IL PRIMO QUATTROCENTO, IL PERIODO DELLA RIVOLUZIONE
LA NASCITA DEL LINGUAGGIO OCCIDENTALE MODERNO
LA SITUAZIONE STORICA
IL POTERE DELLE ARTI
I MEDICI
IL SOGGETTO DELLE FORMELLE PER IL CONCORSO DEL 1401
LE INTERPRETAZIONI DI GHIBERTI E DI BRUNELLESCHI
LE DIVERSE CONCEZIONI DEL GHIBERTI E DEL BRUNELLESCHI DELLA CULTURA STORICA E DELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA
CONSEGUENZE
VINCITORI E VINTI
L’ESORDIO DEL RINASCIMENTO IN SCULTURA
IL RITORNO DEL BRUNELLESCHI: L’ESORDIO DEL RINASCIMENTO IN ARCHITETTURA
LO SPAZIO BRUNELLESCHIANO
RAPPORTO TEORIA PRASSI NELLA NUOVA CONCEZIONE BRUNELLESCHIANA
L’ESORDIO DEL RINASCIMENTO IN PITTURA
FANTASIA GOTICA E IMMAGINAZIONE VEROSIMILE RINASCIMENTALE
CAPISALDI DEL PENSIERO MASACCESCO
IMPORTANZA DEL BRUNELLESCHI, DI DONATELLO E DI MASACCIO PER L’EMANCIPAZIONE CULTURALE DELLA SOCIETÀ DEL TEMPO
IL PENSIERO ARTISTICO RINASCIMENTALE: IL NUOVO VALORE DELLA STORIA E DELLA NATURA
RIPRESA DELLA MIMESI
L’ANTROPOCENTRISMO
LE VICENDE DELLA VITA DI GESÙ CRISTO QUALE MODELLO ETICO IDEALE DELLE GESTA DEGLI EROI MODERNI
ARTE COME SCIENZA
SPIRITUALITÀ PAGANA E SPIRTUALITÀ CRISTIANA, OVVERO RAPPORTO CON IL MEDIOEVO
SIGNIFICATO DEL TERMINE RINASCIMENTO
SUDDIVISIONE CRONOLOGICA DELL’EPOCA RINASCIMENTALE
SUDDIVISIONE STORICO POLITICA
LE ALTRE OPERE DI FILIPPO BRUNELLESCHI
LA CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE
STRUTTURA DELLA CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE
IMPORTANZA DEL BRUNELLESCHI PER TUTTA L’ARTE RINASCIMENTALE E NON SOLO PER L’ARCHITETTURA
LA TERZA VIA ALL’UMANESIMO
IL PRIMO QUATTROCENTO, IL PERIODO DELLA RIVOLUZIONE
Firenze, piazza del Duomo
VEDUTA AEREA DELLA CHIESA DI SANTA MARIA DEL FIORE CON IL BATTISTERO DI SAN GIOVANNI
Il linguaggio occidentale moderno nasce a Firenze agli inizi del Quattrocento per opera di un gruppo di artisti mossi da un unico, comune desiderio: cambiare il corso dell’arte del proprio tempo. Tre giovani artefici in particolare vengono indicati come i padri fondatori del nuovo indirizzo rinascimentale nelle tre principali discipline artistiche: Filippo Brunelleschi (1377-1446) per l’architettura; Donatello (1386-1466) per la scultura; Masaccio (1401-1428) per la pittura. Gli altri artisti impegnati sul fronte del rinnovamento sono Lorenzo Ghiberti (1378-1455); Jacopo della Quercia (1374-1438) e Nanni di Banco (1384-1421); tutti scultori. Distingue i secondi dai primi un atteggiamento moderato nei confronti della tradizione tardo gotica, tradizione che i primi escludono decisamente dalla costituzione del nuovo linguaggio.
La spinta al cambiamento si manifesta per la prima volta nel cuore stesso della Firenze medievale, nella piazza dove sorgono il duomo e il battistero di San Giovanni, una costruzione romanica del 1100, rappresentativa ai massimi livelli dell’indirizzo formale seguito nell’Italia toscana dell’epoca.
LA NASCTA DEL LINGUAGGIO OCCIDENTALE MODERNO
È il 1401, l’Arte dei mercanti di Calimala, l’arte dei lanaioli, una delle corporazioni più potenti (esercitano il commercio dei tessuti di lana) indice un concorso per la realizzazione della porta est del Battistero, la porta situata di fronte alla facciata del duomo, dunque la più importante. Al concorso partecipano sette artisti, tra i più noti dell’epoca, fra cui, oltre al Brunelleschi, il Ghiberti, il senese Jacopo della Quercia, Giovanni d’Ambrogio (notizie dal 1366 al 1418), Francesco di Valdambrino (1363-1435), Simone da Colle (XIV sec.) Niccolò di Luca Spinelli (XIV sec.). La gara consiste nel realizzare un prototipo di formella decorativa entro la quale svolgere un tema obbligatorio, uguale per tutti, il sacrificio d’Isacco.
Nel battistero avevano già lavorato artisti dai nomi illustri. La decorazione musiva che ricopre le pareti interne era opera di Coppo di Marcovaldo (attivo almeno dal 1225 al 1270) che iniziò a metterci mano a partire dal 1225. All’esterno, fra il 1325 e il 1350, Andrea da Pontedera detto Andrea Pisano (attivo dal 1300 al 1350) aveva realizzato la porta sud, modellando le formelle decorative molto probabilmente su disegni dello stesso Giotto.
La porta del Pisano viene presa a modello della nuova e le formelle decorative che la animano fanno da traccia alle prove dei candidati. E proprio qui, nelle “prove d’esame” del Brunelleschi e del Ghiberti, gli esperti ravvisano le primissime manifestazioni della nuova arte che condurrà l’Europa definitivamente fuori dal Medioevo.
Prima di passare all’analisi delle due formelle in questione vediamo però in che ambito socioculturale vengono alla luce. Torniamo dunque con la Nuova Argo a Firenze e dirigiamoci verso il Museo del Bargello.
All’inizio del Quattrocento l’Europa occidentale è ancora tutta gotica. Domina sul finire del XIV secolo e l’inizio del XV, più precisamente fra il 1380 e il 1430, ma anche oltre, fino alla metà del Quattrocento, un linguaggio particolare, senza frontiere, ancora gotico, con caratteristiche comuni in tutte le regioni dove è andato diffondendosi, conosciuto col nome di Gotico Internazionale. Lo stile viene detto anche Gotico Cortese, in quanto prospera soprattutto nelle corti, o ancora Gotico Fiorito, in quanto è un linguaggio ricco di raffinatezze stilistiche e molto decorativo. Un modo che può andare bene in Europa, dove ci sono ancora i re a regnare, ma non in Italia, dove i re non ci sono; per lo meno non al centro e al nord, dove a governare c’è la borghesia finanziaria, manifatturiera e mercantile. Tuttavia anche in Italia, negli ambienti dei potenti di turno, si segue la moda “cortese”. La spiegazione sta nel fatto che se la nobiltà da un lato scompare dalle vene dei nuovi signori dall’altro resta nei loro atteggiamenti ostentati, i quali si esplicitano nel mecenatismo e nelle tematiche delle opere d’arte da loro finanziate. Fa eccezione a questa regola Firenze, dove in più occasioni il Gotico Internazionale trova una consistente resistenza alla sua indiscriminata diffusione per opera di una tradizione classicista fortemente radicata nella cultura figurativa della città. Nel contesto di questo quadro socioculturale europeo la rinascenza risulta essere l’espressione di una esigua minoranza di artisti operanti nel solo capoluogo toscano, pochi giovani apprezzati unicamente nella propria terra da una coraggiosa borghesia illuminata, avversi alla moda del momento, sentita come brillante ma superficiale, legata ad un mondo che non è il loro, un mondo destinato a scomparire per sempre, quello cavalleresco medievale.
Dal punto di vista politico il fenomeno di gran lunga più importante a Firenze è il crescente potere delle Arti. Queste sono corporazioni di professionisti o artigiani; la loro istituzione demarca il confine fra il Duecento e il Trecento. Si dividono in Maggiori e Minori. Le Maggiori sono 7, le Minori 14; alla testa di ognuna c’è un capitano o gonfaloniere. Le Arti più potenti sono le Maggiori che annoverano fra le loro fila i giudici, i notai, i mercanti, i banchieri, i lavoratori di lane, pellicce e seta, i medici e i farmacisti. Le Minori annoverano macellai, calzolai, fabbri, albergatori, fornai e vinattieri. Gli artisti sono incorporati nei medici e farmacisti, dunque fanno parte delle Arti Maggiori.
La crescita del peso politico di queste ultime provoca continue lotte con i nobili, ma non solo. Continui scontri ci sono anche all’interno delle stesse corporazioni fra grandi borghesi e borghesia minuta. Col passare del tempo e il complicarsi delle situazioni la contrapposizione fra le due fazioni diventa rivalità fra Guelfi e Ghibellini, e come succede sempre le continue scaramucce fanno emergere la necessità di trovare un arbitro al di sopra delle parti. La storia dimostra che questo arbitro al fine si trasforma in autorità assoluta, cosicché dai comuni si passa alle signorie. Nel 1378, il “tumulto dei Ciompi” rappresenta il momento decisivo per l’affermazione della grande borghesia nel governo della città.
Il termine signoria letteralmente sta a significare il potere personale di un signore, il quale spesso si identifica nel capo di una famiglia illustre. Agli inizi del Trecento molti comuni d’Italia si trasformano in signorie, ma Firenze resiste. Questo però non vuol dire che a Firenze, fra il Duecento e il Trecento, non ci siano tentativi di instaurare con la forza il potere personale di un signore; al contrario, ce ne sono molti, e anche alquanto cruenti. Per ben tre volte la repubblica fiorentina rischia il colpo di stato a causa delle continue guerre intestine ed estere. In città la signoria si istituisce ufficialmente solo nel 1569, quando Cosimo I de’ Medici (1519-1574) diviene granduca di Toscana, di fatto però inizia con un suo avo, Cosimo il vecchio (1389-1464), da quando, morto il padre Giovanni Bicci (1360) nel 1428, prende il suo posto nella direzione degli affari di famiglia. Ma chi sono i Medici?
La rinascita di Firenze nel corso del 1100/1200 spinge molti abitanti della campagna, nobili e plebei a cercare una nuova vita dentro le mura cittadine. Fra questi avventori ci sono anche i Medici, un’oscura famiglia arrivata dalle campagne del Mugello. Il primo dei Medici a far parlare di sé è Giovanni, padre di Cosimo il vecchio, nonno di Lorenzo il magnifico (1449-1492). La sua dinastia si estingue alla fine del Cinquecento. Il fratello di Cosimo il vecchio, Lorenzo il vecchio (1395-1440), da origine ad una casta non meno illustre anche se molto meno nota in campo storico artistico. Sarà la sua a sopravvivere sempre in cima alle alte vette del potere, fino alla prima metà del Settecento.
IL SOGGETTO DELLE FORMELLE PER IL CONCORSO DEL 1401
Firenze, Museo del Bargello
Lorenzo Ghiberti
SACRIFICIO D’ISACCO (1401)
Bronzo dorato, altezza cm. 45 – larghezza cm. 38
Formella per il concorso del 1401
Firenze, Museo del Bargello
Filippo Brunelleschi
SACRIFICIO D’ISACCO (1401)
Bronzo dorato, altezza cm. 45 – larghezza cm. 38
Formella per il concorso del 1401
Dopo questa necessaria parentesi torniamo alle formelle e occupiamoci subito del soggetto.
La nota vicenda biblica, oggetto di rappresentazione al concorso del 1401, vede come protagonisti Abramo, il grande patriarca, padre di tutti gli Ebrei, e Isacco, suo figlio. Abramo aveva una bellissima moglie, la sorellastra Sara, che però non poteva avere figli. Il tempo trascorreva inesorabile e il rischio di rimanere senza eredi si faceva sempre più incombente. Quando Abramo e Sara si erano ormai messi l’anima in pace, il Signore apparve in sogno al suo patriarca diletto per rinnovarle la promessa di farlo capostipite di un popolo, il popolo ebraico, e in quella occasione gli annunciò che la moglie avrebbe partorito un figlio. E così accadde che Sara all’età di 90 anni partorì Isacco. Davvero un miracolo! All’epoca del lieto evento Abramo aveva 100 anni. Ma la sorpresa non era questa; il meglio doveva ancora venire. Per vedere fino a che punto Abramo gli fosse fedele, circa dodici anni dopo, Iddio gli ordina di cimentarsi nella più crudele delle prove, sacrificargli il figlio donatogli. Certo un duro colpo ai sentimenti di un padre; ma anche alla ragione umana. Dopo avergli regalato un figlio a 100 anni, ora il suo Signore gli chiede di ucciderlo? Che senso ha? Non solo, ma c’era anche la promessa fattagli: in Isacco sarà la tua discendenza (Genesi capitolo XXI).
Abramo, sempre obbediente ai comandi divini, esegue senza discutere. In cor suo, chissà, avrà senz’altro pensato che una volta morto Isacco, Iddio onnipotente lo avrebbe fatto resuscitare. Così ancorché in piena notte, si alzò dal letto, mise il basto al suo asino, caricò la legna per il sacrificio, prese con sé il figlio e s’incamminò verso la “Terra di Visioni”, con al seguito due giovani. Dio non rivelò subito il monte dove Abramo avrebbe dovuto offrirgli in olocausto Isacco, ma si riservò di indicarglielo sottoforma di ispirazione divina al momento opportuno.
Dopo tre giorni di cammino Abramo con il figlio e i due giovani al seguito arrivano in vista del monte prescelto. Questo monte, che al momento non aveva nome, fu detto poi Moria che vuol dire “Iddio vede”, in ricordo della visione di Abramo. Il monte è lo stesso dove fu poi alzato il tempio di Salomone, di cui oggi non rimane che un pezzo di muro, il muro del pianto, sito a poca distanza dal Golgota, il monte dove fu crocifisso Gesù Cristo.
Giunti che furono ai piedi dell’erta, Abramo disse ai due giovani di aspettarlo li insieme all’asino, mentre lui, insieme ad Isacco, sarebbe salito sulla cima a fare adorazione.
Mentre salivano verso la sommità, ad Isacco, vedendo la legna, vedendo il fuoco, ma non vedendo l’agnello da immolare, venne spontanea una domanda: «Padre mio, ma la vittima dell’olocausto dov’è?» Abramo rispose: «Iddio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliol mio».
Una volta arrivati sulla sommità, il grande patriarca, come aveva già fatto altre centinaia di volte, accatastata la legna sopra il piccolo altare colà improntato, prese Isacco, lo legò, lo fece salire sul mucchio di fascine, gli prese la testa, gli espose il collo e si preparò a tagliargli la gola. Ma proprio in quel momento, inviato dal Signore, piovve dal cielo un angelo che intimò ad Abramo di fermarsi.
A quel punto, alzati gli occhi al cielo per ringraziare il Padre Eterno, il capo di tutti gli Ebrei scorse all’orizzonte un ariete con le corna impigliate fra i rami di un cespuglio di pruno, e quello sacrificò all’Onnipotente.
LE INTERPRETAZIONI DI GHIBERTI E DI BRUNELLESCHI
Questa la storia da raffigurare, ma come la interpretano i due artisti? Iniziamo con l’analizzare la formella del Ghiberti.
Per prima cosa notiamo che Lorenzo ha un modo completamente diverso di impostare l’intera composizione rispetto al Brunelleschi. I personaggi principali del racconto, Abramo, Isacco e l’angelo inviato dal Signore a fermare la mano del patriarca, sono collocati tutti nella metà destra della rappresentazione, mentre nell’altra metà sono inseriti i due giovani e l’asino. Li divide una profonda cesura costituita dal profilo del monte retrostante, sulla sommità del quale c’è accosciato, accanto ad un cespuglio, l’ariete che prenderà il posto di Isacco al momento del sacrificio: dunque la composizione è strutturata secondo una trama tessuta per linee verticali. Abramo e Isacco sono raffigurati frontalmente: il primo è bello come un filosofo antico, il secondo come un Apollo; l’ara sacrificale dov’è inginocchiato Isacco è anch’essa vista di fronte a dar conto della classicissima decorazione a girali. Messe insieme le tre cose costituiscono erudite citazioni dall’antico. La composizione si inserisce perfettamente nello spazio delimitato dalla cornice gotica della formella, detta “compasso”, così come la postura dei personaggi, l’andamento delle pieghe delle vesti e la dislocazione stessa delle figure ne riprendono e sviluppano lo svolgimento ondulante; i pieni sono distribuiti equamente, tanto a destra quanto a sinistra della linea falcata centrale, il bronzo è modellato per trasmettere la luce da una figura all’altra, espanderla su tutta la superficie del bassorilievo, fino a far trascendere il tutto in un’unica massa luminosa. Tutti gli elementi figurativi concorrono a dare il senso non di un avvenimento lacerante, drammatico, ma di un evento rituale, una recita di cui si conosca in anticipo l’epilogo finale. Non c’è dramma, non c’è tensione, tutto si svolge secondo le regole della liturgia religiosa. Aleggia sull’intera composizione il senso di fede in Dio, la stessa che sta portando Abramo sul procinto di uccidere il figliolo diletto. Il suo gesto è misurato, cadenzato, il coltello è ancora lontano dalla gola di Isacco, per cui l’angelo ha tutto il tempo di intervenire per fermare la mano del patriarca. Da parte sua Isacco non oppone alcuna resistenza al compiersi della volontà divina e invece che cercare di sottrarsi all’infame destino di vittima sacrificale si offre spavaldamente all’immolazione.
Analizziamo ora l’opera del Brunelleschi.
I personaggi principali del racconto sono collocati tutti nella metà superiore della rappresentazione, mentre i due accompagnatori e l’asino sono collocati nella metà inferiore. Li divide una invisibile ma sensibile linea orizzontale, costituita dall’allineamento del profilo del monte dove si sta consumando il sacrificio con la schiena dell’asino. L’ariete che prenderà il posto di Isacco è posto sulla linea mediana della composizione, e sembra assolutamente ignaro di come andrà a finire l’intera faccenda. Abramo e Isacco sono colti in un momento di particolare tensione e non hanno certo il tempo di far sfoggio del loro bell’aspetto. Infatti uno è ripreso di profilo, sbilanciato e scomposto nell’atto di avventarsi sul figlio, l’altro si lascia sorprendere in uno sgraziato quanto mutante movimento tortile che lo fa apparire contemporaneamente di profilo, di fronte e di tre quarti. L’ara sacrificale dove è inginocchiato Isacco è anch’essa vista di tre quarti e sul prospetto frontale non reca già un motivo decorativo ma un bassorilievo che rimanda e collega il sacrificio cristiano a quello pagano. La composizione contraddice lo spazio delimitato dal “compasso” della formella, tanto da uscirne con le figure dei due giovani, così come la postura dei personaggi, l’andamento delle pieghe delle vesti e la dislocazione stessa delle figure non riprendono affatto né sviluppano il suo svolgimento ondulante. I “pieni” sono distribuiti equamente, ma rispetto ad una linea che disegna un triangolo immaginario, con la base rivolta verso il basso e il vertice posto nel volto di Abramo. Il bronzo è modellato per bloccare la luce sulle cose, facendola rapprendere sulla superficie del bassorilievo, fino a formare una massa chiaramente scandita nella sua articolazione.
L’espressione che ne risulta è quella di un avvenimento lacerante, drammatico, ma anche di un avvenimento che trova la sua catarsi nell’indubbio epilogo finale. La tragedia è li sotto gli occhi di tutti: il coltello di Abramo sta per perforare la carne molle del collo di Isacco, ma l’angelo ha già afferrato il polso del patriarca: è certo che lo fermerà. Nulla dunque è indeterminato, tutto è chiaramente espresso. Sull’intera composizione del Brunelleschi non si respira già il senso della fede cristiana, ma il senso drammatico della storia che nasce dalla responsabilità che ha l’uomo di tradurre il disegno divino, spesso oscuro alla comprensione della mente razionale.
Veniamo al commento critico. A questa data, confrontando le due formelle, il Ghiberti è più classico del Brunelleschi, eppure c’è in quella del Brunelleschi un qualcosa che porterà ad uno stravolgimento dei valori estetici perseguiti fino a quel momento. Questo qualcosa è l’intuizione di un nuovo spazio: lo spazio prospettico. Ma non solo. Benché ancora a livello intuitivo, nella formella presentata dal Brunelleschi sono già presenti, potenzialmente, tutti i caratteri stilistici fondamentali del nuovo indirizzo umanistico: il dramma umano quale movente della storia, la geometria quale essenza del creato, la prospettiva quale legge universale. Quest’ultima non è ancora una prospettiva fatta di linee (il tipo lineare geometrico verrà più tardi) ma è una prospettiva fatta di masse, le masse solide delle figure che compongono la scena, spazio umano fatto dai gesti dei protagonisti.
Come abbiamo già avuto modo di rilevare se confrontata con quella del Ghiberti la rappresentazione del Brunelleschi è molto più intensa e stringente, si sofferma molto meno sulla descrizione dei particolari, ma soprattutto sembra cultura antica proiettata nel presente secondo nuove leggi, quelle della prospettiva razionale. Nella formella del Brunelleschi l’immagine artistica dipende si dalla cultura storica, ma nel momento in cui si struttura non obbedisce alle regole della tradizione, bensì a quelle della ragione, universali ed eterne; mentre nella formella del Ghiberti ciò che si proietta nel presente è la sapienza operativa che dall’antichità cristiana scende fino alla sua epoca attraverso Giotto (intendendo per “sua epoca” il periodo tardo gotico) e la legge a cui si appella è la legge della prospettiva empirica, quella dei padri storici, trecenteschi. La differenza non è da poco: Ghiberti usa la prospettiva intuitiva per coordinare le singole figure all’interno della composizione, Brunelleschi subordina le singole figure all’intuizione di un nuovo tipo di prospettiva, la prospettiva geometrica. Attenzione però, il Ghiberti non è un seguace dello stile gotico internazionale né è un conservatore, è semplicemente un artista che non osa rinnegare tutto il Medioevo. In tutti e due gli artefici si nota chiara l’intenzione di cambiare nel senso di un ritorno al passato classico, ma il come è totalmente diverso. Con il Brunelleschi la rinascita dell’arte antica si pone come una ripresa dei modi distintivi dell’arte di un particolare momento della storia umana, un momento in cui si è raggiunta, o si crede sia stata raggiunta, la perfezione artistica. Per lui l’arte non è più un’operazione tramandata di generazione in generazione, ma è un’operazione che si basa sulla conoscenza dei processi antichi, quelli che ora vengono considerati esemplari per il raggiungimento del bello. L’antico non è solo dimensione poetica, ma anche cultura storica: egli stesso interpreterà la sua invenzione, la prospettiva razionale, come un’opera di approfondimento della prospettiva intuitiva, scoperta dagli affrescatori romani del I secolo a. C. D’accordo con Lorenzo, anche secondo Filippo per giungere all’arte non occorre ripartire da zero, cioè guardare alla natura come se fosse la prima volta; anche per lui occorre trarre insegnamento dalla cultura artistica del passato per ricavare da essa la chiave interpretativa del piano ideale dell’essere. In altri termini anche per Filippo per fare arte bisogna guardare alla storia dell’arte. Ma allora cosa c’è di nuovo? C’è di nuovo che per il Brunelleschi la cultura storica è quella di un determinato periodo della storia dell’arte; l’Antico è per lui solo il mondo classico, mentre tutto ciò che c’è stato in mezzo, ovvero la cultura della tradizione gotica, è da saltare. La scelta del Brunelleschi nasce dunque da un capovolgimento ideologico nella cultura estetica medievale; per lui l’arte non è sempre stata, ma si è prodotta soltanto durante l’antichità classica; l’arte medievale non è arte.
Come prima conseguenza di questo assunto ideologico vengono a cadere tutti gli insegnamenti seguiti fino ad ora in fatto di metodo operativo. L’arte per Filippo non è affatto un processo di stilizzazione dell’immagine naturale, ma, al contrario, è un processo di proiezione nello spazio della cultura storica e razionale attraverso cui si compie l’esperienza della realtà. I rapporti di misura e di equilibrio non sono dati all’uomo dalla natura, ma dall’uomo alla natura. Se dunque, in ultima analisi, l’arte, il modello ideale, l’archetipo non va ricercato nel mondo esterno ma nel contenuto della propria coscienza e la coscienza è fatta da ciò che ci metti dentro, cosa può essere questo contenuto che prende forma attraverso l’esperienza artistica se non la cultura classica? Cioè una cultura che tiene in ugual conto storia, esperienza e ragione.
I modi gotici di individuazione dell’arte sono completamente abbandonati e la rinascita non è affatto lo sbocco storico naturale di un lungo cammino che passa attraverso i grandi del passato. Tuttavia il Brunelleschi sa bene che la sua posizione estrema presenta dei punti oscuri assolutamente non trascurabili. Giotto, Andrea Pisano, Arnolfo di Cambio erano uomini del Medioevo, e allora come ammettere la loro elevazione a precursori del Rinascimento? Ebbene, il problema viene superato osservando che c’è stato chi nel buio della storia medievale ha tentato di ritrovare la luce dell’antica classicità, come i suddetti artisti.
Del periodo “gotico”, cioè del Medioevo, dunque, non si condanna tutto. Si salvano quegli autori che nelle loro opere mostrano sensibilità verso le radici classiche, anche se nozioni e metodi più che alla fondazione di un nuovo linguaggio finalizzato alla comprensione della realtà naturale e umana sono serviti a rendere naturali, intuitive, le immagini dell’arte. Questi autori vengono intesi come pionieri di quel vasto movimento culturale che vuole il riaggancio dell’arte dell’epoca all’arte antica, per una ripresa e un’estensione a tutto il Creato dei principi classici, piuttosto che come riformatori storici delle radici culturali del linguaggio figurativo della tradizione gotica.
Con Lorenzo Ghiberti invece più che di rinascita dell’arte antica si deve parlare di continuità dell’arte corrente con il passato. Infatti per lui l’arte quattrocentesca si pone come lo sbocco naturale di un lungo percorso che attraversa l’intero Medioevo, passa per Giotto e giunge agli inizi del secolo dove trova la sua continuità storica nell’aggiornamento culturale con le novità internazionali e rivoluzionarie. Il Ghiberti è convinto che per risalire all’arte è necessario risalire alle fonti attraverso l’analisi critica di tutto il passato, e non solo guardando alle opere di un determinato periodo in particolare, quindi le immagini del mondo antico del Ghiberti non si ricollegano alle fonti latine scavalcando tutto il Medioevo, come invece avviene nei colleghi rivoluzionari. Il Ghiberti cerca di ritrovare le radici greco-romane nella cultura del suo tempo, risalendovi attraverso il vaglio critico della cultura che le ha tramandate, per sviluppare poi nel senso storicistico della rinascita tutto quello che in essa può trarre beneficio dal naturalismo gotico internazionale. Con lui dunque l’arte è uno strumento d’individuazione linguistica fondato sullo sviluppo delle esperienze storiche. In altri termini il Ghiberti non intende, come hanno fatto invece i rivoluzionari della rinascita, costruire una nuova immagine artistica della realtà guardando all’immagine creativa attraverso la lente del passato classico, trascurando il lascito culturale della tradizione; non può accettare l’idea che di tanto tempo e di tanta cultura non si debba rilevar traccia nelle opere contemporanee; il Ghiberti non sente il bisogno di una rinascita dell’arte, quanto piuttosto il bisogno di un rinnovamento. Insomma il Ghiberti non è, a differenza del suo collega Brunelleschi, un rivoluzionario, è più che altro un riformista moderato, cosa che lo pone tuttavia, non meno del Brunelleschi, a capo del movimento di rifondazione dell’arte occidentale.
VINCITORI E VINTI
Firenze, porta est del battistero (oggi porta nord)
Lorenzo Ghiberti
BATTESIMO DI CRISTO (1403/1424)
Bronzo dorato, altezza cm. 65 – larghezza cm. 57
Firenze, porta est del battistero (oggi porta nord)
Lorenzo Ghiberti
FLAGELLAZIONE (1403/1424)
Bronzo dorato, altezza cm. 65 – larghezza cm. 57
Chi vince il concorso? Il Ghiberti.
Ottenuta la prestigiosissima commissione Lorenzo con la sua fiorente bottega si mette subito al lavoro. Ha così inizio un impegno che dura per ben 23 anni, dal 1401 al 1424; quando avrà finito l’autore è ormai un uomo maturo di 47 anni.
Nella porta il Ghiberti ribadisce i concetti espressi nella prova del concorso. Le cose sono espressione di Dio e questo si identifica con la luce naturale e non teorica, che si effonde e rivela sfuggendo al controllo della ragione, ma non a quello della tecnica: e ciò è ancora gotico.
Per il Ghiberti la prospettiva è un sistema per propagare la luce naturale e rendere evidenti le forme naturali; va bene per lo sfondo dell’azione umana, ma non per le figure che agiscono in primo piano. Queste, costruite sulla base della propria esperienza tecnica, non hanno nulla di empirico, sono forme culturali, storiche.
Filippo Brunelleschi
VEDUTA DI PIAZZA DELLA SIGNORIA -VEDUTA DEL BATTISTERO (1401/1418)
Ricostruzioni ideali
E il perdente come reagisce? Non certo bene: abbandona la scultura. Ma benché profondamente provato dalla sconfitta il Brunelleschi non si lascia sopraffare dalla depressione, al contrario, si ritira ad approfondire la sua intuizione, la prospettiva; quindi studia, viaggia, sperimenta. È probabile che si rechi a Roma fra il 1406 e il 1416, insieme al suo collega e amico Donatello, a studiare dal vivo le tecniche costruttive e le proporzioni dei monumenti antichi, come ci dice Antonio Manetti (1432-1497), uno dei suoi più fedeli collaboratori, nonché biografi. Inoltre approfondisce le sue conoscenze sulla prospettiva ottica arrivando a teorizzare la prospettiva razionale. Per verificare il risultato delle sue ricerche dipinge due tavolette: una con la veduta di Piazza della Signoria e l’altra con la veduta del battistero ripresa dal portale centrale del duomo. Tutte e due le vedute sono realizzate rigorosamente in prospettiva.
L’ESORDIO DEL RINASCIMENTO IN SCULTURA
Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Nanni Di Banco
SAN LUCA (1408/1413)
Marmo, altezza mt. 2,08 circa
Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Donatello
SAN GIOVANNI EVANGELISTA (terminato nel 1415)
Marmo, altezza mt. 2,10
Brunelleschi nella formella abbozza il nuovo linguaggio rinascimentale plastico, ma non va oltre l’intuizione, non approfondisce la sua scoperta, non fa altri bassorilievi né statue. L’abbandono della scultura non gli permette di precisare quelli che sono i caratteri dell’uomo nuovo quattrocentesco. La sua umanità risulta infatti per molti versi ancora impostata sul modello di quella trecentesca di Giovanni Pisano (1255-1315). Il compito di portare avanti il discorso rivoluzionario aperto dal Brunelleschi e di fornire la prima interpretazione compiuta e moderna della figura umana secondo il nuovo spirito umanistico spetta a Donatello.
All’inizio del Quattrocento non c’è solo il battistero di cantiere aperto, ce ne sono altri non meno prestigiosi, come quelli di Orsanmichele e di Santa Maria del Fiore. Qui lavorano fianco a fianco artisti vecchi e nuovi. Fra i nuovi alcuni sono in evidente sintonia con le idee del Brunelleschi. La facciata del duomo, in particolare, rappresenta la prima occasione offerta agli scultori innovatori per un confronto sul tema della statua. Fra questi, due in particolare spiccano per talento e coraggio. Si tratta del giovane Donato Bardi, detto Donatello, e di Giovanni di Antonio di Banco, detto Nanni di Banco. Tra i due corrono pochi anni di differenza: Donatello è nato nel 1386 e Nanni sicuramente prima del 1390. Per la facciata del duomo eseguono due evangelisti, san Giovanni e san Luca. Entrambe le statue vengono realizzate nel primo quarto di secolo; entrambi gli scultori condividono il principio di fondo comune al Brunelleschi e al Ghiberti per cui la rappresentazione artistica non è il prodotto di una ricerca sperimentale continuamente riproponibile, ma è la rappresentazione in termini di cultura storica della realtà in quanto gnosi della natura. Ma dall’analisi comparativa delle due statue si comprende bene come per cultura storica Donatello e Nanni non intendano affatto la stessa cosa. Per Nanni è cultura antica che si acquisisce tramite lo studio del passato, per Donatello è cultura antica radicata nel modo di esprimersi vivo, concreto della gente comune, una sorta di volgare figurativo da trarre dall’osservazione del mondo umano che ci circonda. Dopodiché per Nanni la rinascita è una pura questione linguistica, scelta di vocaboli e sintassi da adattare alle singole situazioni, semplice estetica, per Donatello è strutturazione di una nuova lingua per una nuova realtà, fermento nobile per una nobile causa. Per entrambi, comunque, rinascita non vuol dire mera imitazione della statuaria classica, ma qualcosa di molto più complesso, soprattutto significa reazione allo stile tardo gotico.
Che per Nanni l’arte è linguaggio lo sta a dimostrare il fatto che quando esegue le sculture per la trecentesca porta della Mandorla del duomo di Firenze, realizzata dal tardo gotico Giovanni d’Ambrogio su disegno di Arnolfo (1235 c. – 1310 c.), per annodare il suo intervento al contesto preesistente, torna ad usare un vocabolario medievale, anche se con una metrica severa e compita come quella latina.
Nel San Luca si nota bene come ricerchi per la sua statua un atteggiamento di elegante compostezza nonché un armonioso inserimento nello spazio dove la scultura si pensa collocata idealmente. Nel San Giovanni si nota invece come Donatello interpreti la statua alla stessa stregua di un essere dotato di vitalità propria, un individuo che si muove all’interno dello spazio ambiente, anzi che cerca di conquistarlo, rapportarlo a sé invece che essere lui a rapportarsi al vuoto che lo coniene, una persona non intellettualmente superiore e distaccata come il san Luca, ma dotata di sentimenti umani, mosso nelle vesti così come è nella realtà delle cose, senza cadenze euritmiche, animato da un chiaroscuro spezzato, ottenuto mediante un modellato capace di creare sulla superficie del marmo imprevedibili cambiamenti di luce. In sintesi Nanni inserisce parole antiche in vecchie metriche spaziali, Donatello inventa nuove parole per nuovi spazi.
In entrambi i casi comunque si deve parlare di spazio umano, anche se si tratta di un’umanità sentita in modo diverso. Le statue di Nanni e di Donatello rappresentano l’essere individuo nel mondo, ma, contrariamente al primo, per il secondo la realtà umana è una realtà in collisione con l’armonia senza fine del Creato, in cerca di un impossibile equilibrio: più tardi, dopo il 1435, la sua idea di rinascimento umano diventerà tendenza anticlassica della rinascita dell’arte antica.
Firenze, chiesa di Orsanmichele
Lorenzo Ghiberti
SAN GIOVANNI BATTISTA (1414)
Bronzo, altezza mt. 2,68
Firenze, chiesa di Orsanmichele
Nanni Di Banco
QUATTRO SANTI CORONATI (1410 / 1415)
Marmo, altezza mt. 2,00
Firenze, Museo Nazionale del Bargello
Donatello
SAN GIORGIO (verso il 1420)
Marmo, altezza mt. 2,09
Il confronto fra Nanni e Donatello iniziato nella facciata del duomo continua nelle nicchie di Orsanmichele; ma questa volta al dibattito partecipa anche il Ghiberti.
Il problema principale che si trova ad affrontare uno scultore durante l’esercizio delle sue funzioni riguarda la luce naturale. Per un pittore la luce è quella che risulta dai toni di colore con cui egli realizza le sue immagini, una e per sempre la stessa; nel bassorilievo lo scultore può regolare la luce orientando opportunamente la superficie scolpita. Ma con la statua si ha a che fare con una massa immersa nella luce naturale che può colpirla da ogni dove, e allora in tal caso il lavoro dell’artista consiste proprio nel captare i raggi luminosi e trasformarli in forma, risultato questo che ottiene plasmando la materia; e la sua abilità consiste proprio nel saper controllare gli effetti chiaroscurali attraverso il modellato.
Nel San Giovanni Battista il Ghiberti vuole ottenere una forma indefinita, sfuggente, un momento di solidificazione del principio universale che da vita al mondo: la luce, appunto. Per ottenere ciò riempie il manto che avvolge il corpo del Battista di un’infinità di pieghe ondeggianti il cui scopo è quello di spezzare, disperdere l’unità della figura, portare l’occhio a smarrirsi nel loro movimento continuo, ritmico. Il ritmo dunque è l’elemento strutturante, e ciò a cui da vita è un momento di intensificazione luminosa che sublima la figura nella luce: e questo è tipicamente gotico. Quando passa poi a trattare del rapporto fra statua e nicchia il Ghiberti si comporta come nelle formelle, e cioè va alla ricerca dell’assonanza fra le movenze del Battista e l’andamento della cornice architettonica.
La scelta del bronzo non è casuale. Era dall’epoca degli antichi Romani che non si facevano più statue in bronzo: dunque la ripresa della plastica bronzea rientra nello spirito della rinascita delle tecniche perdute. Ma non solo: il bronzo si rivela determinante, fondamentale per rendere al meglio, grazie ai suoi riflessi, il senso d’effusione della luce.
Nel gruppo dei SS. quattro coronati di Nanni le quattro figure scolpite sono, più che ispirate alla ritrattistica imperiale romana, vere e proprie ricostruzioni filologiche in lingua latina. Ad essa si rifà l’impianto complessivo: statiche e solenni le statue si inseriscono perfettamente nello spazio della nicchia nella quale stazionano. Ne risulta che la forma geometrica non è solo la forma dello spazio architettonico ma è anche l’essenza della figura umana e che alla struttura di questo la sua struttura si commisura. Tutta romana è anche l’attenzione con la quale ogni personaggio viene individuato nella sua singolarità di individuo, unico e distinto da ogni altro, così come romana è l’espressione dell’ideale civile in termini di dignità umana.
Collocato in un’altra nicchia della stessa chiesa, e ora al Museo Nazionale del Bargello, è il San Giorgio di Donatello, scolpito fra il 1416 e il 1420. L’opera gli viene commissionata dall’Arte dei corazzai: e questo spiega la scelta di un santo come san Giorgio, tradizionalmente raffigurato bardato di tutto punto con scudo e corazza.
Il San Giorgio è un tema molto caro ai fiorentini. Al pari del David rappresenta la vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta, bestiale dell’essere immondo: il drago. Generalmente è rappresentato a cavallo nell’atto di uccidere l’efferata bestia e liberare la pulzella, offertagli in sacrificio per placare la sua forza devastatrice. Qui non c’è il cavallo e neanche tutto il resto, c’è solo il giovane santo armato unicamente dello scudo. Dunque non c’è l’azione ad esprimere il senso del dominio, il gesto ispirato, guidato dalla mano divina; al suo posto c’è un penetrante, volitivo sguardo umano che sta a significare coscienza della propria forza interiore, dominio degli eventi attraverso il controllo razionale della propria condotta.
Dal punto di vista stilistico è possibile rilevare come Donatello cerchi i vocaboli del suo linguaggio classico nei volti e nelle membra degli uomini della Firenze dell’epoca. Il volto di San Giorgio è infatti quello di un ragazzo d’oltrarno, trovato, più che nelle tavole gotiche o nelle statue pagane, in mezzo alla gente comune. Spirito indagatore, egli si spinge a cercare l’essenza nella realtà in cui vive e opera. L’approfondimento di questa sua ricerca lo porterà progressivamente a rivedere i principi universali su cui è impostata la cultura figurativa classica; non più principi formali, ma motori sono all’origine di tutte le cose. A parte ciò, comunque tutto il resto obbedisce a precise ragioni geometriche, studiate appositamente per esprimere fermezza e solidità.
Non diversamente dalle statue per il duomo anche in questa, nonostante si ricerchi l’equilibrio statico, il senso che è dato percepire è quello di un movimento interno, viscerale, contenuto entro i limiti del volume geometrico che ne racchiude e definisce inequivocabilmente la forma. Sembra come se la figura scolpita sia mossa da una forza invisibile che ne scuote la superficie dall’interno; tutto è studiato per ottenere questo effetto. Infatti, benché la forma sia giocata totalmente sul contrapporsi di schemi triangolari che si dispongono in sequenza su un asse verticale di mezzeria, basta una piccola rotazione del busto verso destra e del volto verso sinistra ad animare il marmo.
Donatello, contrariamente al Ghiberti, vuole dare alla sua statua una forma definita, certa. Per ottenere questo effetto scava profondamente la materia da un lato e dispiega le superfici affioranti dall’altro in modo da creare un contrasto che solidifica la luce in un volume unitario e concreto. Qui l’occhio coglie esattamente i limiti della figura; non c’è ritmo; il movimento è momentaneamente sospeso, ma la statua non è senza vita; la muove la volontà di agire in uno spazio reale e concreto: e questo è pienamente rinascimentale.
Infine, venendo al rapporto fra spazio e figura umana, la statua di Donatello non è condizionata dall’architettura che la contiene, al contrario, interagendo liberamente con lo spazio della nicchia gotica, impone ad esso il suo ordine, solennizzandolo e ricalibrandolo sul metro dell’antica moralità della statuaria romana.
Nanni muore giovane, all’età di 31 anni, e non avrà il tempo di portare avanti la sua visione classicista; Donatello muore nel 1466 all’età di 80 anni e avrà invece tutto il tempo di approfondire la sua esperienza rivoluzionaria giovanile. Spirito inquieto, non si ripeterà mai, per tutta la sua lunga e operosa vita sarà sempre all’avanguardia, giungendo per primo a distruggere quello stesso ideale umanistico alla cui fondazione ha contribuito in primissima persona.
Firenze, Museo del Bargello
Donatello
UCCISIONE DEL DRAGO (già sul fronte del piedistallo del San Giorgio) (verso il 1420)
Rilievo schiacciato in marmo, altezza cm. 39 – larghezza cm. 120
Il lavoro sperimentale sulla prospettiva condotto dal Brunelleschi negli anni del suo silenzio non è un segreto, anzi diviene subito oggetto di discussione e approfondimenti da parte degli artisti più avanzati del tempo.
La prospettiva è un modo di rappresentare lo spazio tridimensionale su un piano bidimensionale. In pittura la cosa può far comodo per ampliare la profondità reale del dipinto, nulla, con una profondità illusoria; In un bassorilievo, ad esempio, che è una via di mezzo fra scultura e pittura, la prospettiva potrebbe servire ad amplificare lo spazio reale con un supplemento di spazio illusorio, cioè potrebbe rendere molto più profonda la rappresentazione. Nel San Giorgio che uccide il drago, tema trattato nel bassorilievo che orna il piedistallo del suo San Giorgio, Donatello utilizza la prospettiva non per aumentare la distanza fra il primo piano e il piano di fondo, ma, al contrario, per diminuirla, fino al punto di annullarla quasi del tutto. Il motivo per cui trasforma un vuoto concreto, praticabile, in un vuoto illusorio, fatto di marmo come le statue sta nel fatto che per lui la prospettiva è il mezzo adatto per sottrarre la materia ai capricci della luce naturale, e questo a maggior vantaggio della leggibilità dell’immagine scolpita, quindi tramite il suo ausilio si riesce anche a dare risalto alla figura umana senza arrivare ad imporla materialmente sullo sfondo attraverso la sua corporeità concreta. Egli, da scultore qual è, “disegna” con la luce; le linee sono concrete zone d’ombra. Per ridurre ad un filo sottile queste zone usa un rilievo bassissimo, lo “stiacciato”, mentre di fronte alla necessità di creare ombre più scure senza far sporgere ulteriormente la figura ricorre al “sottosquadro”, cioè scava un solco profondo dietro di essa.
Tornerà sull’argomento cinque anni dopo con la formella realizzata per la fonte battesimale del battistero di Siena, ma stavolta troverà il Ghiberti e Jacopo della Quercia a rispondergli. Qui, nel San Giorgio, contrariamente a quello che farà il Ghiberti nella formella della fonte battesimale, che sfrutterà l’illusione prospettica per aumentare lo spazio reale della scultura affinché il passato avanzi più lentamente verso il presente, Donatello, per impedire al dramma ineluttabile della storia di stemperarsi nel cadenzato avvicinamento al contingente, arriva a negare lo spazio oggettivo della scultura: secondo lui, allora, il limite a cui deve tendere il rilievo è la pittura.
Stando a quanto va facendo, per Donatello la prospettiva dell’amico Brunelleschi è una legge che riguarda solo lo spazio; l’uomo è libero da questa legge. Lo spazio umano ha si la regolarità di quello architettonico, ma non vincola le azioni degli uomini, anzi queste gli si contrappongono in un più che evidente contrasto, poiché le azioni umane per lui sono il frutto delle passioni con cui ogni individuo vive la sua parte di dramma: è l’intuizione prima di uno dei principi formali fondamentali del Rinascimento e cioè quello che vede nel dramma il modo di essere proprio della spiritualità cristiana. Nasce così con Donatello il problema del rapporto fra espressione dei sentimenti e struttura formale, ovvero: come si può sintetizzare nella stessa forma l’eccesso di sentimenti proprio dello spirito cristiano medievale con l’assenza di sentimenti proprio dello spirito pagano classico.
IL RITORNO DEL BRUNELLESCHI: L’ESORDIO DEL RINASCIMENTO IN ARCHITETTURA
Firenze, basilica di San Lorenzo
Filippo Brunelleschi
INTERNO (iniziata nel 1418)
Dopo 17 anni di silenzio, ormai quarantunenne, Filippo torna in scena in qualità di architetto. Nel 1418 partecipa al primo concorso indetto per l’innalzamento della cupola del duomo, concorso che sarà procrastinato per permettere ai concorrenti di precisare ulteriormente i propri progetti. Contemporaneamente per la famiglia Medici progetta ed esegue una serie di ragguardevoli lavori.
Giovanni di Bicci, padre di Cosimo I il vecchio, finanzia la fondazione dell’opera di carità dello “spedale degli innocenti”, l’ampliamento della chiesa della SS Annunziata, la ristrutturazione dell’antica basilica di San Lorenzo, chiesa di famiglia, nonché, l’anno successivo, la costruzione della sagrestia (la vecchia) annessa alla stessa basilica. Sono tutte opere di capitale importanza, in cui il Brunelleschi ha la possibilità di sperimentare le sue teorie su tre scale diverse: architettonica, urbanistica e paesaggistica. In tutti e quattro i lavori egli si presenta già armato di quella prospettiva razionale con la quale intende fissare in mezzo ai vivi e in modo inequivocabile ed eterno lo spazio dell’antichità classica.
Giovanni è un uomo che non si occupa di politica, ma inevitabilmente, a causa della sua posizione sociale, assolutamente visibile (è un cambista, cioè un banchiere) alla fine ci si ritrova inevitabilmente dentro. La sua gestione del potere è ineccepibile attenta com’è a non farsi nemici.
Fra le imprese citate San Lorenzo, in special modo, assurge a manufatto di particolare pregio. Infatti non è soltanto una chiesa, è l’enunciazione in termini architettonici della nuova concezione spaziale brunelleschiana.
La rivoluzione brunelleschiana non è un fulmine a ciel sereno; il cambiamento era già nell’aria: lo dicono alcuni brani che recano tracce di classicismo ancor prima che il Trecento finisca. Uno di questi si trova negli stipiti del portale della Mandorla del duomo di Firenze; c’è poi anche la loggia dei Lanzi in piazza della Signoria, del 1376/1381, di Benci di Cione (1310 c. – 1388) e Simone Talenti (1340 – 1381 c.), i cui archi a tutto sesto dichiarano in modo inequivocabile la vocazione classicista del medioevo fiorentino. Ma la concezione spaziale del Brunelleschi ha delle caratteristiche assolutamente inedite.
Benché Filippo non abbia scritto trattati teorici, analizzando i lavori che ci ha lasciato è possibile risalire al suo pensiero artistico. Fra essi, quello che forse più di ogni altro si presta ad illustrare in modo quanto mai eloquente la sua poetica architettonica è l’interno di San Lorenzo.
Guardando alle opere degli antichi Brunelleschi concepisce la forma dello spazio architettonico come forma geometrica e l’arte come rapporto armonico fra gli elementi strutturali delle forme geometriche. Brunelleschi non sostiene la finitezza dello spazio, sa perfettamente che lo spazio è infinito, ma sa altrettanto bene che è sempre possibile rappresentare in modo finito ciò che è infinito: la prospettiva è il sistema razionale attraverso cui si rappresenta in modo finito lo spazio infinito. Lo spazio prospettico, che dà conto razionalmente delle sembianze, è scientificamente determinabile, ed è frutto di un sistema di concetti a priori che, procedendo per una serie di astrazioni, tende al raggiungimento dell’armonia totale.
Il vuoto indefinito diventa spazio finito e razionale per mezzo di tre piani del tutto speciali, gli unici tre fra un’infinità, che si dispongono ortogonalmente fra loro; i piani a loro volta sono porzioni di spazio bidimensionale delimitato da rette. Anche queste si pongono ortogonalmente fra loro a definire delle figure geometriche semplici e regolari. Ogni piano è pensato come una superficie trasparente attraverso cui si vede esattamente tutto ciò che si trova al di là. In termini pratici ogni singola parete è considerata un quadro prospettico su cui si disegna l’immagine della realtà spaziale che si trova nel quadrante opposto a quello dell’osservatore. Per disegnare sulla parete questa realtà spaziale che si trova al di là del quadro prospettico Brunelleschi, da architetto qual è, usa gli elementi propri del linguaggio architettonico, colonne, paraste, archi e cornici. Lo spazio brunelleschiano dunque risulta costituito idealmente da un complesso di superfici bianche su cui sono “disegnati”, con la pietra e lo stucco, gli elementi architettonici attraverso cui si definisce. Questi, a loro volta, proiettandosi, si vanno addensando sopra le pareti, determinando così lo spessore dei profili aggettanti. Per rendere ancor più efficace la resa di detto concetto spaziale le membrature sono rimarcate tramite la scelta di materiale apposito: la pietra serena, tanto cara ai fiorentini. Realizzare disegni in pietra naturalmente significa dare alla materia il minor spessore possibile, e per Filippo l’architettura è uno strumento per proiettare lo spazio disegnato nella realtà concreta.
Il Brunelleschi non ricorre alla prospettiva per ordinare uno spazio preesistente, bensì per controllarlo, per sottoporlo alle regole della visione razionale. Gli elementi architettonici, cioè le parole del discorso architettonico, non preesistono all’ordine prospettico, ma si costituiscono sulla base di quest’ordine. Naturalmente il suo intervento non si esaurisce nella fase interpretativa, ma prosegue nell’applicazione delle misure ritrovate alla progettazione di nuovi spazi, meglio rispondenti alle esigenze del proprio tempo.
RAPPORTO TEORIA PRASSI NELLA NUOVA CONCEZIONE BRUNELLESCHIANA
La mimesi in architettura per Filippo è un processo che si deve svolgere prima dell’esecuzione: la forma ideale si determina nell’opera quando questa si trova ancora in fase di progettazione, lo spazio costruito deve ricalcare perfettamente lo spazio disegnato. Dunque per il Brunelleschi l’arte è una costruzione a priori, un’attività mentale, non manuale, che orienta, anzi determina, la prassi del costruire; un’operazione intellettuale che si svolge senza che l’oggetto primo, la natura, sia presente al momento dell’esecuzione. Quanto detto però non significa impedire all’artista di intervenire sull’opera in corso di realizzazione; Brunelleschi è un artefice che partecipa sempre in prima persona alle fasi esecutive dei suoi progetti. Durante le fasi di costruzione della cupola arriva addirittura a progettare le attrezzature speciali che gli servono per mandare avanti il cantiere a lavori già abbondantemente avviati.
Firenze, chiesa di Santa Croce
Donatello
CROCIFISSO (1408/1409 c.)
Legno policromo, altezza mt. 1,68
Firenze, chiesa di Santa Maria Novella
Filippo Brunelleschi
CROCIFISSO (1425 c.)
Legno policromo, altezza mt. 1,70
La differenza fra arte rinascimentale e tardo gotica, sebbene all’apparenza così marcata, in realtà non è di ordine concettuale ma ideologico. Come per gli artisti tardo gotici anche per i pionieri del Rinascimento l’arte sorge dall’arte, non dalla natura. L’unica differenza è che per gli artefici della rivoluzione l’arte da cui trarre i propri modelli non è quella della tradizione, bensì quella antica. Diversamente dal Gotico Internazionale l’arte rinascimentale non è sviluppo del linguaggio medievale in senso naturalistico, ma cesura col linguaggio della tradizione per un riaggancio con il linguaggio dell’antichità classica. Fatta però la distinzione si pone subito il dilemma per cui l’arte rinascimentale potrebbe essere interpretata sia come un guardare la natura attraverso l’insegnamento dei classici oppure un guardare ai classici sulla base della nuova cultura quattrocentesca. Dunque l’arte rinascimentale non è solo, come si potrebbe pensare, rappresentazione della natura alla luce della cultura antica, ma anche riproposizione della cultura antica alla luce delle esperienze moderne. In comune le due visioni hanno il fatto che in ogni caso l’antico per gli artisti rinascimentali è un mondo ideale, dunque suscettibile di diverse interpretazioni poetiche.
La diversità interpretativa già si vede nelle posizioni dei suoi stessi fondatori, Brunelleschi e Donatello. Filippo Brunelleschi è l’autore della prima opera rinascimentale in ordine cronologico, ma in Donatello è già la prima interpretazione in senso anticlassico del nuovo linguaggio. Per chiarire la sua concezione di arte antica nei confronti dell’amico, Filippo torna per un breve istante della sua carriera a fare lo scultore. Ma dopo 24 anni è un uomo ben diverso dal Brunelleschi del Sacrificio d’Isacco, un uomo che ha maturato un’idea di rinascita molto distante da quella di allora, opposta a quella del collega. Rimangono tuttavia comuni fra i due i nodi strutturali del pensiero di fondo, per cui tanto il Brunelleschi quanto Donatello si pongono dalla parte di chi non contempla le cose per trascenderle; per loro la natura non è mistero sfuggente, è cultura storica. Sia per Filippo che per Donato è il riflesso del dominio dell’uomo sulle cose; tanto per l’uno quanto per l’altro è linguaggio rappresentativo, imitativo delle forme storico naturalistiche. Ma il Brunelleschi rappresenta il dominio dell’uomo sulla natura con l’ordine, la misura, l’equilibrio che il faber dà alle cose, Donatello lo rappresenta col modellato stesso attraverso cui l’artefice forza la materia per darle la forma desiderata; per il primo tra uomo e spazio-ambiente non c’è attrito ma perfetta armonia, per il secondo l’uomo conquista di prepotenza l’ambiente in cui vive e guarda alle sue vicende con intensa partecipazione emotiva. Insomma Filippo e Donato impersonano due differenti interpretazioni del linguaggio rinascimentale che derivano da due differenti maniere di rappresentare il modo di essere dell’uomo nel mondo, il suo modo di rapportarsi ad esso. L’uomo di Filippo è un essere in armonia con il resto del Creato, il suo è un dominio calmo e sicuro; l’uomo di Donato è una creatura in perenne tensione con l’ambiente in cui vive e il suo è un dominio problematico, imposto con la forza, drammatico. Un’altra differenza fondamentale riguarda l’aspetto prettamente linguistico: per il Brunelleschi il linguaggio rinascimentale è un linguaggio colto, che dipende dalla conoscenza della cultura classica; per Donatello il linguaggio rinascimentale è un linguaggio popolare, che nasce spontaneo in seno alla comunità, un volgare figurativo che dipende da una sorta di virtù classica connaturata nella parlata del popolo toscano. Una differenza che discende dallo status sociale dei due: Filippo è il professionista che parla la lingua della borghesia intellettuale, Donato è il popolano che parla la lingua della borghesia plebea; dunque una differenza che riguarda unicamente la fonte della cultura classica, non la sua importanza.
La storia di due crocifissi, uno collocato nella chiesa di Santa Maria Novella, del Brunelleschi, e l’altro collocato nella chiesa di Santa Croce, di Donatello, o meglio la leggenda che li vede protagonisti, serve bene a rendere l’idea della distanza fra le interpretazioni dei due pionieri del Rinascimento riguardo al tipo di arte che si intende far rinascere. In essi è possibile rilevare il modo attraverso cui si configurano il rinascimento teorico del Brunelleschi e il rinascimento umano di Donatello.
Da quanto ci racconta il Vasari (1511-1574), un giorno il Brunelleschi viene invitato da Donatello nella sua bottega per ricevere un giudizio sul crocifisso che egli aveva appena finito di scolpire per la chiesa di Santa Croce. Appena Filippo lo vede si mette subito a rimproverare il suo amico contestandogli di aver messo in croce un contadino; per lui Gesù Cristo non poteva avere le fattezze di un uomo del volgo, ma doveva avere un corpo perfetto in quanto figlio di Dio. Colto di sorpresa dalla reazione del collega e alquanto risentito Donatello si lascia andare a un commento piuttosto polemico, sentenziando che è fin troppo facile giudicare, difficile è fare. A Filippo l’appunto di Donato non gli scivola addosso, e pertanto decide di scolpirne egli stesso uno per mostrare all’amico quali dovevano essere le vere proporzioni del Cristo. Così nacque l’altro crocifisso, quello di Santa Maria Novella. Terminatolo, Filippo invita a pranzo Donato per mostrargli l’opera, e quando questi si trova davanti ad essa ne rimane talmente colpito da non riuscire più a mangiare. A quel punto il Bardi si rese conto che al Brunelleschi era concesso fare Cristi, mentre a lui contadini.
In effetti, analizzando comparativamente i due crocifissi si può notare la notevole differenza d’interpretazione del soggetto. Quello di Donatello è sgraziato, ha le gambe corte e storte, la testa enorme, il torace stretto, le masse muscolari si mostrano irregolarmente distribuite, il movimento del corpo è sbilanciato in avanti come se Gesù si volesse staccare dalla croce. Quello di Brunelleschi è esattamente il contrario: è aggraziato, ha le gambe lunghe e dritte, la testa perfettamente proporzionata, il torace è largo, le masse muscolari regolarmente distribuite, il movimento del corpo è perfettamente bilanciato come se Gesù, cosciente della sua missione divina, accettasse il sacrificio e volesse mantenere una dignità umana e divina anche nel momento del trapasso. E poi, cosa fondamentale, il crocifisso del Brunelleschi sta iscritto in un modulo spaziale perfettamente geometrico, quello di Donatello no. Lo spazio intorno non entra in conflitto con la statua, la quale, anzi, risulta essere una porzione di vuoto delimitata dalla superficie scultorea.
Contrariamente a quanto pensa il suo amico e collega Brunelleschi, per Donatello l’antichità è la prova inconfutabile che l’essenza della natura non è affatto la forma universale e immutabile dell’essere, ma è costituita dalle forze che plasmano la materia, singolare e mutevole; da ciò la rinuncia ad ottenere l’arte per mimesi. Questa considerazione si traduce sul piano formale nell’impossibilità di racchiudere l’infinita variabilità delle forme naturali in un esiguo numero di schemi geometrici, così come pure l’impossibilità di ridurre a misura matematica il complesso di relazioni che legano tra loro gli elementi costitutivi dell’immagine del mondo esterno. Questo vuol dire che l’essenza delle cose non si identifica con la regolarità e l’universalità della forma geometrica, ma con l’irregolarità della forma materiale. Per Donatello l’arte non consiste in un sistema di relazioni armoniche fra astratte misure geometriche, ma è l’equilibrio visivo che risulta al fine, allorquando l’esperienza costruttiva della forma reale della natura si ritiene conclusa.
Conseguenza immediata della concezionme artistica donatelliana è la diversa metodologia seguita per l’individuazione dell’arte. Contrariamente a quel che accade nel Brunelleschi, in Donatello il processo d’individuazione dell’arte non si deve svolgere al di fuori del contesto esecutivo dell’opera, ma al suo interno, contemporaneamente. Dunque la forma artistica non si determina in fase di progettazione, bensì in fase di esecuzione, ovvero man mano che col progredire dell’esperienza si approfondisce e chiarisce la forma. Per individuare i rapporti armonici che legano fra loro gli elementi strutturali della figurazione, al contrario del collega, non si serve delle formule matematiche come andavano facendo gli antichi classici, ma si affida alla cultura empirica come andavano facendo gli antichi anticlassici, e ad una cultura empirica più che una comprovata teoria si addice una straordinaria sensibilità.
Anche per Donatello l’arte è uno strumento fondato sull’autorevolezza degli Antichi, ma al Brunelleschi, per il quale gli antichi maestri sono i classici, Donatello ricorda che ci sono anche i maestri anticlassici, come i tanti anonimi artefici del periodo tardo romano. Ed è proprio per questo che con la massima disinvoltura egli può pensare all’arte come ad un mezzo aperto ad altre possibilità di rappresentazione dell’essere.
L’ESORDIO DEL RINASCIMENTO IN PITTURA
Firenze, Galleria degli Uffizi
Gentile Da Fabriano
ADORAZIONE DEI MAGI (1423) dalla chiesa di Santa Trinita a Firenze
Tempera su tavola, altezza mt. 1,73 – larghezza mt. 2,20
Berlino, Musei di stato
Masaccio
ADORAZIONE DEI MAGI (1426)
particolare della predella dello smembrato polittico di Pisa
Tempera su tavola, altezza cm. 20,8 – larghezza cm. 60,1
Nel primo quarto di secolo le opere rinascimentali si contano ancora sulla punta delle dita e i settori interessati sono esclusivamente l’architettura e la scultura. Il Brunelleschi ha già iniziato a costruire l’interno di San Lorenzo e il porticato dello “spedale degli innocenti”; Donatello sta lavorando per Santa Croce ed ha già all’attivo parecchi capolavori; Nanni di Banco ha terminato di decorare il timpano della Porta della mandorla; Jacopo della Quercia è andato a lavorare a Bologna e sta iniziando a metter su le formelle del portale maggiore della basilica di San Petronio; infine il Ghiberti ha ottenuto l’incarico per realizzare la porta nord del battistero. In pittura, nonostante il Gotico Internazionale arrivi solo nel 1422, ad opera di un frate camaldolese della cerchia dei miniatori del convento di Santa Maria degli Angeli, Lorenzo Monaco (1370-1425 c.), le commissioni vanno tutte ai maestri dello stile cortese, come Gentile da Fabriano (1370 c. – 1427), il suddetto Lorenzo Monaco e Pisanello (1390-1455 c.). Il motivo risiede nel fatto che nelle discipline pittoriche non è emerso ancora nessun innovatore. Ma nel 1425 accade qualcosa. All’orizzonte si profila con chiarezza il personaggio che porterà la rinascita anche nel campo della pittura. Questo personaggio è Masaccio.
Come sempre i cambiamenti radicali affascinano i giovani e più che all’arte degli antichi la fondazione del Rinascimento in pittura ad opera di Masaccio si deve alla rivoluzione del Brunelleschi e di Donatello. Masaccio parte da dove Brunelleschi ha lasciato, sviluppa in pittura l’intuizione avuta da Filippo nella formella del concorso del 1401; edifica le sue immagini pittoriche così come il Brunelleschi le sue chiese, le costruisce in prospettiva. Ma lui la prospettiva la “disegna” da pittore, cioè servendosi degli elementi costruttivi propri della pittura, ovvero luce e colore. La sua prospettiva non è fatta di linee ma di volumi che si definiscono attraverso le contrapposizioni tonali delle tinte. Le misure non sono leggibili attraverso i rapporti metrici fra un tratto e l’altro, ma sentite attraverso la concreta dislocazione dei corpi solidi, fatti di luci ed ombre.
Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, detto Masaccio, nasce a San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, nel 1401; muore a Roma nel 1428, alla giovanissima età di 27 anni. La leggenda dice di “veneno”, veleno, in realtà muore di malaria. È poco più che un adolescente quando, scomparso il padre, anch’esso in giovane età (a 26 anni), per aiutare la madre Jacopa, rimasta sola una seconda volta (dopo la morte del marito si era messa con uno speziale di 60 anni), decide di scendere a Firenze al seguito della famiglia e mettersi a fare il pittore. Nella capitale toscana, all’epoca una delle città più attive d’Europa, il suo spirito viene rapito dalle novità degli artisti rivoluzionari, e trovandosi presto a dover scegliere fra rivoluzione e riforma opta subito per la rivoluzione.
La sua prima opera conosciuta, la Maestà di Reggello, del 1422, sebbene ancora incerta fra Gotico e Rinascita, porta chiari i segni delle conquiste brunelleschiane: prospettiva e volume. Ma già nei lavori immediatamente successivi si vede molto bene che il giovane è maturato precocemente e ha fatto la sua scelta definitiva.
Nel Polittico di Pisa, eseguito tra il 1425 e il 1426, Masaccio sintetizza e sviluppa in pittura le intuizioni del Brunelleschi in fatto di spazio e di Donatello in fatto di figura umana. Per lui la forma geometrica non è solo la forma dello spazio architettonico e dell’essenza della figura umana, ma è la forma di tutto il Creato, così come la prospettiva è legge universale che riguarda sia l’opera dell’uomo che quella della natura. Tra spazio architettonico, figura umana e natura c’è un rapporto di tipo geometrico, ma questo non dipende dalla matematica, legge universale, naturale, ma dall’azione dell’uomo, e siccome i soggetti trattati si riferiscono a vicende storiche l’azione di cui si parla è azione storica. Dunque in ultima analisi lo spazio masaccesco è spazio storico che non contraddice lo spazio teorico, ma con esso si coordina facendosi elemento regolatore e metro dell’universo intero, e ciò naturalmente è in evidente contraddizione con quanto si andava affermando nel Gotico Internazionale.
Esaminando la predella che raffigura l’adorazione dei magi e mettendola a confronto con l’Adorazione dei Magi eseguita da Gentile da Fabriano per conto di Palla Strozzi (1372 c. – 1462), ricco e potente signore della Firenze del primo quarto di secolo, due tre anni prima, si può ben comprendere la profonda differenza fra le due concezioni, la gotica internazionale e la rinascimentale.
La vicenda è ben nota. Racconta della visita dei re magi al capezzale di Maria per portare doni al Figlio di Dio. Il soggetto non è casuale: si vuole associare l’idea del mercante con quella del donatore. È facile intuirne il motivo: in un contesto sociale dominato dai mercanti, come quello fiorentino dei primi secoli del Quattrocento, il modo migliore per ingraziarsi il favore divino è quello di destinare parte dei fondi che si hanno in dotazione alla promozione di opere sante.
Ad una prima occhiata si può osservare facilmente come l’adorazione di Gentile sia affollata di personaggi, mentre in quella di Masaccio ci sono solo poche persone. Naturalmente ciò è spiegabile col fatto che la prima ha dimensioni ben maggiori della seconda e quindi può materialmente ospitare più figure; ma non è questo il punto. Il punto è che Gentile lavora per Palla Strozzi, uno degli uomini più ricchi di Firenze, tipico rappresentante di quella borghesia cittadina che si da arie da gran signora e ostenta modi e abbigliamenti regali, mentre Masaccio lavora per l’altra borghesia, quella di campagna, quella austera, operosa e riservata. Gentile, in linea con lo spirito del suo committente, vuol presentare l’episodio come un avvenimento mondano, una rassegna di personaggi vestiti alla moda del tempo che si ritrovano a rendere pubblico omaggio al Redentore appena nato; Masaccio, al contrario, lo vuole presentare come il sentito e devoto omaggio da parte di due privati cittadini.
Per Gentile, pittore colto, la pala è una buona occasione per mettere in mostra tutto il meglio di sé. Così ecco emergere la sua raffinatezza tecnica nel modo di ottenere gli effetti di damascatura delle stoffe, ecco emergere la sua cultura enciclopedica dalla lunga serie di cose raffigurate: animali, piante, bardature e acconciature; così ecco emergere il suo acume e la sua maestria nel rendere le molte, diverse espressioni dei volti, gli stati d’animo di ogni singolo partecipante. Masaccio invece non fa sfoggio di tuttologia; l’unica cosa che sfoggia è un sicuro dominio dello spazio naturale e umano attraverso la prospettiva. Questa è di tipo brunelleschiano, centrale, ad unico punto di fuga. La determinano geometricamente le strutture della capanna, per il resto è sentita più che vista, attraverso la disposizione delle masse sul piano orizzontale costituito dal solido terreno dove i personaggi poggiano. È dunque una prospettiva fatta dalle cose naturali e dalle persone intervenute più che dalla struttura lineare intelligibile (leggasi anche disegno) che si nasconde dietro le opere dell’uomo e della natura.
Nella pala di Gentile il lungo corteo avanza lentamente nella metà inferiore così come lentamente si allontana in quella superiore; tutto è rallentato, tutto segue una traiettoria curva, di largo respiro. Esso è costituito da una serie ininterrotta di episodi slegati tra loro; le distanze più che misurate dalla prospettiva sono percepite attraverso l’ampio snodarsi del corteo; gli uomini non si pesano in virtù della propria umanità, bensì in virtù della propria appartenenza ad una classe superiore i cui segni d’elezione sono da individuare negli abiti indossati e nelle cose possedute. I vestimenti fanno da scudo al corpo, cosicché la struttura anatomica ne rimane oscurata; al contrario la descrizione degli oggetti è quanto più minuziosa e varia possibile. Alla linea è affidata l’intera impalcatura dell’immagine; questa si presenta continua e flessuosa. La luce è diffusa e tenue, e i colori, dalle gamme rare, risultano delicatamente ombreggiati. Il mondo qui è visto come un susseguirsi ininterrotto di particolari ed eventi infiniti. È il mondo dei fratelli di Limborg e del Maestro delle Ore di Rohan, è il mondo dei miniaturisti gotici.
Nella predella di Masaccio non c’è movimento, non c’è progressivo allontanamento dal primo piano al piano di fondo, ma la realtà è fissa, immobile, e si da tutta in una volta, come in un blocco. I piani sono due: quello anteriore, formato dal “muro” costituito dai personaggi, e quello posteriore, formato dalle rocce nude. Al centro del dipinto l’apertura di una gola indica il punto di fuga della composizione: è questo il primo “quadro” della storia, intendendo per quadro il piano verticale che forma la base della piramide visiva prospettica. Il corteo è ridotto ai pochi protagonisti principali della vicenda: in primo piano, a destra, fra gli accompagnatori dei magi figurano anche due personaggi (probabilmente i committenti) ammantati di un austero lucco nero, l’abito tradizionale portato dall’alta borghesia funzionaria della repubblica fiorentina; diverso è anche il modo di interpretare il tempo storico: in Gentile c’è progressione dal passato al presente, mentre in Masaccio c’è solo il presente.
Ma cosa ci fanno due personaggi del Quattrocento in un avvenimento svoltosi 1.400 anni prima?
Masaccio vuol far rivivere il mondo antico, romano e cristiano, non già come dimensione poetica, ma come dimensione storica che si attualizza, e lo vuol far rivivere riportandolo al cospetto del presente. Il passato non è più là, nelle radici del linguaggio della tradizione, ma qui, ora, nella coscienza dell’uomo che lo pensa, e l’arte è sempre proiezione del pensiero.
FANTASIA GOTICA E IMMAGINAZIONE VEROSIMILE RINASCIMENTALE
Gentile è un raffinato tessitore di arazzi, Masaccio un solido costruttore di quadri; per il primo l’arte è fantasia, per il secondo immaginazione verosimile. In tutta la loro lunga storia la stragrande maggioranza delle immagini artistiche ritraggono situazioni e vicende a cui nessun artefice ha mai assistito di persona, pertanto ne risulta che non sono riprese dal vero, ma frutto dell’immaginazione. Sembrerebbe far eccezione a questa regola lo stile cortese, dal momento che prende come soggetto la realtà mondana e contingente, però la tratta come se fosse una dimensione magica e non ordinaria quale effettivamente è. Lo stile rinascimentale non fa eccezione, prende come soggetto la realtà passata e quindi rientra perfettamente nella regola, tuttavia la esibisce come se fosse una realtà contingente, operante. L’una e l’altra corrente quindi è interessata in ugual misura tanto agli aspetti naturali della rappresentazione quanto a quelli per cui si richiede l’intervento dell’immaginazione. Questo significa che in ogni caso uno dei problemi che si para di fronte all’artista è quello dell’interpretazione della natura.
Con il Gotico Internazionale si va diffondendo una rinnovata sensibilità verso il mondo della natura i cui effetti danno origine ad uno spiccato sperimentalismo naturalistico. Questo empirismo di fondo benché convogliato in un percorso di ricerca dell’essenza naturale non serve però a determinare un nuovo linguaggio, bensì a rendere più naturale l’immagine artistica in tutto e per tutto ancora gotica. Le relazioni che legano fra loro gli elementi linguistici non sono razionalmente controllabili, sono i ritmi con i quali ogni figura si accorda in fluida armonia naturale con le altre. Il risultato estetico è quello di un’immagine artistica che sublima in una dimensione aurea, al limite del fiabesco.
Gentile, ad esempio, usa l’arte come mezzo d’indagine, ma il suo scopo non è quello di conoscere meglio storia e natura, bensì quello di aggiornare il volgare figurativo con nuovi elementi desunti dall’osservazione diretta delle cose naturali: ciò a dimostrazione che il naturalismo tardo-gotico è da considerarsi come una ulteriore tappa di quel processo stilistico senza fine che è alla base di tutta la concezione medievale dell’arte. Per questa via il Gotico Internazionale finisce per stemperare il mordente delle rappresentazioni dei grandi maestri trecenteschi nella languida evasione delle immagini “cortesi”.
Contro tale modo di pensare reagisce la visione masaccesca. A differenza di quanto avviene nel Gotico Internazionale, e qui sta la novità, in Masaccio l’immaginazione non è un mezzo di trascendenza della realtà o d’evasione. Al contrario, si pone di fronte all’immaginato con lo stesso spirito di uno scienziato o di uno storico, e cioè con l’intento di dar vita ad una ricostruzione verosimile, che renda conto alla ragione umana, da un lato, delle relazioni che si stabiliscono fra gli elementi strutturali intelligibili dell’immagine e, dall’altro, dei moventi e degli epiloghi delle situazioni ricostruite. L’Arte dunque non è più, come nello stile cortese, e l’artista toscano ce ne rende edotti, una presenza sfuggente, indefinibile, limite a cui tendere ricorrendo alla propria raffinata sensibilità, come la intende Gentile, ma presenza percettibile, misura razionale, proporzione quantizzabile, punto di approdo di un procedimento fondato sul controllo della ragione. Però, più di un bisogno di chiarezza scientifica, è la necessità di reimpiantare solidamente nel presente le oblianti immagini del passato a far capire al giovanissimo Masaccio che la nuova strada da intraprendere è la stessa intrapresa dal Brunelleschi per “murare” lo spazio antico nel presente, proiettare in un’unica prospettiva le interpretazioni di natura e storia per avvicinare, e non per allontanare, il passato. Quindi, anche se espresse in campi diversi del fare artistico, il modo di sentire la storia nei due è esattamente lo stesso: lo spazio antico è uno spazio metafisico che si salda allo spazio fisico mediante il “quadro” prospettico. Questo significa che per Masaccio, come per il Brunelleschi, è la dimensione storica a protendersi verso il presente e l’avvicinamento è reso possibile dallo scorrimento del passato sui razzi visuali, astratti, della prospettiva geometrica.
Il motivo religioso di questo cambiamento risiede nel fatto che ora il Dio cristiano, Signore dell’Universo, ha voluto che all’uomo e solo a lui fosse data la facoltà di contemplare la verità divina, e questa si esprime in chiare forme razionali attraverso la forma della natura, di cui l’essere umano ne rappresenta l’elemento più importante e sulle cui dimensioni tutto il resto si proporziona, quindi in una ferrea logica temporale, costituita dalle vicende storiche, cosicché l’arte torna ad una visione umanistica e antropocentrica.
L’opera di Masaccio, accanto a quella del Brunelleschi, esprime il concetto di un’arte pensata come strumento di determinazione univoca, al di là della figuratività naturale, dell’aspetto ideale delle eterne strutture dell’essere, fondato sull’autorevolezza degli Antichi. L’immagine pittorica di Masaccio, più che l’immagine di una natura nuova è l’immagine di un vuoto metafisico in cui stazionano masse geometriche dall’aspetto naturale.
Egli non si limita a correggere l’interpretazione fiabesca della storia operata dagli autori gotici internazionali, come fa il Ghiberti, sente invece che quella cultura di corte non è assolutamente più rappresentativa della nuova situazione storica in cui lui stesso si trova ad operare e di cui si sente parte. Per cui si oppone apertamente alla proposta gentiliana di un passato visto come dimensione evanescente, e propone la sua versione di storia, come passato presente, vivo e ancora in corso.
CAPISALDI DEL PENSIERO MASACCESCO
I capisaldi del pensiero masaccesco sono contenuti nelle sue immagini, le quali ancor più che ispirate dall’osservazione delle possenti macerie del passato, discendono direttamente dalla conoscenza delle opere di artisti contemporanei come il Brunelleschi e Donatello, ma hanno lo spessore morale e la struttura formale dell’idealismo antico romano. L’antichità per Masaccio si identifica, come per il Brunelleschi, col Classicismo, e il Classicismo, per lui pittore, si identifica con la cultura greco-romana, dove la storia è azione morale, risoluta e circostanziata, e la natura forma intelligibile, plasticamente definita, complesso di corpi collocati nello spazio in modo chiaro, logico. L’arte per Masaccio è costruzione etica, misura concreta, creata dai gesti delle figure, figure consapevoli delle ragioni del loro agire; queste ragioni sono pienamente espresse dalla geometria dello spazio. Egli proietta razionalmente, rivestendola di sembianze cromatiche, l’apparenza teorica della struttura intelligibile dell’essere, quale risulta dall’equilibrio tra lettura delle esperienze contemporanee e cultura antica.
Come pittore sente che la verità storica non può che trasmettersi attraverso il colore: dunque la sostanza opportunamente illuminata rivela l’essenza intelligibile. Questa luce “opportuna”, non è la luce prima descrittiva e poi trasmutante dei maestri tardo gotici, ma è luce teorica, metafisica, come metafisico è lo spazio in cui produce i suoi effetti cromatici, ben precisi e stabili; è chiaroscuro cromatico, luce concettuale per mettere bene in evidenza l’anima geometrica conferita alla natura dall’autorevolezza delle antiche interpretazioni. In sostanza in Masaccio è il concetto a priori, avvallato dalla cultura classica, a decidere la distribuzione del colore nell’immagine pittorica.
Per lui come per Giotto, a cui l’innovatore toscano esplicitamente si richiama, la pittura è proiezione di cultura storica, e come quella del suo maestro spirituale si va ad innucleare nel sostrato della cultura bizantina così la sua si va ad innucleare nel sostrato della cultura quattrocentesca, in tutti e due i casi generando mutazioni decisive per la storia dell’arte.
Brunelleschi, Donatello, Masaccio, tre artisti innegabilmente diversi da tutti gli altri dell’inizio del Quattrocento. Se non avessero avuto il successo che hanno avuto probabilmente non saremmo qui a parlarne né avremmo riservato loro tutto lo spazio che hanno ricevuto. La loro fortuna ha una spiegazione razionale e storica: sono i primi a dar forma nei loro manufatti agli ideali non di un individuo in particolare o di una casta privilegiata, bensì di un’intera classe sociale, la borghesia, che a Firenze è arrivata ai vertici del potere politico. Infatti, ancor prima di essere l’opera di nuovi artisti, i lavori dei tre rivoluzionari è il prodotto di uomini nuovi, concordi nel pensare che a proteggere il genere umano dalle incertezze del destino non c’è che l’uomo stesso, carico di quelle virtù che gli hanno consentito di progredire nella storia e che sono le stesse che gli permettono di dominare con tanta abilità la materia, e cioè la sapienza, l’intelligenza, la perizia nel lavoro, ovvero quelle stesse virtù che erano negli uomini antichi e che ora, dopo il buio Medioevo, si vogliono rivitalizzare per riprendere con successo il cammino verso la conquista del contingente in vista della salvezza eterna (idee, queste, che ben si addicono alla borghesia dell’epoca). I tre artisti rivoluzionari non si limitano a manifestare il gusto particolare di una scarsa minoranza sociale, la nobiltà, ma concorrono alla formazione dell’ideologia di una parte rilevante della società quattrocentesca. Ciò avviene per una causa ben precisa.
Nelle comunità cittadine del XV secolo forte è la differenza fra le classi sociali. Da una parte c’è la vecchia nobiltà e la nuova, costituita dalla borghesia banchiera, imprenditoriale e mercantile, la società raffigurata da Gentile, dall’altra c’è la borghesia che ricopre ruoli di responsabilità pubblica, attestata su livelli economici medio-alti, e questa è la società raffigurata da Masaccio. Rimane il popolo minuto, povero e analfabeta, privo del suo cantore.
Quella borghese del Quattrocento è una classe proiettata alla conquista del mondo, conquista fondata sul dominio della natura e dell’uomo, dunque è molto importante per lei conoscere la realtà piuttosto che trascenderla. Il nuovo borghese rinascimentale è un uomo consapevole delle proprie responsabilità nei confronti del mondo ed è anche un uomo consapevole del ruolo fondamentale della conoscenza. Infatti sa perfettamente che non può esservi dominio senza la conoscenza oggettiva della natura che gli permette il controllo dell’ambiente in cui vive e opera, né senza la conoscenza oggettiva della storia, che dà conto dei moventi e delle conseguenze dell’agire umano. L’arte che dà conto in ugual misura dell’una e dell’altra risulta essere dunque al centro, non al margine, della cultura della nuova classe dominante. Ciò spiega come mai dei rivoluzionari come Brunelleschi, Donatello e Masaccio incontrano il favore della comunità e trovano un seguito così numeroso da cambiare il corso della storia dell’arte.
Questi ideali trovano la loro prima espressione compiuta nei lavori dei tre rivoluzionari, sono i principali nodi strutturali del nuovo pensiero artistico rinascimentale nato dalle loro opere.
IL PENSIERO ARTISTICO RINASCIMENTALE: IL NUOVO VALORE DELLA STORIA E DELLA NATURA
Come è stato già detto il termine “rinascimento” sta per rinascita dell’arte antica. Ma abbiamo visto che questo concetto si presta a numerose interpretazioni le quali tuttavia hanno dei nodi strutturali comuni. Questi nodi strutturali comuni vertono principalmente sul nuovo significato della natura e della storia tratto dalle principali differenze fra pensiero artistico rinascimentale e pensiero artistico medievale.
Con Masaccio la rinascita dell’arte antica si è ormai configurata in tutte e tre le arti maggiori: architettura, pittura e scultura. Benché non siano mai stati scritti, analizzando le opere degli autori rivoluzionari è possibile rilevare quali sono i nodi strutturali basilari di quello che può essere definito il pensiero artistico rinascimentale. Primo fra tutti è che nel Rinascimento l’immagine artistica cessa di essere un’immagine iconica per divenire un’immagine rappresentativa della realtà naturale. Ciò significa esattamente che l’immagine artistica non ha più un legame di tipo associativo con la realtà, ma ne acquisisce uno di tipo proiettivo. Non è la prima volta che la natura viene considerata fonte di bellezza, è già accaduto nel mondo antico, e gli Antichi a quella fonte ci si sono avvicinati più di ogni altro, dimostrando una tale maestria nella tecnica dell’imitazione che da allora non è stata più superata. Ora bisogna riprendere l’opera da loro iniziata per portarla avanti alla luce delle nuove certezze rivelate, sposare la forma classica al contenuto cristiano, riprendere il procedimento classico, approfondirlo ed estenderlo all’intero Creato.
Con la loro opera Brunelleschi, Donatello e Masaccio concorrono fortemente a fondare una nuova coscienza dell’importanza non solo della natura, ma anche, e soprattutto, della storia, sia per quanto riguarda la sfera conoscitiva che per quanto riguarda la sfera morale.
Si spiega così la ripresa del procedimento classico della mimesi: ovvero ricercare la forma artistica equivale a ricercare la forma ideale della natura nella sua essenza universale che è al di là di ogni accidentale contingenza. Ma questa ricerca riprende con uno spirito del tutto nuovo, una rinnovata fiducia ispirata dalla rivelazione cristiana, sconosciuta agli artisti dell’antichità classica.
Per gli Antichi l’uomo convogliava su di sé, nella sua forma fisica, tutto il meglio della natura, e in lui si compendiavano anche tutte le possibili combinazioni armoniche fra le singole parti e il tutto. Nell’ideologia cristiana questa armonia è estesa all’intero regno naturale; ogni elemento, ogni essere, e non solo l’uomo, sebbene mantenga sempre un ruolo di primaria importanza, è parte del tutto, parte legata alla totalità da rapporti di armonia misurabili razionalmente. Non solo Dio ha pensato a dare al mondo una struttura “ecologica”, ma fra gli elementi che costituiscono questa struttura ha stabilito un rapporto che la rende anche molto suggestiva, fonte di contemplazione.
Al solo scopo mnemonico va ricordato che in questo procedimento si elaborano per prima cosa le sensazioni visive in complesso di concetti che fissano l’essenza delle cose, cioè si trasformano le percezioni in “dati ripuliti” dai particolari trascurabili e semplificati fin dove è possibile arrivare, quindi si deriva dalle coppie di termini estremi opposti il termine medio ideale.
Altro punto nodale del pensiero rinascimentale è l’antropocentrismo. La natura possiede una sua forma autonoma, la quale discende dalle forme archetipe create da Dio. La mente dell’uomo, che è una emanazione della mente divina, oltre ad essere in grado di ricostruire fedelmente la forma reale della natura, ovvero di cogliere gli aspetti universali e ricostruirli in immagini ben precise sul piano e nello spazio, è in grado, altresì, di ricostruire le forme archetipe plasmate direttamente dalla mano di Dio.
Tra la forma concettuale della natura che è al di là di ogni accidentale apparenza e l’immagine artistica c’è una perfetta corrispondenza biunivoca: il che significa che l’idea che l’uomo si fa delle cose è la copia esatta delle cose stesse.
Questo tipo di pensiero per cui ogni cosa è rapportata alla mente umana, cioè che vede l’uomo al centro dell’universo, viene indicato con il termine di antropocentrismo.
Anche in questo caso non è la prima volta che nel corso della storia l’uomo prende coscienza del fatto che il mondo esterno è proiezione del suo mondo interiore, e che lui, piaccia a Dio, è il centro dell’Universo. Un’analoga coscienza era sempre negli uomini del mondo antico, stando perlomeno alle testimonianze che ci hanno lasciato.
LE VICENDE DELLA VITA DI GESÙ CRISTO QUALE MODELLO ETICO IDEALE DELLE GESTA DEGLI EROI MODERNI
Terzo punto: le vicende della vita di Gesù Cristo vengono prese come modello etico ideale delle gesta degli eroi moderni
Nel suo insieme il Creato è costituito da cose animate e inanimate. Le cose animate non hanno solo un corpo ma anche un’energia sorgiva che permette loro di muoversi e vivere un’esistenza propria nel corso della quale intrecciano relazioni col mondo esterno. Nell’uomo queste relazioni sono pilotate da precise volontà e non, come negli altri esseri, da istinti naturali primordiali. L’evoluzione delle relazioni umane non è la conseguenza dunque dell’evoluzione naturale, ma segue un processo in divenire diverso, cioè i rapporti interspecifici costituiscono quel complesso di vicende a cui si da il nome di storia.
Ora l’agire volontario dell’uomo nel mondo fa sorgere spontanea una domanda: se la natura ha il suo modello nelle forme archetipe, cosa farà da modello alle vicende umane per essere considerate eroiche? La risposta è molto semplice: la vita di Gesù Cristo, ovvero le vicende narrate dai Vangeli, in primo luogo, la vita dei santi, eroi cristiani, in secondo.
Come ultimo punto sorge spontanea un’altra domanda: perché nozioni e metodi finalizzati alla comprensione del mondo si chiedono all’arte e non, come parrebbe logico, alla scienza?
«Bisogna tener presente che, in questo periodo, la scienza evolve più lentamente, è inceppata da pregiudizi dottrinali: le prime scoperte scientifiche del Quattrocento avvengono difatti attraverso l’arte e sarà un artista ad aprire, alla fine del secolo, il corso di una scienza autonoma come, in altro campo, è autonoma l’arte: Leonardo.» (Argan cfr. Storia dell’Arte Italiana vol. 2).
SPIRITUALITÀ PAGANA E SPIRTUALITÀ CRISTIANA, OVVERO RAPPORTO CON IL MEDIOEVO
Come è stato detto in più di un’occasione il Rinascimento nega il Medioevo quale ponte fra passato e presente. In realtà uno dei principali problemi che vede impegnati gli artisti sia del Quattrocento che del Cinquecento è quello del rapporto fra spiritualità pagana e spiritualità cristiana. Il problema consiste nel fatto che il soggetto principale dell’arte durante il periodo rinascimentale è, come lo è stato del resto per tutto il Medioevo, il mondo divino, spirituale, nel suo duplice aspetto di natura e storia. Ma il mondo divino, spirituale, si è fatto fisico nell’istante in cui con Gesù, la Madonna e i santi è entrato nella storia, dunque ha assunto un aspetto naturale ed ha agito in questo mondo, pertanto è raffigurabile e narrabile. Gesù Cristo, figlio di Dio, ha avuto un’esistenza terrena in cui ha vissuto da uomo in mezzo agli altri uomini. Non solo: la storia di Gesù Cristo, la storia che ha dato origine al cristianesimo, si innesta direttamente su quella romana, questo significa che fra mondo pagano e mondo cristiano non v’è frattura, ma continuità. Di qui la necessità di trovare un punto d’incontro nella rappresentazione dei due mondi.
Ma la storia di Cristo è una storia drammatica, mentre il mondo pagano è il mondo del perfetto equilibrio fra uomo, natura e divinità. La spiritualità cristiana è ben diversa da quella classica: l’una mette Dio al centro dell’universo, l’altra l’essere umano. Come si possono conciliare in un’unica rappresentazione le due visioni? In quale dose debbono entrare l’una e l’altra senza che ciò turbi l’armonia del tutto?
In sostanza si può dire che uno dei problemi principali per gli artisti del Rinascimento consiste nel trovare un linguaggio pagano per un contenuto cristiano. Spiritualità cristiana e spiritualità pagana sono due diversi modi di sentirsi in rapporto con la natura e con Dio e trovano il loro naturale modo di manifestarsi in due espressioni diverse. Nella prima la natura è un limite di cui si soffre, da cui ci si vuole distaccare per raggiungere Dio; nella seconda la natura non è un limite, è l’ambiente dell’esistenza umana, nonché di quella divina, principio e fine, unico mondo possibile, per questo gli si vuole dare ordine razionale, per conoscerlo e viverci in armonia. Entrambe tendono a manifestarsi esteticamente in modi che tendono ad andare oltre il fisico, ma mentre per la cultura pagana il metafisico è l’ideale, per la cultura cristiana il metafisico è il trascendente.
Diversi sono anche i modi di tradurre i due processi in vocaboli visivi. Il primo si traduce nella tendenza alla condensazione plastica e all’assenza di pathos, la seconda nella tendenza all’effusione cromatica e all’eccesso di pathos; l’uno è caratterizzato dalla propensione della figura a distinguersi nettamente dalla luce e dallo spazio, l’altro è caratterizzato dall’attitudine della figura a fondersi con la luce e lo spazio; l’uno tende alla definizione dell’essenza, l’altro tende a destrutturare la forma naturale negli effetti prodotti dal colore-luce.
I termini del problema sono dunque configurare stilisticamente il rapporto fra razionalità e misticismo, fra naturalismo ed espressionismo, fra scientismo laico e trascendentalismo religioso, fra conoscenza della natura e trascendenza della natura, fra scienza e fede. Le soluzioni saranno diverse da artista ad artista. C’è chi cercherà una sintesi fra mimesi e stilizzazione, chi fra rappresentazione epica e rappresentazione lirica. I modi saranno i più svariati: c’è chi cercherà di animare le statue classiche con un po’ di passione cristiana, chi cercherà di dare calore alla freddezza classica, trovare un equilibrio fra materia informe e forma plastica, utilizzando la luce come comun denominatore, trasformando magari le tinte in toni, e così via discorrendo.
SIGNIFICATO DEL TERMINE RINASCIMENTO
Dopo aver visto come nasce e quali sono i caratteri generali del Rinascimento, vediamo ora cosa significa questo termine e quando è nato. Il termine rinascimento appare per la prima volta intorno alla metà dell’Ottocento in un famoso saggio di Jacob Burkhardt (1818-1897) intitolato La cultura del Rinascimento in Italia. Il Vasari, noto manierista, l’architetto degli Uffizi, nonché l’autore delle vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, che fu uno dei primi intellettuali dell’epoca a parlare in termini storico critici dell’arte del proprio tempo, usa per definire il periodo di cui egli stesso fa parte il vocabolo rinascita. In effetti Rinascimento sta per Rinascita: rinascita dell’arte antica.
Le più illustri menti di quest’epoca guardano al passato come ad un periodo mitico, dove l’uomo aveva raggiunto la perfezione. Questa perfezione durante il Medioevo, la “media tempesta”, come viene definito dagli umanisti, si era perduta a causa dell’avvento di “Goti e Longobardi” e della “rozzezza bizantina”. Ora con gli artisti rinascimentali si è tornati ad esprimersi ai più alti livelli, ben degni del passato classico.
SUDDIVISIONE CRONOLOGICA DELL’EPOCA RINASCIMENTALE
In termini cronologici generalmente si usa suddividere la storia dell’arte rinascimentale in tre periodi: umanistico, dagli inizi del Quattrocento fin oltre la seconda metà del secolo; rinascimentale propriamente detto, dall’ultimo decennio del Quattrocento fino al primo ventennio del Cinquecento; manieristico, dalla fine del primo ventennio del XVI secolo fin quasi al suo termine.
A questa suddivisione, che ricalca in parte quella letteraria, sarebbe preferibile quella che suddivide il periodo in primo Rinascimento, dal concorso del 1401 alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492); medio Rinascimento, dall’arrivo del Bramante (1444-1514) in Vaticano al sacco di Roma nel 1527; tardo rinascimento dal sacco di Roma alla decorazione della Galleria Farnese, nel 1596.
In termini storico politici il periodo si suddivide in una prima fase dove la storia dell’arte rinascimentale coincide, in Italia, con la trasformazione dei comuni in signorie, e di queste in principati, mentre nei paesi europei continentali coincide con la formazione delle monarchie nazionali. La seconda fase vive il periodo delle conquiste straniere, della riforma protestante e della controriforma cattolica, per concludersi con il ritorno della Chiesa al vecchio splendore.
LE ALTRE OPERE DI FILIPPO BRUNELLESCHI
Firenze, basilica di San Lorenzo
Filippo Brunelleschi
LA SAGRESTIA VECCHIA (1419/1428)
Firenze, spedale degli Innocenti, Firenze
Filippo Brunelleschi
LOGGIATO (iniziato nel 1419)
Tornando di nuovo alla storia dell’arte cerchiamo di approfondire la conoscenza dei tre artisti rivoluzionari e del loro contesto, riprendendo il discorso dal Brunelleschi.
Con la costruzione della sagrestia vecchia il Brunelleschi ha la possibilità di sperimentare la sua concezione in un organismo a pianta centrale. Per completare l’opera ci impiega circa dieci anni: i lavori possono ritenersi conclusi nel 1428.
Nello “spedale degli innocenti”, completato due anni prima della morte, il Brunelleschi si misura con l’ambiente urbano. Concepisce la piazza come lo spazio interno di un edificio in cui il cielo fa da tetto. Le pareti di questo “edificio” sono costituite da fabbricati porticati che ne delimitano il perimetro; uno di questi è l’ospedale degli innocenti, cioè l’ospedale dove sono accolti i bambini malati e abbandonati. Le pareti esterne degli stabili porticati non sono più dei muri che chiudono, isolano gli spazi interni da quello esterno della piazza, li mettono invece in rapporto, il dentro comunica con il fuori. Di questo spazio interno quello esterno della piazza prende subito la struttura passando dall’irrazionale al razionale, dallo spazio di natura a quello umano, in tal modo il piano del porticato diventa il diaframma su cui si disegna e si misura il vuoto urbano. La soluzione non è assolutamente un’invenzione di Filippo (esempi di porticati a Firenze ce n’erano fin troppi), ciò che invece costituisce una novità assoluta è la funzione costruttiva svolta dal porticato brunelleschiano nella definizione della piazza che a contatto con esso passa subito dallo stato di indeterminatezza a quello di struttura geometrica.
LA CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE
Firenze, cattedrale di Santa Maria del Fiore
Filippo Brunelleschi
CUPOLA (1418/1436)
Nel 1418 la repubblica fiorentina bandisce il concorso per l’innalzamento della cupola di Santa Maria del Fiore. Alla presentazione dei progetti si ritrovano nuovamente di fronte il Brunelleschi col Ghiberti. Le prime ipotesi costruttive di massima vengono tutte rispedite ai singoli concorrenti per le opportune specifiche tecniche, quindi nel 1420 si passa all’approvazione in via definitiva del progetto mondato da ogni empirismo. Questa volta il concorso lo vince Brunelleschi, che dal 1423 diviene l’unico responsabile del cantiere.
L’impresa che si appresta ad affrontare Filippo al di là della proclamazione della sua vittoria è assai impegnativa per almeno tre ordini di problemi. Il primo è che si tratta del cantiere più importante della città. La chiesa di Santa Maria del Fiore era stata costruita più di un secolo prima, in luogo della vecchia chiesa di Santa Reparata, niente di meno che da Arnolfo di Cambio, artista amato e venerato a Firenze quanto Giotto. Ma egli non era arrivato a concluderla con l’innalzamento della cupola come da progetto. A tal proposito si sa della cupola prevista per il duomo di Firenze da un affresco del Buonaiuti (1319-1377), eseguito nel 1365, che si trova nel cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella.
Di fronte a sé Filippo ha da scegliere fra due strade: o portare a termine il progetto del suo illustre predecessore, ignorando il secolo di distanza che separa se stesso da Arnolfo, o andare dietro alla propria visione, più aderente alla realtà storico culturale dell’epoca. Dalla decisione di adottare l’una o l’altra soluzione dipende l’oblio o la gloria. Filippo opta per la seconda, ed è la gloria.
Ancor più arduo si presenta il problema tecnico.
Già la cupola arnolfiana presentava difficoltà di messa in opera a causa della scomparsa durante il corso del XIV secolo delle maestranze in grado di compiere una tale impresa. Ora, con quella progettata dal Brunelleschi, si è davvero alla crisi assoluta. L’unica soluzione è che l’architetto s’inventi la soluzione.
Scartata quella del ricorso all’uso di mega cèntine, l’unica strada da percorrere, sebbene avventuristica, rimane quella di inventarsi una struttura autoportante. Sembrava impossibile, ma Filippo ci riesce. Risolve il problema con il semplice incastro dei mattoni: geniale!
È tutto merito suo? Filippo non ebbe mai difficoltà ad ammettere che la soluzione la tirò fuori dal modo di murare degli antichi costruttori romani; naturalmente non è proprio così: i Romani non conoscevano i costoloni. In realtà egli la ricava dallo studio dei sistemi costruttivi gotici. Comunque sia fu un’impresa colossale. Tre dati possono fornire un’idea più precisa della eccezionalità del lavoro. La cupola è alta 105 metri e mezzo ed ha un diametro di quasi 52 metri; pesa 25.000 tonnellate, non molto meno del transatlantico Andrea Doria (che ne pesava 33.000).
Terzo ed ultimo problema: la cupola è il centro della città, irradia con la sua geometria l’ordine universale all’intera urbe, quindi alla natura circostante. Questa centralità ha anche un significato ideologico: rappresenta il fulcro dell’intera comunità urbana e il centro ordinatore dell’intero paesaggio circostante.
STRUTTURA DELLA CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE
La cupola brunelleschiana ha forma ogivale, dunque gotica, non rinascimentale, eppure è considerata come l’opera più rappresentativa del padre del Rinascimento. Questa apparente contraddizione si spiega con due motivi che possono essere citati a giustificazione della scelta formale adottata dal Brunelleschi. Il primo è che predilige questa forma per motivi estetici legati al rapporto col precedente edificio gotico; l’altro è per motivi statici, legati alla soluzione della doppia calotta elaborata appositamente per non gravare troppo la struttura del suo stesso peso.
Viene comunque fatto salvo il carattere nettamente rinascimentale della sua concezione, poiché è pensata come un volume definito razionalmente in conformazione e rapporto con lo spazio naturale. La sua spazialità condensata, compatta e definita rappresenta l’esatto contrario della spazialità gotica, espansa, evanescente e frammentata: il duomo di Firenze è l’antiduomo di Milano.
Firenze, palazzo Pitti
Filippo Brunelleschi (progettista)
FACCIATA (1458/1466)
L’innalzamento della cupola proietta il Brunelleschi ai vertici del successo; tutte le più importanti famiglie fiorentine se lo contendono, come quella dei Pitti, ad esempio.
Il palazzo Pitti è commissionato da Luca Pitti (1398–1472) a ser Filippo nel 1440. Luca lo vuole con le finestre grandi quanto il portone del palazzo mediceo di via Larga.
Tra i Pitti e i Medici non corre affatto buon sangue, tanto che Luca, ad appena due anni dalla morte di Cosimo, con la complicità del loro consigliere, Diotisalvi Neroni (1401-1482 circa), ordisce l’assassinio di Piero il gottoso (1416-1469). L’attentato fallisce e i Medici ne escono rafforzati. I Pitti cadono in disgrazia e i lavori si fermano. È il 1470; Brunelleschi è morto da 24 anni. Il palazzo è un rustico blocco bugnato. Nel 1549 lo acquista Eleonora di Toledo (1522-1562), moglie di Cosimo I, per trasferircisi con i sette figli e il marito da palazzo Vecchio, divenuto poco adatto per viverci una vita famigliare confortevole. I nuovi proprietari prima lo completano e poi lo ampliano. L’incarico di redigere il progetto e dirigerne i lavori viene affidato a Bartolomeo Ammannati (1511-1592), ma con lui è tutta un’altra storia.
IMPORTANZA DEL BRUNELLESCHI PER TUTTA L’ARTE RINASCIMENTALE E NON SOLO PER L’ARCHITETTURA
L’influenza del Brunelleschi sulle generazioni future è immensa. La sua straordinaria importanza consiste nel fatto di essere il primo artista ad esprimere lo spirito che pervade la nuova epoca, quella rinascimentale. Filippo non è più il magister medievale che si pone al vertice di una gerarchia di maestranze, operanti in modo autonomo, ognuna secondo le proprie conoscenze professionali; con lui l’edificio non è più l’espressione della collettività dei lavoratori, al contrario, è l’ideatore dell’opera a cui gli operai, tutti, di ogni ordine e grado, dovranno lavorare per realizzarla; è il capo, il condottiero di un armata munita di secchio e cazzuola, che invece di distruggere costruisce. Benché si sia espresso pressoché unicamente in un campo specifico, quello architettonico, dove per esteriorizzare la propria interpretazione dell’essenza della natura ci si avvale di uomini in carne ed ossa, il Brunelleschi può essere considerato comunque, per via del valore universale del suo assunto (lo spazio è elemento linguistico comune a tutte le discipline artistiche), il primo artista rinascimentale della storia. La prospettiva brunelleschiana è un mezzo d’individuazione oggettivo che va bene non solo per il vuoto reale dell’architettura, ma anche per quello simulato dei bassorilievi e della pittura. L’importanza della scoperta brunelleschiana travalica quindi i confini della disciplina specifica e consacra il Brunelleschi quale padre spirituale dello spazio umanistico. I punti fondamentali tracciati dalla sua opera sono: la disciplina architettonica è orientata alla ricostruzione razionale dell’ambiente; l’immagine dello spazio è ottenuta per via sintetica e deduttiva senza tener conto della tradizione, ma rifacendosi direttamente alle fonti latine classiche; più precisamente dipende dal pensiero di una spazialità costruita sulla base delle conoscenze acquisite attraverso lo studio delle opere architettoniche dell’antichità romana. E l’antichità romana per il Brunelleschi si identifica con la razionalità geometrica e le proporzioni auree che contraddistinguono parte della produzione artistica dell’epoca, improntata al Classicismo di origine greca: in sostanza per lui l’antico si identifica col Classicismo romano; l’arte per il Brunelleschi è una costruzione razionale a priori, fondata su principi teorici astratti desunti dalla cultura storica. Tutti principi questi che avranno importanti sviluppi nel corso del prosieguo dei secoli a venire.
Siena, battistero
Jacopo Della Quercia
ANNUNCIO A ZACCARIA (1428/1430)
Bronzo dorato, altezza cm. 60 – larghezza cm. 60
Esiste una terza via all’umanesimo ed è quella tracciata dal senese Jacopo della Quercia.
Jacopo della Quercia è uno dei bocciati al concorso del 1401. La sua formella è andata perduta, quindi non si potrà mai sapere che tipo di proposta aveva avanzato. Comunque non è per le opere del periodo fiorentino e senese che Jacopo si pone alla testa della terza via quanto per gli ultimi lavori relativi al portale della cattedrale di Bologna, la basilica di San Petronio.
Premessa alle formelle del duomo della capitale emiliana è quella forgiata per la fonte battesimale del battistero di Pisa. È questa un‘altra opera dove hanno modo di ritrovarsi e confrontarsi gli artisti più avanzati del periodo: insieme a lui infatti figurano Donatello e Ghiberti. Dunque più che nelle formelle di Bologna è dal rapporto/confronto di queste tre formelle per il battistero che si può comprendere bene il carattere della terza via al Rinascimento di Jacopo della Quercia.
Nel portale di San Petronio, Jacopo matura la sua riflessione sul rapporto fra espressione della spiritualità cristiana e struttura formale del linguaggio espressivo, vale a dire sulla dialettica tendente a conciliare il dirompere dei sentimenti con un contenitore spaziale classico. La risposta di Jacopo a questa problematica è rinunciare alla prospettiva come sfondo dell’azione umana e risolvere sul piano della chiarezza formale e della grandezza eroica il conflitto fra ragione e sentimento.