescovile (presente ancora oggi sul fianco nord) e la cinta muraria, adornata di possenti torri (di cui ne rimangono solo due), una sorta di cittadella fortificata. L’ingresso, rivolto ad est, si apriva su un sagrato delimitato dal palazzo episcopale e dalle due torri superstiti. Al centro monumentale si accedeva tramite una porta, di cui oggi rimane solo l’archivolto d’ingresso.
La chiesa è stata realizzata in un periodo di tempo che va dall’VIII secolo dopo Cristo (le indicazioni comunali riportano il VII, riferendosi molto probabilmente alla cripta) al XIII: quindi anticipa il Preromanico e comprende tutto il Romanico nonché l’esordio del Gotico in Italia. La parte più antica è l’interno, limitatamente all’abside, al presbiterio e a gran parte della navata centrale; la porzione più recente è la zona superiore della facciata, ricoperta di marmi candidi. L’esterno del corpo basilicale risale all’XI secolo e richiama nello stile il Romanico lombardo, sia per le partiture delle mura perimetrali esterne che per le classiche decorazioni ad archetti pensili ciechi. L’interno è costituito da elementi originali dell’epoca: cosa davvero eccezionale per una struttura che risale ad un periodo anteriore alla rinascita delle città.
CONCORSO DELLA SCULTURA ALLA FONDAZIONE DELL’IDEOLOGIA BORGHESE
Diversamente dall’architettura e dalla pittura nell’Alto Medioevo la grande scultura è praticamente morta. La tecnica scultorea si esprime soltanto nella decorazione architettonica; assente risulta la statuaria. Nelle poche manifestazioni che vanno oltre l’artigianato applicato all’edilizia si nota chiara l’impronta di maestranze rurali informate ai modelli dell’arte levantina. Ciononostante, l’opera degli ignoti scalpellini, che con tenacia e tanta passione intrecciano motivi decorativi e narrativi sugli stipiti dei portali delle cattedrali o sui paliotti degli altari, concorre in modo preponderante, insieme all’opera amanuense dei benedettini, a promuovere il lavoro come valore anche in campo spirituale, dando all’attività costruttrice di immagini più importanza dello stesso significato simbolico. Laddove questo risulta volato ormai via in Oriente al seguito della corte di Bisanzio, lo scultore medievale contribuisce a fondare il concetto borghese per cui il lavoro oltre a salvare dalla barbarie salva anche dalle pene dell’inferno.
In virtù della nuova impostazione la scultura, che durante l’epoca precedente aveva ceduto il campo alla pittura, riprende a fiorire; ma lo fa lentamente. Tuttavia la sua evoluzione sarà molto più rapida di quella della cugina, poiché culturalmente assai meno radicata nella corrente orientale.
I motivi della rapida rifioritura della disciplina plastica si spiega col fatto che all’inizio dell’era borghese il cambiamento non dipende ancora dall’affermazione di una nuova, distinta concezione, ma dall’attenuazione dell’ideologia teocratica bizantina. Cioè non dipende da una posizione motivata degli artefici, ma più che altro da una serie di avvenimenti storici, che hanno come effetto immediato il progressivo allontanamento culturale dell’Occidente dall’Oriente, vale a dire la lenta regressione della cultura bizantina dai territori dell’Ovest europeo.
Il fenomeno è comprensibile. I maestri provenienti dall’Oriente e operanti qua e là, in quei pochi centri della penisola che hanno resistito al degrado socio-economico e culturale, spesso passano per le contrade senza mettere su casa, né bottega. Qualche volta, però, accade che qualcosa di loro resti, e questo qualcosa va a costituire i testi base su cui si formano le nuove maestranze locali, operanti su tutto il territorio italiano ed europeo. Questi artisti “locali” che vengono, come si suol dire, “dalla gavetta”, pur attingendo ad un patrimonio di marcato accento orientale, non sembrano risentire poi molto, a giudicare dall’analisi dei loro lavori, della cultura levantina; l’aver studiato bizantino non li evolve a maniere colte e raffinate. Spesso il loro fare arte si riduce al problema pratico di rifornire di immagini iconiche i luoghi di preghiera e di culto che sorgono al centro delle comunità cittadine. Ma è proprio questo l’aspetto che caratterizza la cultura figurativa europea del momento, sono proprio questi anonimi operatori che con il loro lavoro contribuiscono a riaccendere l’interesse intorno alla cultura formale in Occidente.
Il tratto saliente di questa cultura si configura a livello estetico nella produzione di immagini dall’aspetto ancora fortemente caratterizzato dall’iconismo bizantino, indifferentemente aulico o provinciale, ma mosse da una profonda vigoria, interna agli elementi strutturali del linguaggio stesso, sconosciuta alle culture orientali.