IL NUOVO LINGUAGGIO MEDIEVALE: IL VOLGARE FIGURATIVO
ORIGINE DEL TERMINE
ARTE ROMANICA COME ARTE DEI COMUNI MEDIEVALI
ARCHITETTURA ROMANICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: MILANO
ARCHITETTURA ROMANICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: MODENA
LANFRANCO: L’ARCHITETTO DEL DUOMO DI MODENA
DESCRIZIONE DEL DUOMO DI MODENA
ARCHITETTURA DELL’ITALIA CENTRALE: LA CATTEDRALE DI PISA
MILANO, MODENA, PISA: FONDAMENTA DELL’ARTE ROMANICA
BASI IDEOLOGICHE DEL PENSIERO ARTISTICO ROMANICO: IL PRIMATO DELLA TECNICA
RELAZIONE FRA IDEOLOGIA BORGHESE E IDEOLOGIA CRISTIANA NELL’ARTE ROMANICA
RAPPORTO UOMO-DIO-NATURA NELL’ARTE ROMANICA
NATURA DELL’ARTE ROMANICA
DIFFERENZA FRA ICONISMO BIZANTINO E ICONISMO ROMANICO
LA NUOVA CONCEZIONE DELL’ARTE NELL’EPOCA ROMANICA
RUOLO SOCIALE DELL’ARTE E NUOVI VALORI NELL’EPOCA ROMANICA
CONFIGURAZIONE ESPRESSIVA DEL LAVORO NELL’ARTE ROMANICA
UMANIZZAZIONE NEL LINGUAGGIO DEI BORGHI
CONTINUITÀ DELL’ARTE ROMANICA
PROGRESSIVITÀ DEL LINGUAGGIO ROMANICO
IL ROMANICO IN PIANURA PADANA DOPO MILANO E MODENA
SCULTURA ROMANICA
WILIGELMO
LA SCULTURA ROMANICA DURANTE E DOPO WILIGELMO
LA SCULTURA ROMANICA A PISA
IL NUOVO LINGUAGGIO MEDIEVALE: IL VOLGARE FIGURATIVO
Milano, Sant’Ambrogio
VEDUTA AEREA DELLA BASILICA (XI/XII sec.)
Nel periodo romanico si pongono le basi del nuovo linguaggio occidentale. Il linguaggio occidentale moderno, ovvero il nostro linguaggio, muove i suoi primi passi all’alba del secondo millennio, nelle regioni dell’Europa nord-occidentale. Questo linguaggio viene comunemente indicato con il termine di volgare figurativo.
Con il termine volgare figurativo gli storici dell’arte intendono riferirsi all’arte che si è sviluppata nelle comunità cittadine europee sorte in seguito all’istituzione del feudalesimo per opera di Carlo Magno (800-814). Questo linguaggio è andato definendosi durante un lungo processo di trasformazione stilistica svoltosi in oltre sei secoli di storia, in cui i modi creativi della nuova società borghese si sono gradualmente sostituiti alle strutture espressive del linguaggio bizantino. Le tappe fondamentali di tale cammino vengono indicate dagli addetti ai lavori con i termini di Preromanico, Romanico e Gotico. Ognuna di queste tappe corrisponde alle fasi di formazione, sviluppo e maturazione del nuovo idioma occidentale, il quale, essendosi prevalentemente evoluto all’interno dei borghi, costituisce la prima manifestazione del linguaggio espressivo borghese.
Il termine Romanico con il quale si designa il periodo compreso tra i secoli XI e XII, intervallo in cui nasce il nuovo linguaggio dei borghi, viene coniato da due studiosi francesi dell’Ottocento, tali De Gerville (1769-1853) e De Gaumont, i quali intendevano istituire un parallelismo fra il linguaggio figurativo e quello letterario dell’epoca. Ma, sebbene entrambi i linguaggi hanno radici nella grande tradizione romana, le lingue romanze riguardano solo i territori unificati dell’impero romano e non già tutti i territori europei, come avviene invece nel caso dell’arte romanica, per cui esso risulta alquanto improprio se applicato in campo figurativo.
ARTE ROMANICA COME ARTE DEI COMUNI MEDIEVALI
L’arte romanica è l’arte dei comuni medievali; è arte voluta dal popolo per il popolo.
Dalla notte dei tempi l’arte pubblica è espressione del potere; l’arte romanica non fa eccezione. Solo che stavolta al potere c’è il popolo. In rare occasioni nel corso dei millenni il popolo ha fatto parte della committenza pubblica. Nel periodo romanico questo è avvenuto.
Dire arte romanica e arte del periodo romanico non è assolutamente la stessa cosa. Infatti l’arte del periodo romanico non è tutta romanica. Nel variegatissimo panorama socio-politico dei primi secoli del secondo millennio non è sempre il popolo a svolgere il ruolo di committente. Anzi, questa condizione è un’eccezione in un mondo ancora abbondantemente dominato da re e imperatori, nobiltà e clero. Solo in alcune contrade si afferma l’arte comunale romanica.
ARCHITETTURA ROMANICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: MILANO
Milano, Sant’Ambrogio
FACCIATA, INTERNO, PIANTA E SEZIONE TRASVERSALE DELLA BASILICA (XI/XII sec.)
Sant’Ambrogio non è la prima grande opera realizzata in nome e per volontà della committenza cittadina. Infatti il volto dell’attuale chiesa lo si deve al vescovo Anselmo IV (1097-1101) che, fra il 1088 e il 1099, fa ristrutturare la vecchia basilica, fondata fra il 379 e il 386 da sant’Ambrogio (340-397), vescovo di Milano, sul luogo di sepoltura di alcuni martiri cristiani. Questo nulla toglie alla straordinaria importanza che riveste la costruzione in ambito storico artistico.
Sant’Ambrogio è la prima grande opera in cui si manifesta il nuovo indirizzo comunale (a rigor del vero i primi cenni del nuovo linguaggio compaiono precocemente solo nella zona presbitero-absidale della chiesa, costruita dai monaci fra l’824 e l’859); il resto è contemporaneo a Pisa. Nonostante ciò è l’indiscusso modello ispiratore di un ingente quantità di chiese, grandi e piccole, che in questo periodo iniziano a spuntare come funghi dopo un giorno caldo-umido d’ottobre.
La sua storia s’inserisce nel clima instauratosi allorché passato l’anno mille c’è un frenetico risveglio dell’attività costruttiva, quasi febbrile, un vero e proprio boom edilizio; si costruisce dappertutto, nei borghi come in campagna. In ogni comune, in ogni località dove si sia rimesso in moto un circuito di relazioni socio-economiche e spirituali, c’è qualche nuova chiesa da costruire o qualche vecchia chiesa da ingrandire.
L’avrà voluto il caso, ma la basilica romanica più imitata della storia nasce dalla mente di un architetto che si è trovato, per primo, a doversi misurare con una costruzione preesistente impostata su una tipologia basilicale paleocristiana. Il problema che il grandissimo, sconosciuto, architetto di Sant’Ambrogio ha dovuto affrontare è stato quello di trasformare uno spazio concepito in maniera pittorica in uno spazio concepito in maniera plastica, in ottemperanza alla nuova sensibilità romanica. La soluzione escogitata, da quel che si vede, è consistita nella trasformazione delle navate, contrassegnate dal susseguirsi ininterrotto di arcatelle e colonnine, in campate, le quali conferiscono all’intero impianto un carattere molto più severo e nello stesso tempo ricco di chiaroscuro, effetto che aumenta notevolmente il senso, e non solo il senso, dello spazio concreto, del vuoto reale. E tutto ciò senza toccare minimamente la pianta: la pianta della nuova basilica, infatti, ricalca fedelmente quella della basilica paleocristiana preesistente.
L’intera costruzione si suddivide in due corpi di estensione quasi pari: il quadriportico e la basilica vera e propria. Quadriportico e corpo basilicale ripetono la stessa identica struttura che costituiva l’ossatura spaziale delle basiliche primitive, e cioè: un cortile scoperto, circondato da quattro portici, il primo; un’aula divisa in tre navate, chiusa sull’ultimo lato da tre absidi affiancate, allineate con le navate, il secondo. Il quadriportico ha origine dall’atrio delle domus romane, che a loro volta riprendevano modelli greci, che a loro volta ancora derivavano dai megaron minoici. In particolare, in Sant’Ambrogio, il quarto portico assume l’aspetto di un antifacciata, riprendendo il tema bizantino dell’ardica, in cui al nartece si sovrappone un loggiato. Ma fin qui nulla di nuovo. La novità più importante sta, come già accennato, nel fatto che sia i portici che le navate sono suddivisi ulteriormente in una serie di campate.
Si definisce campata lo spazio determinato da quattro pilastri e una volta a crociera. Ogni crociera è generata dall’incrocio, di solito ad angolo retto, di due volte a botte. Una volta a botte è generata dalla traslazione di un arco lungo l’asse longitudinale, perpendicolare al suo diametro. L’intersezione delle botti delineano due arcate semiellittiche, le quali s’intersecano in un punto al centro della volta, denominato chiave di volta. A queste due arcate disposte a 45° rispetto alle direzioni principali della chiesa fanno da coronamento altre quattro arcate, ortogonali a due a due tra di loro. Questa particolare disposizione fa in modo che in una crociera vengono a determinarsi sei archi, di cui quattro a tutto sesto e due semiellittici. Il proseguimento naturale della crociera nell’elemento verticale di sostegno da origine ad un pilastro che, per la sua tipica forma a croce, prende il nome di pilastro cruciforme. La navata centrale, larga il doppio di quelle laterali, è costituita da quattro campate, mentre le navate laterali sono suddivise in otto campatelle ciascuna. Ogni campata maggiore contiene quattro campate minori, secondo il rapporto di 1:4, per cui il totale delle campate è 20 (se si escludono le ultime due che affiancano il presbiterio, il diaconico e la sagrestia). Ventidue sono inoltre le campatelle del quadriportico. La quarta campata centrale non si chiude come tutte le altre, con la crociera, ma fa da imposta al tiburio, l’antenato della cupola rinascimentale. Si tratta di un prisma a base esagonale o ottagonale (come nel caso dell’edificio in questione), coperto da un tetto a forma di piramide molto schiacciata. L’innesto del tiburio, a sezione ottagonale, sulla campata, a sezione quadrangolare, comporta il problema del raccordo dei quattro lati obliqui con la muratura perimetrale di sostegno. La soluzione trovata in Sant’Ambrogio è stata quella di inventare quattro elementi architettonici speciali, dalla forma particolare, che ricorda, almeno così si dice, un pennacchio, da cui il nome di pennacchi sferici.
In corrispondenza della navata centrale, dopo l’ultima campata, sopraelevato rispetto al pavimento del corpo basilicale, si situa il presbiterio. Questo spazio insiste sulla cripta, cuore sotterraneo di ogni chiesa, grande o piccola che sia. In essa riposano le spoglie di sant’Ambrogio insieme a quelle di Gervasio e Protasio (III sec.), due martiri cristiani. Sopra le navate laterali è posta una galleria che si affaccia sulla navata centrale attraverso delle aperture ad arco, allineate secondo una successione che ricalca la scansione spaziale delle campatelle laterali. Questa galleria è il matroneo: elemento di origine bizantina, riservato alle donne, che seguivano le funzioni sacre separate dagli uomini.
L’intera basilica sta tutta sotto lo stesso tetto. Tale singolare copertura, detta a capanna o a capannone, si ispira a quella delle case rurali caratteristiche della zona padana, i cosiddetti “casoni”, che sembrano esprimere la volontà delle genti padane di rimanere con i piedi ben radicati a terra, invece che cedere alle tentazioni del cielo.
Nell’VIII e nel IX secolo i monaci benedettini innalzarono la torre campanaria di destra, che da loro prese il nome (infatti ancora oggi è conosciuta col nome di torre dei monaci), quindi misero mano alla zona dell’abside; il resto è storia che non fa più storia dell’arte.
Milano, San Pietro ad Agliate
VEDUTA DEL COMPLESSO DA SUD-EST (IX/X sec.)
Milano, San Vincenzo a Galliano
VEDUTA DELLA DECORAZIONE ABSIDALE (1007)
Sant’Ambrogio ha dei precedenti. Intorno alla metà del IX secolo, in epoca carolingia, a Milano si dà avvio ad alcune costruzioni in cui si ravvisano i primi segnali di un cambiamento stilistico. In San Vincenzo in Prato (IX-XI sec.), le absidi laterali, all’esterno, presentano la superficie suddivisa da lesene coronate da archetti pensili, mentre l’abside centrale è scavata da nicchie. Nella chiesa di San Pietro ad Agliate e in quella di San Vincenzo a Galliano la cripta sottostante all’altare è parzialmente sollevata, dunque visibile dall’ingresso, di conseguenza il presbiterio si alza e si rende necessario collegarlo al piano della chiesa con delle scale.
Ai lati di entrambe le basiliche si trovano i rispettivi battisteri. Quello di San Pietro ricorda fortemente quello degli Ariani, ma è di questo più massiccio e tozzo. Diverso e nell’insieme più interessante è il battistero di San Vincenzo, dello stesso periodo della basilica. La sua pianta presenta quattro absidi che conferiscono all’alzato un andamento mosso. Sopra di loro, all’interno, corre un matroneo; al centro si erge una cupola ottagonale impostata su delle trombe angolari, nascosta all’esterno da un tiburio. Il modello ispiratore qui sono senza dubbio gli edifici termali romani, ma è pure vero che siamo ormai in una nuova epoca, l’epoca romanica.
ARCHITETTURA ROMANICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE: MODENA
Modena, San Gemignano
Lanfranco
ESTERNO (9 Giugno 1099/12 Luglio 1184)
Per capire in tutta la sua pienezza il significato di arte romanica come arte degli uomini liberi non basta fermarsi a Milano e dintorni, occorre recarsi anche e soprattutto a Modena e a Pisa. I duomi di queste due città sono le prime grandi chiese romaniche ad essere erette in nome e per volontà della cittadinanza. Iniziamo da Modena.
Il duomo di Modena, dedicato a san Gemignano, non è una semplice chiesa ma è un monumento attraverso cui la popolazione intende testimoniare la propria presenza attiva nel governo dei beni collettivi, la sua forza d’azione civile. Dopo 1.500 anni di committenza aristocratica, la gestione degli incarichi pubblici torna nelle mani della cittadinanza. Nel nuovo duomo per la prima volta i valori espressi sono quelli degli uomini comuni, i lavoratori, e non quelli degli sfruttatori, ed è anche la prima volta che in un monumento al posto dei nomi dei papi e degli imperatori compare il nome dei cives populares e quelli degli artefici. Sono loro, i rappresentanti di operai, artigiani, commercianti e preti riuniti in consiglio a decidere progetto, materiali, maestranze, costi.
LANFRANCO: L’ARCHITETTO DEL DUOMO DI MODENA
Il consiglio comunale affida al maestro Lanfranco la costruzione del nuovo duomo, mentre il ciclo decorativo al maestro Wiligelmo.
Del magnificentissimo maestro Lanfranco si sa poco e niente; non si sa chi esso sia, di dove venga, quando sia nato, quando è morto. Si sa solo che viene considerato dai contemporanei un artefice ingegnoso e un direttore dei lavori preparato e competente. Un architetto davvero importante se gli tocca l’onore nel 1106, di scoprire insieme al vescovo di Reggio Monsignore, l’urna contenente le reliquie di san Gemignano. A lui, come a Buscheto, a Pisa, i cittadini gli dedicano una epigrafe sul muro esterno dell’abside del duomo. La levatura artistica di questo fantomatico architetto sta nella sua nuova concezione di spazio architettonico come sviluppo in senso plastico geometrico della spazialità architettonica propria della civiltà romanica, fatta di dosaggi di forze controllate dalla sapienza tecnica.
DESCRIZIONE DEL DUOMO DI MODENA
I lavori per la costruzione del duomo di Modena hanno inizio il 23 maggio 1099; l’altare del santo è consacrato l’8 ottobre del 1106. Il luogo prescelto è lo stesso dove sorge l’antica cattedrale; questa viene demolita man mano che si tira su la nuova. Si comincia dall’abside, per passare poi alla facciata e completare con la copertura del corpo centrale. La nuova cattedrale viene innalzata a tempo di record: 18 anni; dal 1099 al 1117 (per quella di Pisa sono occorsi 54 anni, dal 1064 al 1118). A documentare l’impresa in una miniatura di un codice del XIII secolo viene rappresentato l’avvio dei lavori per ordine di Lanfranco, avvenuto il 9 giugno dell’anno 1099. L’architetto indossa una tunica rossa con un mantello portato alla maniera romana, cioè poggiato sulla spalla, avvolto intorno alla vita e adagiato su un braccio: segno evidente del prestigio sociale goduto dal maestro edificatore.
La cattedrale di Lanfranco si leva, come tutte le chiese, su un punto fondamentale, la cripta, dove sono custodite le reliquie di san Gemignano. Questa, similmente a quanto avviene nelle altre basiliche dello stesso periodo, non si interra, ma si erge sul pavimento, proiettando verso l’alto coro e abside, che risultano così issati su una specie di pontile.
La pianta sembra preludere ad una riedizione di Sant’Ambrogio senza il quadriportico. Lo spazio interno è suddiviso in tre navate. Anche qui, la navata centrale è suddivisa in quattro campate, così come quelle laterali in otto ciascuna, di modo che una campata centrale contiene esattamente quattro campate laterali. Le campate, però, contrariamente a quanto avviene in Sant’Ambrogio, sono leggermente più profonde che larghe. Il presbiterio si estende quanto una campata centrale. Il corpo basilicale termina con tre absidi affiancate, di cui quella centrale grande il doppio di quelle laterali. All’esterno la facciata riflette la struttura architettonica interna; scopo: infondere la stessa metrica spaziale alla piazza antistante. È un’idea di cui si comprende facilmente la ragione ispiratrice: in Sant’Ambrogio la struttura del corpo basilicale continua nel quadriportico, qui, in San Gemignano, il quadriportico non c’è, non ce n’è bisogno, al suo posto c’è la piazza che svolge la stessa funzione.
La facciata è suddivisa in tre settori verticali, di cui quello centrale esteso il doppio rispetto a quelli laterali. Le partiture laterali sono suddivise, a loro volta, in due sottopartiture archivoltate da semicolonnine addossate alla parete. La fascia centrale è separata da quelle laterali mediante due contrafforti. Ogni fascia corrisponde ad una navata: quella centrale alla navata centrale, mentre le due laterali alle navatelle laterali. La copertura si articola in un triplo tetto: a doppio spiovente sulla navata centrale, ad una sola falda sulle navatelle laterali.
Per alleggerire il peso visivo della struttura all’esterno, ma anche il peso reale, Lanfranco inventa un loggiato triforato che cinge tutta la chiesa, a cui corrisponde il finto matroneo interno; quindi crea il protiro a edicola che sviluppa il protiro paleocristiano. Il nuovo elemento è diviso in due ordini: una botte sottostante, sorretta da due colonnine poggianti su altrettante basi costituite da leoni stilofori; una elegante loggia nella parte di sopra, coperta con una botte a sesto ribassato.
All’interno la chiesa di Lanfranco sarebbe dovuta apparire come una costruzione solenne ed equilibrata, dalla linea asciutta e dal carattere monumentale. L’altezza era circa due volte e mezzo la larghezza; le campate centrali erano e sono tuttora scandite da poderose semicolonne che, stando al progetto originale, avrebbero dovuto equilibrare il peso delle altrettanto poderose capriate, e che invece, dal XV secolo in poi, sono state messe a rilanciare in alto il peso delle volte a crociera. Le arcate divisorie delle navate sono sorrette da robustissime colonne di tipo classico, con capitello che richiama quello corinzio; le pareti sono scarne e la pietra è lasciata a vista. Per alleggerire il peso della struttura Lanfranco apre sulle navate laterali un finto matroneo, semplice espediente tecnico per rinsaldare la struttura senza dover sacrificare ulteriore spazio. La galleria priva di pavimento si affaccia sulla navata centrale, con due arcate triforate.
Se il progetto di Lanfranco fosse giunto inalterato fino ai nostri giorni avremmo potuto facilmente osservare che, rispetto al modello ambrosiano, il duomo di Modena avrebbe manifestato una diversa concezione dello spazio architettonico. Infatti questo era visto dal suo artefice non già come organizzazione tridimensionale di forze, ma di forme, non già come espressione del vigore tecnico ma del rigore geometrico. Per lui le radici del nuovo linguaggio dei borghi sono nella cultura classica. Dunque le arcate a sesto acuto, aggiunte dopo, che si susseguono trasversalmente nella navata centrale, che si elevano fin quasi a toccare la crociera e che provocano nell’osservatore la sensazione di uno slancio delle strutture verso l’alto, a cercare nella chiave di volta il loro naturale conchiudersi, risultano essere la chiara manifestazione della reinterpretazione in senso lombardo della concezione spaziale di Lanfranco, nonché la dimostrazione concreta di quanto poco contasse, sebbene eccelsa, la visione personale del singolo artista.
ARCHITETTURA DELL’ITALIA CENTRALE: LA CATTEDRALE DI PISA
Pisa, Santa Maria Maggiore
Buscheto
ESTERNO (Iniziata nel 1063 – Consacrata nel 1118 – ampliata nel 1158)
La cattedrale di Pisa, dedicata a Santa Maria Maggiore, è stata iniziata da Buscheto, al quale subentra, quando la costruzione manca solo più della facciata, Rainaldo, autore anche dell’ampliamento del corpo basilicale centrale.
La cattedrale fa parte di un complesso monumentale costituito da altri tre monumenti: la torre campanaria (la famosa torre pendente), il battistero e il camposanto. Tutte e quattro le costruzioni sorgono in un’ampia area verdeggiante, denominata Campo dei miracoli, delimitata a sud ovest da una solida cinta muraria. Con il termine “miracoli” non si sa ancora bene se si voleva alludere a dei miracoli che proprio qui si sarebbero compiuti, o se, invece, si vuole alludere ai quattro monumenti, definiti dalla storiografia artistica dei veri e propri gioielli.
Il problema che Buscheto si trova ad affrontare, a causa della committenza pisana che vuole a tutti i costi una basilica dall’impianto tradizionale, è quello di dover conciliare una struttura satura di colonne con l’obiettivo di concretizzare l’idea dell’equilibrio fra spazio fisico e materia. La soluzione da lui architettata si rende palese all’interno della basilica. Nell’alzato, infatti, si nota la presenza di un doppio ordine, costituito da un colonnato di tipo classico, in basso, e un matroneo, in alto. L’apparato portante è formato da colonne forgiate alla maniera romana, a fusto liscio, in granito grigio orientale, poggianti su una base di tipo asiatica, con capitello composito. I sostegni danno imposta a numerosi archi, fitti e stretti, alla maniera delle basiliche bizantine, ma le arcature non servono più a fornire campo alle pareti per accogliere i mosaici, bensì a sostenere il matroneo, che si affaccia sulla navata centrale tramite una serie di bifore archivoltate a tutto sesto che creano un vuoto reale, concreto. Nella pianta, il richiamo ai tipi basilicali paleocristiani diventa esplicito, reso ancor più evidente dall’inserimento di un possente transetto che le conferisce l’inconfondibile forma a croce latina immissa.
Neppure Rainaldo rinuncia ad interpretare l’edificio sacro in senso moderno. La facciata, come quella del duomo di Modena, è articolata in tre distinti elementi di copertura: uno formato da un tetto a doppio spiovente, gli altri due da un tetto a spiovente unico. Il prospetto frontale è alleggerito da ben quattro loggiati sovrapposti che si affacciano all’esterno con una serie fitta di arcatelle; alla base le arcate si fanno più rade e cieche, alla maniera lombarda. Questo motivo decorativo riprende l’ornamento architettonico che corre lungo tutto il perimetro della chiesa, fino a concludersi nel loggiato che alleggerisce l’abside nella zona superiore.
Le partiture della facciata riflettono la suddivisione interna in navate. Alle due arcate cieche laterali corrispondono le quattro navate laterali complessive, mentre alle tre centrali corrisponde la navata centrale, leggermente più grande di due navate laterali sommate assieme. Questa proporzione si ritrova in pianta, sia nel corpo centrale che nel transetto, dove però il numero delle navatelle laterali si riduce ad una per lato. La navata centrale è coperta con un soffitto a cassettoni, aggiunto in epoca successiva, mentre quelle laterali sono coperte con una serie continua di crociere, senza alcuna interruzione tra una campatella e l’altra. Le absidi sono disposte secondo un modello che farà scuola: quella maggiore alla fine della navata maggiore e quelle minori sui lati brevi della navata maggiore del transetto. L’abside centrale stazza più del doppio delle due absidiole laterali, mentre il presbiterio impegna solo la parte centrale della zona absidale.
L’arcone trionfale, aggiunto in epoca gotica, ha la forma ogivale che riprende e amplifica quella dell’abside maggiore. Al centro dell’intersezione del corpo basilicale col transetto sorge la cupola ellittica, anch’essa opera del periodo Gotico.
Per quanto riguarda l’effetto percettivo, spariti mosaici ed affreschi, il movimento della luce all’interno della basilica è affidato, secondo un modello importato dall’Oriente, alla decorazione a strisce orizzontali più chiare e più scure, ottenute con l’alternarsi del materiale usato per l’edificazione delle strutture interne: marmo di Carrara, bianco, e pietra serena, grigioverde.
MILANO, MODENA, PISA: FONDAMENTA DELL’ARTE ROMANICA
Milano, Modena, Pisa, tre cattedrali completamente diverse tra loro che hanno in comune il fatto di aver dato inizio ad una nuova era storico-artistica.
Nel periodo romanico l’arte non è un’idea, non è un qualcosa di teorico, è qualcosa di realissimo: sono i monumenti, le opere d’arte, i resti lasciati dai Romani, i dipinti bizantini; in altri termini è la storia dell’arte. Su questo sostrato culturale l’artefice romanico apporta il suo contributo inventando nuove forme. Caratteristica del nuovo lessico è la sua immediatezza comunicativa. Sue componenti basilari sono: i vocaboli provenienti dalla cultura figurativa bizantina delle province, il nuovo modo di affrontare le tematiche tradizionali della cultura barbarica, la concezione unitaria della componente spazio-temporale, propria della cultura latina. A livello stilistico il linguaggio figurativo romanico consiste, sostanzialmente, nell’introduzione nell’immagine ieratica bizantina di alcuni fra gli elementi più tipici della tradizione romana, quali il senso percettivo naturale delle cose e dello spazio, il movimento drammatico e la logica narrativa.
Le basi ideologiche del nuovo lessico visivo compaiono all’orizzonte della storia a partire già dal VI secolo, da quando cioè iniziano a circolare in Occidente nuovi fermenti spirituali provenienti dall’Oriente cristiano, gli stessi fermenti che inducono nel 529 san Benedetto (480-547) a fondare l’abbazia di Montecassino.
BASI IDEOLOGICHE DEL PENSIERO ARTISTICO ROMANICO: IL PRIMATO DELLA TECNICA
Il Dio cristiano è un Dio che si esprime attraverso il lavoro; opera sua è il Creato, l’Universo, il mondo. La poetica romanica muove da quel sistema d’idee, tipicamente borghese, che vede nel lavoro il mezzo più efficace per difendersi dalle avversità del destino e raggiungere la salvezza eterna.
Il lavoro, quindi la tecnica è nata per risolvere problemi pratici. Creare realtà concrete richiede mezzi e tecniche diverse da quelle occorrenti per creare effetti illusori. Presso i Bizantini la tecnica artistica è considerata una sorta di pratica ascetica in cui risulta di estrema importanza la scelta delle materie prime, le quali devono possedere già in sé le qualità adatte per creare l’illusione dell’immaterialità: questo spiega come mai nell’arte bizantina si ricorra spesso all’oro. Infatti questo metallo a differenza di tutti gli altri sembra avere la capacità di trasformarsi in luce. Per i Bizantini l’opera è tanto più meritoria quanto più preziosa è la materia con la quale si esprime il senso di evanescenza del mondo spirituale. La pratica bizantina è una pratica raffinata, fondata sulla sensibilità e sull’abilità del maestro mosaicista nel governo degli effetti cromatici. Il lavoro è importante sì ma solo come strumento al servizio della teoria: nell’opera finita non deve lasciar traccia di sé. Nell’arte bizantina l’opera è tanto più preziosa quanto più la tecnica si dimostra in grado di dissimulare la materia, sublimare la corporeità fisica in luce colorata. Nell’arte romanica è considerata tanto più valida quanto più con il lavoro si riesce ad aver ragione dell’inerzia degli elementi strutturali, sublimarli in movimento, chiaroscuro, spazio. In architettura ciò equivale a togliere dalle strutture le masse inermi, per lasciar la materia solo laddove corrono le linee di forza generatesi dall’azione dinamica delle spinte e controspinte; in scultura equivale a modulare le superfici delle masse in modo tale da impegnare la luce nella creazione di effetti di mobilità chiaroscurale, non solo in senso decorativo ma anche narrativo e drammatico; in pittura equivale a smorzare le vibrazioni tonali del colore, per concentrare nella linea l’espressione del movimento, delle tensioni e della partecipazione drammatica.
Nell’architettura bizantina annullare l’incombenza visiva di una parete non comporta nessuna variazione tecnica sostanziale (tanto ci pensa poi il mosaico ad alleggerirne otticamente la struttura). E anche fare un mosaico non cambia dal punto di vista tecnico se si copre una superficie piccola o una grande. Nell’architettura degli abitanti dei borghi, invece, avere grandi spazi da coprire impiegando il minimo di materia indispensabile è un problema che comporta una soluzione tecnica ben diversa da quella richiesta dalla copertura di uno spazio più esiguo. Per entrambi il fine è lo stesso, vincere l’inerzia della materia, ma i Bizantini raggiungono l’obiettivo con la dissimulazione, gli artigiani borghesi con l’invenzione tecnica; la dissimulazione comporta sempre la stessa tecnica, l’invenzione ovviamente no.
Per le maestranze romaniche la tecnica artistica non è solo un processo estetico ma etico, non è solo un modo per rappresentare il sacro, manifestare il divino nel mondo, ma è anche un modo per riscattarsi dalla sudditanza della natura e offrire la propria anima a Dio.
C’è in questa nuova concezione che identifica l’arte con la tecnica un’innegabile affinità con la concezione romana. Ma per i Romani la tecnica era un modo per manifestare la solidità, la saldezza dell’impero; per gli artisti dei borghi è un modo per riscattarsi dal peso della condizione terrena.
Le conseguenze di una tale impostazione sono che ora nel lavoro artistico l’artefice ci mette qualcosa di suo, di personale, perché la salvezza non si conquista più con la contemplazione delle icone ma con il lavoro creativo.
La cosa ha una spiegazione anche di ordine socio-economico: l’artefice bizantino lavorava per una corte di nobili, non aveva problemi di rivalità; l’artigiano dell’epoca romanica lavora per sé e se vuol riuscire deve essere competitivo sul mercato e battere la concorrenza.
RELAZIONE FRA IDEOLOGIA BORGHESE E IDEOLOGIA CRISTIANA NELL’ARTE ROMANICA
Stante la realtà ideologica del nuovo contesto socio-culturale, la Chiesa provvede a rivedere le sue posizioni canoniche e ammette, ora, che non è più cosa indebita cercare la ricchezza nella vita terrena, a costo però che la si acquisisca col lavoro. Le ragioni del ravvedimento sono chiare: se è pur vero che Dio pone tutto il meglio in un altro mondo, non bisogna tuttavia stare in questo a braccia conserte; ci si deve dar da fare per renderlo più vivibile, cercare di andare oltre la semplice provvidenza, e accumulare beni sulla Terra non costituisce più un ostacolo per salvarsi l’anima. Al contrario, spendere parte dell’esistenza per migliorare le proprie condizioni terrene e quelle dei propri simili è l’offerta migliore che si possa fare a Dio. Anzi, il lavoro non solo rappresenta una garanzia contro il costante spettro del ritorno alla barbarie (problema sempre presente nel Medioevo), ma è anche uno dei modi più sicuri per avere aperte le porte della vita eterna: e questo è un pensiero che può ben condividere l’industrioso artigiano dei borghi medievali. Di qui il nuovo e più prestigioso ruolo sociale dell’arte medievale rispetto all’arte bizantina: non più esclusivamente comunicazione di un mondo migliore, fatto per accogliere solo eletti, ma anche chiave per varcarne la soglia da parte di tutti i lavoratori.
RAPPORTO UOMO-DIO-NATURA NELL’ARTE ROMANICA
Per un cristiano tutto quel che esiste sulla Terra è opera di Dio. Ma senza il lavoro dell’uomo quest’opera non si trasforma in qualcosa di vantaggioso per lui e per i suoi simili, cioè non si trasforma in valore. In altri termini Dio ha fornito la materia prima, l’uomo con il suo lavoro la trasforma in oggetto.
Tutti nel borgo lavorano, dal più umile produttore di beni di consumo al più insigne produttore di beni di fruizione. C’è chi si preoccupa di sapere come si fanno le cose e c’è chi, invece, si preoccupa di sapere come sono fatte; c’è il tecnico e lo scienziato. Ma per il momento le due figure non sono ancora ben distinte e separate. Comunque, nella storia della civiltà borghese, il progresso sarà determinato dall’accoppiamento vincente fra cultura dell’essere e cultura del fare, scienza e tecnica.
Il lavoro artistico, nella sua qualità di lavoro creativo, è considerato il più alto di tutti, in quanto il più simile all’opera creatrice divina. L’operare artistico è sentito come il proseguimento dell’operare creativo di Dio, il quale ha lasciato che le cose fossero perfezionabili dall’uomo. Quindi la natura non è in sé compiuta, ma è suscettibile di trasformazione, e, al contrario del pensiero naturalistico, l’arte non è un modello esterno all’uomo, un qualcosa da contemplare, ma è un modello che l’uomo trae da sé stesso, dalla sua esperienza acquisita sul campo, lavorando nei cantieri e imparando il mestiere dai “magister”, un qualcosa che l’artefice infonde alla materia inerte: l’arte deve ripetere l’atto della creazione non imitare il suo prodotto. Essendo la materia priva di una sua volontà, spetta all’uomo col suo intervento a farla tendere alla perfezione formale. L’immagine della natura creata da Dio è si bella, ma è l’opera dell’uomo che la trasforma in immagine artistica, in arte.
I modelli a cui ispirarsi l’uomo dei borghi medievali li trae dal suo stesso ingegno, che è la capacità di migliorare i risultati ottenuti dai propri predecessori. Dunque, per il pensiero romanico, l’arte non ha un modello archetipo da svelare, autonomo rispetto all’operatore; è materia preesistente a cui l’artista aggiunge qualcosa in più, come ad esempio una maggiore gentilezza alle forme, un più complesso effetto chiaroscurale, un più raffinato accostamento cromatico, un più intenso movimento drammatico.
Il Medioevo è un periodo scarsamente teorizzante. Per tutta la sua storia l’arte romanica è concepita come un patrimonio di forme iconiche e tecniche da acquisire, una vera e propria lingua figurata in cui le parole non sono oggetto d’indagine ma sono segni astratti da utilizzare per esprimere dei contenuti dottrinali o narrativi. Questo patrimonio è costituito da tutte quelle immagini concrete sulle quali l’artista-artigiano si è formato e verso cui, una volta autonomo, dovrà apportare il suo personale contributo di cultura tecnica per creare qualcosa di nuovo e progredito. Scultura e pittura in particolare sono considerate alla stessa stregua del linguaggio verbale: le figure sono paragonabili alle frasi, lo spazio alle pause fra una frase e l’altra, l’intera opera ad un discorso. Come nella lingua parlata fra la singola immagine (la frase) e la cosa a cui rimanda non c’è alcun legame proiettivo e l’espressività sta nei toni, negli accenti, negli stacchi fra una proposizione e l’altra, nei ritmi della pronuncia stessa, i quali possono essere ora drammatici e irregolari ora lirici e fluenti.
DIFFERENZA FRA ICONISMO BIZANTINO E ICONISMO ROMANICO
Compito dell’arte romanica rimane quello di manifestare il mondo celeste in terra, ma a differenza di quella bizantina il suo obiettivo non è più divinizzare l’uomo, bensì umanizzare la divinità.
L’iconismo romanico non parte dalla natura, né proviene da mitici fondatori. Per gli artefici medievali il linguaggio artistico è quello iconico bizantino, ma il loro iconismo è cosa ben diversa da quello orientale. Attraverso la “scrittura visiva” non si limitano a trasporre in immagini il trascendente, bensì cercano di dar conto dei moti interni che animano le singole figure.
In pittura le immagini iconiche prendono vita attraverso la forza delle linee, l’addensamento dei colori, la luminosità delle tinte; in scultura col movimento dello scalpello che scava il marmo alla ricerca delle spinte profonde che agitano la materia; in architettura con la definizione delle strutture che delineano lo spazio. In questo modo il linguaggio romanico muta gli elementi strutturali del linguaggio bizantino così come ne muta l’espressività. In architettura e scultura, dove il cambiamento è più evidente, masse illuminate sostituiscono piani luminescenti; in pittura, dove il mutamento è meno lampante, è soprattutto nelle linee che si chiarisce il nuovo significato: non più delimitazioni di piani riflettenti ma campi di forze interagenti.
LA NUOVA CONCEZIONE DELL’ARTE NELL’EPOCA ROMANICA
Da quanto detto fin qui appare ormai chiaro che per gli artigiani dei borghi l’arte non esprime solo un essere, ma anche un fare. Presso i Bizantini l’arte era contemplazione; per gli artisti medievali è attività pragmatica. Il linguaggio romanico non ha come soggetto un mondo ultraterreno dove tutto è ormai oggetto di ammirazione, dove i drammi e le tensioni si sono acquietati ed ogni cosa può far ritorno al suo posto nel grande disegno dell’universo voluto da Dio. Non comunica più l’atarassia divina, l’armonia trascendente del mondo celeste, ma ricerca la catarsi e l’equilibrio nei drammi delle vicende umane, nelle tensioni immanenti del mondo terreno che al fine debbono trovare una soluzione alla loro continua aspirazione a diventare armonia, cioè placarsi in Dio. In architettura il valore sta nel risolvere in equilibrio il sistema di spinte e controspinte che si generano nelle masse murarie di un edificio; in scultura nel risolvere in equilibrio i pieni e i vuoti che si generano nella traduzione in immagine plastica di un contenuto narrativo o simbolico; in pittura nel risolvere la stessa situazione in equilibrio di forme e colori.
RUOLO SOCIALE DELL’ARTE E NUOVI VALORI NELL’EPOCA ROMANICA
Scopo fondamentale dell’arte romanica è quello di rifornire la collettività di icone, procurarle immagini da venerare, nonché provvedere a raffigurare vicende dal valore edificante e esemplare, che servano all’educazione religiosa e morale degli osservanti. In altri termini l’artista romanico è un lavoratore che risponde ad una domanda, un bisogno della società in cui vive ed opera.
Messa in questo modo sembra che l’arte romanica dei borghi non abbia altro scopo che quello pratico, cioè non le interessi esprimere valori spirituali, ma non è così. Sarebbe un errore pensare che il suo compito si limiti alla sola illustrazione dei contenuti (il ché ridurrebbe le opere d’arte romaniche a semplici strumenti didascalici). In essa si rinuncia alla trascendenza, ma non a Dio.
Ma a Dio si arriva con il lavoro, il lavoro che vincendo l’inerzia della materia la trasforma da massa informe in opera d’arte.
Presso i Bizantini la trascendenza divina si esprimeva tramite la sublimazione della materia in luce; luce colorata, vibrante, che emana dagli oggetti e annulla il senso di corporeità fisica delle cose.
Presso gli artisti romanici l’aspirazione a Dio si esprime tramite la sublimazione della massa inerme in spazio dinamico. La materia non si dissimula, la si rende evidente in tutta la sua gravità, così come si rende evidente la tecnica attraverso cui l’uomo la tramuta in forma, ritmo, luce, colore.
La forma non è più vacua; il ritmo non è più cadenza; la luce è modulazione luminosa che lambisce gli oggetti e ne mette in risalto la corporeità fisica. Anche il colore è materia, materia da plasmare, da dinamizzare con l’accostamento delle tinte. Cosicché ad una trascendenza espressa per mezzo della vibrazione cromatica, dell’immobilità ieratica e di uno spazio irreale, illusorio, si va sostituendo un’aspirazione al divino espressa dal dinamismo degli elementi strutturali e dal vuoto concreto, praticabile dello spazio reale.
CONFIGURAZIONE ESPRESSIVA DEL LAVORO NELL’ARTE ROMANICA
In termini di espressività linguistica il lavoro si manifesta non come cosa, ma come forza che produce le cose. Come tale non lo si può rappresentare, ma lo si deve esprimere attraverso gli effetti che produce; e l’arte è altresì l’effetto visivo del lavoro. Con ciò gli elementi costruttivi di un’opera assumono un doppio significato: alludono visivamente al mondo divino ma sono anche i segni concreti del lavoro speso per renderlo manifesto.
Questi segni sono i movimenti delle superfici e delle linee che individuano la distribuzione delle forze interne alla materia, cioè a dire le tracce lasciate dagli utensili sulla superficie dei materiali a dimostrazione del lavoro erogato per la ricerca delle energie profonde contenute nella materia stessa; materia reale in architettura e scultura, e reale in pittura nelle tinte utilizzate per affrescare i muri. Impronte che emergono sulle superfici degli elementi statici in architettura, nel corrugamento delle masse in scultura, nelle linee e nei campi di colore in pittura, e sono i profili delle strutture architettoniche, le superfici scalpellate dei rilievi e i segni lasciati dall’azione del pennello sulle pareti tinteggiate. Il loro disegno dipende dalle traiettorie dei gesti sapienti del mastro fabbricatore, e questi obbediscono alle diverse finalità che l’artefice si propone, come tirar su una cattedrale o raccontare un dramma e così via.
UMANIZZAZIONE NEL LINGUAGGIO DEI BORGHI
Gli uomini medievali concepiscono il mondo divino come una dimensione più vicina alla realtà terrena che si esprime mediante un linguaggio più semplice, meno intellettualistico, che può essere compreso da tutti, anche dai meno colti, e non solo da una schiera di eletti. Dunque l’obiettivo linguistico dell’arte medievale dei primi secoli è quello di esprimere la trascendenza divina in maniera più intuitiva, priva di bizantinismi, ovvero quello di tirar fuori dall’immagine bizantina i caratteri di una trascendenza più umana. E ciò lo si ottiene cercando sia di coinvolgere maggiormente l’osservatore sul piano emotivo, sia di avvicinare l’iconografia a realtà più immanenti.
L’artista romanico non ignora né svaluta il lavoro svolto dalle generazioni precedenti, anzi lo rinnova, guardando con favore al lavoro delle generazioni future.
Come per tutti i mestieri anche per l’arte occorre equipaggiarsi debitamente di metodi, strumenti e tecniche. Metodi, strumenti e tecniche sono quelli appresi sul cantiere, nella bottega del maestro (spesso il proprio padre). Quindi i contenuti culturali sono quelli tramandati di generazione in generazione attraverso l’operare quotidiano, e questi contenuti a loro volta sono estratti dalle opere del passato. Ma perché si compia un’opera d’arte non ci si deve limitare a riproporre il già fatto, il già detto, il già visto, si deve invece protendere verso il nuovo, l’originale, il superamento del passato, il creativo per l’appunto.
PROGRESSIVITÀ DEL LINGUAGGIO ROMANICO
La tecnica borghese non si limita ad una semplice economia di sussistenza, punta a qualcosa di più, al benessere, ad esempio, e anche oltre, al dominio del mondo. È dunque una tecnica finalizzata al progresso, e il progresso è frutto dell’ingegno; e l’ingegno si acuisce con l’esperienza e l’osservazione. La tecnica se vuol progredire deve essere creativa, e per essere creativa deve essere costantemente alimentata dall’esperienza e dall’osservazione.
L’arte, che si avvale di tecniche creative, in un ambiente dominato da artigiani non può essere concepita se non come modello del fare ingegnoso, vale a dire tecnica ad alto livello, fare superiore proprio perché creativo. Dunque, la nuova ideologia borghese si configura a livello estetico con la ricerca di un progressivo mutamento stilistico e strutturale nel segno della continuità storica.
Questo processo alimenta anche la ricerca di nuove tecniche e di nuove materie per rendere più competitivo il proprio prodotto. Ed è sempre un processo stilistico e non una nuova, radicale ideologia a portare l’arte romanica italiana allo storicismo giottesco di classica ascendenza, così come pure, dopo di lui, l’arte borghese di tutta Europa alla sua ultima espressione medievale: il Gotico Internazionale.
IL ROMANICO IN PIANURA PADANA DOPO MILANO E MODENA
Pavia, San Michele
FACCIATA E PIANTA (XII sec.)
Analizzati i lineamenti distintivi della poetica volgare proseguiamo la nostra navigazione nelle contrade padane per rinvenire i segni dello sviluppo del linguaggio medievale nell’Italia del nord.
San Michele di Pavia ha origini longobarde ma viene ricostruita da capo dopo il terremoto del 1117. Il nuovo edificio prende a modello Sant’Ambrogio, ma le navate da un lato si accorciano e dall’altro si alzano. L’elemento più caratteristico della chiesa è la facciata che si presenta come un piano continuo tagliato a capanna, mosso e alleggerito solo da una galleria scalata che si profila in alto a mo’ di fregio a seguire i due spioventi. Nulla sulla superficie esterna lascia prefigurare la struttura degli spazi interni se non la loro ampiezza trasversale mediante la presenza di quattro nervature verticali polistili che s’innalzano dritte, senza interruzione, dal piano terreno alla cornice di coronamento superiore. Ad alleggerire la paratia dal sembiante monolitico intervengono tre file parallele che corrugano la superficie liscia: un vero schermo riflettente su cui si modulano toni salienti di diversa intensità luminosa.
Como, Sant’Abbondio
ABSIDE E PIANTA (XI sec.)
Como, San Fedele
ABSIDE E PIANTA (XII sec.)
Como è la patria, almeno così si pensava fino a non molti decenni fa, dei magistri comacini. Quale posto migliore di Como dunque per vedere opere di questi costruttori leggendari?
Sant’Abbondio e San fedele sono due chiese dove su una base tardo antica si riscontrano motivi comuni alla cultura renana, come ad esempio i campanili gemelli addossati all’abside. Oltre alle torri gemine, elementi d’importazione centro europea sono il presbiterio profondissimo in Sant’Abbondio e il transetto formato da grandi absidi deambulati, tanto grandi da rinserrare la pianta a croce latina in una a croce greca in San fedele.
Parma, duomo
FACCIATA E PIANTA (XII sec.)
Il duomo di Parma attinge da soluzioni modenesi e pavesi. La facciata è a capanna come in San Michele ma è ulteriormente alleggerita da due ordini di gallerie, aggiunti a quello scalare, in alto; quindi al motivo delle rientranze si contrappone quello degli aggetti, costituito dal protiro, realizzato nel 1281, molto, troppo simile a quello di San Gimignano. Anche all’interno riprende Modena, ma le campate hanno un ritmo più serrato e sono più slanciate. Il complesso absidale all’esterno appare un poderosissimo gioco di volumi rigonfi d’aria. Le masse murarie sono alleggerite dalla presenza delle immancabili partiture e dalla sequenza di gallerie che coronano le absidi e i bracci di transetto e presbiterio.
Milano, San Vincenzo a Galliano
IL PROFETA GEREMIA (1007)
L’arte romanica non si esprime allo stesso livello di originalità in tutte le discipline. Primeggia l’arte edificatoria, in cui ci si richiama in modo esplicito ai modelli strutturali romani.
Negli affreschi di San Vincenzo a Galliano gli esperti ci vedono contatti con la pittura svizzera di Oberzell. Il bizantinismo domina ancora incontrastato, tuttavia in alcune figure emerge un impeto costruttivo insolito che annulla l’atarassia aulica. È evidente che qui non si vuole dissimulare l’operazione del dipingere, anzi la si vuole manifestare apertamente, cioè non si vuole trascendere l’esperienza. Dipingere è il lavoro che permette di trasformare la materia inerme, la tinta, in manufatto utile alla comunità, il dipinto; e questo è il modo migliore per guadagnarsi il paradiso, molto più che standosene oziosi a contemplarlo.
Modena, San Gemignano
Wiligelmo (notizie dal 1106 in seguito alle sculture per il duomo di Modena)
PRIMO BASSORILIEVO CON STORIE DELLA GENESI (1130 c.)
Breccia rosa di Verona, Altezza mt. 1 – lunghezza mt. 2,80
Fantomatico quanto Lanfranco, architetto del duomo di Modena, è Wiligelmo, autore della decorazione scultorea. Di lui non si conosce neanche il vero nome: epigrafisti e archeologi dicono che si chiamasse Vuiligelmo o Guiligelmo. Tutto quello che si sa di certo è che sul finire del secolo lavora ai bassorilievi collocati sulla facciata, esegue le decorazioni dei tre portali della cattedrale ed è l’artefice di un bel po’ di capitelli. Un’altra cosa che si sa con certezza è che Wiligelmo deve essere un maestro famoso se i contemporanei arrivano a dedicargli un’epigrafe commemorativa proprio sulla facciata del duomo. Di lui si elogia il fatto che non si esprime come i colleghi, in bizantino, ma in un nuovo linguaggio. I contenuti sono sempre quelli cristiani, ma la forma è recuperata dai sarcofagi e dai monumenti tardo-romani: gli elementi figurativi emersi sporadicamente nei secoli bui si fanno chiara coscienza delle radici tardo-romane del nuovo linguaggio figurativo dei borghi. Con Wiligelmo dunque si impone anche una nuova concezione della scultura. Ma nulla sorge dal nulla. Di dove proviene la cultura di Wiligelmo? Anche questo non si sa con certezza assoluta. Tuttavia gli esperti rilevano elementi provenienti dalla Francia, tolosani per l’esattezza.
Premesso ciò, Wiligelmo è il primo scultore a definire in modo quanto mai significativo il pensiero artistico romanico plastico. L’esame di uno dei quattro bassorilievi che ornano la facciata del duomo di Modena, quello con la creazione di Adamo ed Eva, ci permette di capire in che modo egli configura in scultura il pensiero artistico romanico circa gli ideali formali di metamorfosi della massa in modulazione luminosa, egemonia del movimento sulla stasi e trasmutazione della materia in spazio.
Al primo sguardo appare evidente che Wiligelmo in queste lastre istoriate non si pone affatto come obiettivo la dissimulazione della realtà concreta, bensì, alla stessa stregua di un architetto, si preoccupa di dinamizzare il sottile strato di spazio contenuto fra il piano d’affioramento delle figure e lo sfondo, cercando di togliere tutta la materia inerte di cui è capace per incanalare nella forma la restante massa liberata. È questa parte residuale, materia imbevuta di energia, che potrebbe facilmente distruggere la forma se non ci fosse la tecnica a controllarla, a contenerla entro i limiti fisici della superficie marmorea, quella stessa tecnica appresa attraverso il quotidiano esercizio dello scolpire nei cantieri e nelle botteghe dell’epoca. Ed è proprio la maestria tecnica che permette a Wiligelmo di dar corpo all’intuizione delle forze interne alla materia e trasformare così la stasi in movimento. Ciò che lo scultore ricerca è il punto limite oltre il quale la sottrazione di materia compromette l’equilibrata solidità della massa. Ma se si fermasse qui Wiligelmo sarebbe un artigiano non un artista. Egli invece cerca di sublimare la materia, trasmutare la massa in chiaroscuro di modo che lo spazio, cioè la totalità delle cose, risulti un complesso congegno di parti illuminate e parti buie, luce e ombra. Ma non basta. Come artista di formazione latina egli ricerca l’equilibrio tra l’una e l’altra.
Più in dettaglio, vediamo che lo spazio tra una figura e l’altra non è illusorio, ma concreto, si potrebbe dire quasi praticabile. Le figure in primo piano, così come le arcatelle in secondo, si stagliano sullo sfondo senza sfumature, come fossero incollate; i loro profili sembrano disegnati tanto sono netti i contorni. Questi, a loro volta, più che fungere da linee perimetrali di forme ridotte all’essenza geometrica, segnano i punti di affioramento delle forze contenute nella materia, e il vuoto è determinato dal movimento di queste forze sul piano della lastra. A sollecitare il sorgere delle forze all’interno della materia è la finalità narrativa. Infatti l’esigenza di rendere visivamente la sequenzialità del racconto induce Wiligelmo a mettere in rapporto, secondo un criterio di azione e reazione, le singole figure tra loro. È la stessa situazione che si ha in architettura con le strutture di sostegno che ergendosi a contrastare i pesi delle volte disegnano lo spazio col loro profilo forte e chiaro.
L’obiettivo ultimo di Wiligelmo rimane però la sublimazione dell’essere in energia. Lo provano i solchi che animano i panneggi o le scaglie che interpretano, in modo fresco e ingenuo, la superficie increspata del fiume paradisiaco sulla cui sponda si è addormentato Adamo, o le ciocche dei capelli, le quali più che assomigliare a veri e propri capelli ricordano le fibre attorcigliate delle corde: tutti espedienti inseriti per trattenere la luce sulle masse.
Se l’arte deve essere creazione, allora non può essere imitazione della natura: d’altronde che scopo ha imitare quello che Dio ha già modellato? Difatti Wiligelmo non scolpisce la figura umana come se copiasse un modello in carne ed ossa. Egli si pone, invece, nelle condizioni di chi partendo da una tradizione lavora per migliorarla. E migliorarla significa andare nella direzione di una figurazione che esprima in modo tattile le idee di spazio e tempo, forza e movimento, attraverso la creazione di spazi reali al posto di spazi simulati, movimento percettibile attraverso i gesti al posto del movimento percettibile attraverso la vibrazione cromatica. Cioè, in altri termini, vuol dire tendere a quella che si ritiene fin da ora una cultura superiore all’orientale, la cultura occidentale, quella che vede negli antichi classici le proprie radici storiche.
Sebbene la forza del rilievo di Wiligelmo stia principalmente nella concretezza dello spazio fra una figura e l’altra, l’artista non rinuncia a infondergli una profondità suppletiva attraverso la presentazione dei personaggi di tre quarti. A partire dalla creazione di Adamo, fino all’episodio del peccato originale, passando per la creazione di Eva, Dio e le sue creature umane appaiono in più occasioni di tre quarti.
Ma le novità apportate da questo artista non finiscono qui. Infatti se si approfondisce l’analisi del bassorilievo si vede bene come egli cancella con un sol colpo tutti i principali elementi che connotavano il linguaggio aulico bizantino. Le masse solide annullano l’unità quadridimensionale; l’uguaglianza di statura fra Dio, Adamo ed Eva (è forse la prima volta nella storia cristiana che l’uomo appare grande quanto Dio) annullano la dimensionalità simbolica; la presentazione dei corpi nelle principali posture spaziali, nonché il movimento sciolto delle membra, superano d’un sol colpo la fissità ieratica.
Questi aspetti, sebbene assolutamente inediti per l’epoca, non devono indurre però nel facile errore di considerare Wiligelmo un’artista in precoce anticipo sui tempi. Non bisogna dimenticare infatti che l’impianto di fondo rimane sempre legato alla concezione iconica dell’arte. Basti osservare a tal proposito come il senso di movimento che esprime la storia sia dato dallo scorrimento del primo piano su quello di fondo, o come le figure siano commisurate su proporzioni del tutto innaturali, o come ancora i volti siano maschere tipologiche prive di espressione: tutte cose queste che inquadrano Wiligelmo più nei confini storici dell’arte bizantina.
Dal punto di vista formativo, l’interpretazione dinamica delle masse, libera da schemi convenzionali, lo spiccato senso del dramma, dicono che Wiligelmo conosce bene l’arte del Nord Europa, tolosana in particolare. L’esplicito richiamo dell’intero ciclo ai bassorilievi dell’arco di Costantino, ma ancor più, la dinamica del racconto determinata dallo scarto, dallo slittamento del piano delle figure sul piano degli archi ci dice della sua conoscenza dell’arte tardo-romana. L’assenza di dimensionalità simbolica, di fissità ieratica, ma soprattutto la ricerca di equilibrio fra vuoti e pieni, spazio e masse ce lo presentano come un artista di profonde convinzioni classiche.
Ma la differenza fra la struttura di un’immagine che abbia come fine l’imitazione del vero, come quella classica, e la struttura di un’immagine che abbia come finalità l’espressione del lavoro, come quella medievale, sta tutta qua, nel fatto di essere il prodotto di quello che si riesce a fare tramite la tecnica conosciuta nell’ambito della raffigurazione sacra, raffigurazione che ha una tradizione ben precisa, quella bizantina, e mira a superarla, attraverso la trasfigurazione della materia in effetti di chiaroscuro, nonché la conquista progressiva dello spazio concreto e del moto. In conclusione, si può dire che la sostanziale differenza fra Wiligelmo e le esperienze orientali consiste nel fatto che con il ricorso al linguaggio iconografico l’artista modenese non intende alludere a evanescenti realtà trascendentali, ma a concrete realtà terrene. Ad un’immagine del trascendente tutta sensibilità pittorica Wiligelmo sostituisce un’immagine del trascendente tutta sensibilità plastica.
LA SCULTURA ROMANICA DURANTE E DOPO WILIGELMO
Novara, San Giulio d’Orta, basilica
PULPITO (XII sec.)
Verona, San Zeno
PORTALE (XI sec.)
Il pulpito che si trova nella basilica di San Giulio d’Orta, del XII secolo, presenta bassorilievi profondamente incisi che raffigurano, in maniera oserei dire grottesca, personaggi, angeli e animali fantastici dell’universo mitologico medievale. È il prodotto tipico di una cultura popolare in quanto caratterizzato da un linguaggio semplice e chiaro. La forza con cui questi rilievi si danno all’occhio è indice anche di un nuovo contenuto ideologico. Non è più il congiungersi della terra col cielo nella figura dell’imperatore, ma l’incontro di due realtà sociali: Chiesa e impero.
La porta di San Zeno è decorata da formelle di diversa datazione. Le più antiche risalgono all’XI secolo; riportano scene della passione di Cristo ed hanno un carattere palesemente popolare. I bassorilievi bizantini erano pressoché schiacciati, qui, al contrario, le figure sembrano prima modellate a tutto tondo e poi saldate sulla lastra liscia di metallo. Scopo? Farle sembrare che escano dal fondo. Cosicché lo spazio non è altro che quello che si crea collocando le figure nella formella. Le lastre rispondono unicamente ad un criterio narrativo, dunque si può dire che lo spazio è determinato dal racconto. In queste “metope” non c’è una struttura spaziale preordinata, non ci sono citazioni dotte, né ritmi prestabiliti, c’è la libertà dell’artista di fronte alla storia e di fronte alla tecnica: la dimensione romanica non è l’eloquio, ma la narrativa laconica.
Di dove viene lo sconosciuto bronzista di questa porta non si sa. Di certo si sa però che egli risente del nuovo clima che si è andato determinando con la formazione di centri di lavorazione dei metalli in Germania all’epoca degli Ottoni.
Verona, basilica di san Zeno
BASSORILIEVI (XI sec.)
Per seguire l’evoluzione del linguaggio romanico è necessario tornare per un attimo al duomo di Modena.
Nel duomo di Modena lavorano anche altri artisti oltre Wiligelmo, fra cui il cosiddetto maestro delle metope, Guglielmo da Campione. Nicolò è allievo di Wiligelmo. Dal maestro eredita e porta avanti il discorso sull’autonomia della scultura dall’architettura. Lavora ai portali delle cattedrali di Piacenza (1122), Ferrara (1135) e San Zeno di Verona (1138). A San Zeno non è solo. Con lui c’è Guglielmo, suo allievo.
Guglielmo è l’autore delle scene con la vita di Cristo che decorano la facciata della chiesa veronese. L’espressività immediata che caratterizza questi rilievi più che dettata da un gusto narrativo popolaresco proviene dalla stessa esigenza da cui sono partiti i suoi predecessori. Tuttavia l’interattività con l’architettura è indispensabile per intensificare il senso drammatico delle scene.
Ulteriori passi avanti rispetto ai diretti discepoli di Wiligelmo fanno Maestro Guglielmo nel pulpito della cattedrale di Pisa (ora in quella di Cagliari) realizzato fra il 1159 e il 1162, Anselmo da Campione nel pontile della cattedrale di Modena, opera del 1170-1175, Gruamonte nel portale di Sant’Andrea di Pisa e Biduino in San Salvatore, a Lucca.
Pisa, Santa Maria Maggiore
FORMELLE DELLA PORTA DI SAN RANIERI (XII sec.)
Bonanno Pisano, l’architetto della Torre Pendente, è anche scultore. Si è formato probabilmente a Lucca nella cerchia di Biduino; sua è la porta regia del duomo di Pisa, del 1180, purtroppo perduta. Rimangono a testimonianza della sua arte la porta di San Ranieri nel braccio destro del transetto della cattedrale pisana, di datazione incerta, e la porta del duomo di Monreale del 1186.
Tra San Ranieri e Monreale si nota una impalpabile differenza: nella porta pisana Bonanno si mostra più spigliato, meno legato al rispetto della tradizione bizantina.
Nelle formelle di San Ranieri lo scultore sembra modellare il bronzo quando è ancora incandescente tanto è fresca la resa della raffigurazione plastica. Quasi a voler dichiarare il suo legame con la cultura renana Bonanno, come cento anni prima l’ignoto autore delle più antiche formelle del portale di San Zeno, rinuncia alla nozione preordinata di spazio in cui far muovere le figure e compone liberamente dislocandole dove la narrazione lo richiede. Così quel che appare popolaresca è in realtà immagine data allo stato primitivo, allo stato di sensazione; ed è questa che il bronzo cattura durante la fusione e traspone sul piano dell’eternità.