DIFFERENZA FRA UMANESIMO ITALIANO E UMANESIMO FIAMMINGO
DUE IDEE DI ESSENZA A CONFRONTO
REALISMO ITALIANO E REALISMO FIAMMINGO
GLI ARTEFICI DELL’UMANESIMO FIAMMINGO: I VAN EICK
ROBERT CAMPIN: IL DISTACCO MORBIDO DAL TARDO-GOTICO FIAMMINGO
GLI ALTRI PROTAGONISTI DELL’UMANESIMO FIAMMINGO: ROGIER VAN DER WEIDEN
HANS MEMLING: IL RAFFAELLO DEL NORD
HUGO VAN DER GOES: IL FIAMMINGO CHE FECE RIFLETTERE LEONARDO
BOSH
BRUEGEL


DIFFERENZA FRA UMANESIMO ITALIANO E UMANESIMO FIAMMINGO

Bruges
VEDUTA DEL CENTRO STORICO

Contemporaneamente alla rivolta fiorentina si svolge nelle Fiandre, ma in maniera indolore, una non meno importante trasformazione dell’arte da gotica a umanistica: esiste un umanesimo fiorentino come esiste un umanesimo fiammingo. Più dei naturalisti toscani, i fiamminghi avvicinano la dimensione artistica alla dimensione dell’esistenza reale, ovvero danno una maggiore impronta realistica all’arte del tempo. Il loro ponte prospettico non è fondato sulla ragione ma sull’esperienza sensoriale. La cosa dipende principalmente dal fatto che la cultura classica presso di loro non ha avuto la stessa importanza che ha avuto presso i fiorentini.
I risultati stupefacenti ottenuti nei Paesi Bassi seguendo la via empirica non passano inosservati a Firenze dove si punta la prua verso la stessa direzione, per cui fra modo fiorentino, che diventerà ben presto modo italiano, e modo fiammingo s’instaura sin dall’inizio un rapporto dialettico. Per comprendere in che cosa consiste la differenza fra i due modi occorre aprire una breve parentesi sulla relazione tra forma e sostanza.

DUE IDEE DI ESSENZA A CONFRONTO

Secondo la metafisica dell’epoca informata a quella di Aristotele (383 c. – 322 a.C.), la natura è sostanza e la sostanza è forma più materia; se dalla sostanza si toglie la materia resta la forma. La forma rappresenta l’essenza, perenne, immutabile, la materia l’elemento corruttibile e mutevole. Tra forma e materia si stabilisce un rapporto: una è struttura, l’altra sovrastruttura; l’una si scorge con gli occhi guidati dalla cultura razionale, l’altra si scopre con la pratica dell’osservare. Per i toscani, che intendono l’arte come visualizzazione di concetti, la forma preesiste alla luce, così come la luce esiste indipendentemente dal colore, dunque per loro la forma è separata sia dalla luce che dal colore. La forma si rivela nel preciso istante in cui un fascio di luce la investe. Però non tutta la luce è buona per rivelarla, ne occorre una con caratteristiche particolari, ovvero che non provenga da una sorgente troppo vicina e limitata, ma, al contrario, provenga da una sorgente posta all’infinito e infinitamente grande. In altri termini occorre una luce diffusa e non polarizzata, che abbia una posizione laterale, non frontale o perpendicolare o radente, che sia posta davanti al soggetto e dietro l’osservatore, insomma occorre una luce teorica. Per i fiamminghi, che intendono stare a quel che si vede, la forma non preesiste alla luce, né questa ha un’esistenza autonoma rispetto al colore e alla materia, tutte e tre le componenti formano un insieme inscindibile, dunque l’essenza è data dalla forma della luce. Per loro il mondo non è fatto di “cose” sulla cui superficie la luce scivola e plasma, o vibra e dissolve, ma è fatto di “oggetti” che la luce solare, riflettendosi, fissa e rivela; non è la sostanza a strutturarsi sull’essenza universale, ma è l’essenza universale a strutturarsi sulla sostanza. La forma di una “cosa” non è visibile al buio, e anche se le forme generali di una oggetto particolare possono essere conosciute in assenza dell’oggetto stesso, bisogna comunque aver avuto l’occasione di farne l’esperienza.
Come l’idea toscana può essere compresa solo in un contesto metafisico così l’idea fiamminga può essere compresa solo in un contesto fenomenico. Se la forma preesiste alla luce significa che la si può individuare anche in assenza dell’esperienza attiva e diretta, se la forma non preesiste alla luce, allora significa che non si potrà fare a meno dello stretto contatto con la natura.
Naturalmente gli occhi hanno delle ragioni che la mente razionale non può condividere: cosa è l’elaborazione della struttura apparente dell’essere che s’intende, cosa è l’elaborazione della struttura apparente dell’essere che si percepisce.
Se nel mondo delle idee è sempre possibile separare luce, forma e materia nella realtà la forma non si può vedere senza la materia, né la materia senza la luce. Quindi, sia che si voglia cogliere la struttura, sia che si passi alla sovrastruttura, nel caso dei toscani occorre sempre un minimo di astrazione mentale, nel caso dei fiamminghi invece occorre sempre e solo concretezza percettiva. Di qui ne discende quell’inconfondibile impronta intellettuale che distingue l’umanesimo italiano dal corrispettivo fiammingo: in pittura avremo una sembianza concettuale, metafisica, nel primo caso, una sembianza sensoriale, fisica, nel secondo.

REALISMO ITALIANO E REALISMO FIAMMINGO

Sulla base di quanto appena detto si precisa la differenza fra realismo italiano e realismo fiammingo. Obiettivo comune a fiorentini e fiamminghi è la definizione dell’essenza universale e primigenia della natura tramite l’arte. L’essenza universale e primigenia delle cose è la forma geometrica più semplice da cui discendono tutte le cose particolari. Questa entità originaria si identifica con l’idea. Secondo i toscani per arrivare all’idea occorre trascendere l’aspetto fenomenico della realtà contingente, andare oltre il fenomeno, oltre l’immagine; secondo i fiamminghi invece si deve approfondire l’aspetto fenomenico, si deve stare all’immagine. I toscani elaborano le sensazioni visive in complesso di concetti che fissano l’essenza delle cose, cioè trasformano le percezioni in “dati ripuliti” dai particolari trascurabili (vedi mimesi), i fiamminghi approfondiscono la percezione visiva del fenomeno luminoso, non trasformano, ma precisano le sensazioni fino al punto di includere, sfiorando la maniacalità, anche i minimi particolari, in modo da comprendere nello stesso insieme le minime e le massime espressioni fenomeniche dell’essere.
Dalla radice naturalistica tardo-gotica, comune alla cultura figurativa d’Italia e delle Fiandre, si vanno sviluppando così due distinti indirizzi di ricerca. Il risultato finale dell’una è costituito dalla sintesi dei dati raccolti nel corso dell’operazione estrattiva dell’idea; il risultato finale dell’altra è costituito dalla stratificazione dei dati provenienti dall’esperienza visiva; l’una è intellettualistica, l’altra sensoriale; nell’una c’è la trasformazione del percepito in nozione, nell’altra no.
Per entrambi l’idea si dà ai sensi attraverso la luce, ma la luce dei toscani è il chiaroscuro, interpretazione intellettuale del suo effetto sui corpi opachi, per i fiamminghi sono le zone di luce giustapposte alle zone d’ombra, interpretazione percettiva dello stesso effetto. La luce naturale fiamminga, non meno di quella teorica degli italiani, è rivelatrice di realtà, ma per i primi si tratta della realtà fisica della sostanza, per i secondi si tratta invece della realtà metafisica della forma. Per gli italiani la luce penetra o si arresta a ridosso della materia per rivelare la forma intelligibile delle cose, per i fiamminghi la luce penetra e fa corpo con la materia per rivelare la forma che è data intuire nella sostanza. Di qui ne deriva che nei fiamminghi la disposizione del colore è dettata dalle condizioni d’illuminazione naturale a cui si trova esposto il soggetto, cioè la struttura dell’essere, la singolarità accidentale, dipende dalla situazione luminosa reale.
Bene, fermiamoci qui! Risaliamo a bordo della Nuova Argo, lasciamo l’Italia e partiamo alla volta delle Fiandre per andare a conoscere gli artefici dell’umanesimo fiammingo.

GLI ARTEFICI DELL’UMANESIMO FIAMMINGO: I VAN EICK

Gand, chiesa di Saint Bauve
Jan van Eick
POLITTICO DI GAND (1426/1432)
Olio su tavola, altezza mt. 2,58 – larghezza mt. 3,75

Le Fiandre costituiscono quella parte di territorio pianeggiante compresa fra il Mare del Nord e la Vallonia che si estende a sud dell’Olanda e a nord del Belgio. Nel Quattrocento la regione è un importantissimo centro di lavorazione della lana, cosa questa che la rende particolarmente rilevante dal punto di vista sia economico che politico. Nei primi anni del Quattrocento la regione è sotto il controllo dei Borgognoni, nella seconda metà del XV secolo passa sotto il dominio degli Asburgo.
Le città principali sono Gand e Bruges. Gand, all’epoca, con i suoi 65.000 abitanti è la città più popolosa (solo Parigi e alcune città italiane ne avevano di più); Bruges è il principale centro dei commerci tra Europa settentrionale e Mediterraneo ed è anche la città della prima borsa valori del mondo. Nel Quattrocento arriva a contare più di 40.000 abitanti, tuttavia a causa dell’insabbiamento del canale Zwin che la collega con il Mare del Nord, nel secolo successivo, subisce un rapido declino, cedendo il suo ruolo di città commerciale egemone ad Anversa. In questo contesto socioeconomico si formano e operano gli artisti fiamminghi.
Jan van Eick (1390-1441 c.) è stato per i fiamminghi quello che Masaccio (1401-1428) è stato per gli italiani: il fondatore della pittura umanistica. Insieme all’artista toscano egli rappresenta uno dei due poli della cultura pittorica europea del Quattrocento. Non si sa bene dove nasce né quando. Quasi sicuramente vede la luce a Maastricht, comune diventato famoso ai nostri giorni per via del trattato sull’Unione Europea, meglio noto come Trattato di Maastricht; se ne diparte da questo mondo quando è sui 51/54 anni. Poco e niente si sa della sua formazione; forse si svolge in Francia, forse nel Limburg. Forti dubbi si hanno anche sull’esistenza del fantomatico fratello Hubert (morto nel 1426), più grande di Jan, suo maestro e suo principale nella bottega di famiglia. Di Hubert la ricerca storica ha trovato solo due reperti in cui si fa accenno al suo nome: il primo sul polittico dell’Agnello Mistico e il secondo su una lapide nell’abbazia di San Bavone a Gand. Poi, all’improvviso, le nebbie si dissolvono, ed ecco che la figura di Jan inizia ad illuminarsi. Dal 1422 al 1424 lo troviamo all’Aia, al servizio del conte di Olanda, l’anno dopo lo troviamo alla corte del duca di Borgogna Filippo il Buono (1396–1467), in qualità di pittore e agente segreto. Nel 1432 si trasferisce da Lilla a Bruges, e qui resta per tutta il resto della sua vita. Le opere di suo pugno non sono tante, ma tutte di grandissima elaborazione. Le più note risultano essere il monumentale polittico di Gand, il Ritratto dei coniugi Arnolfini e la Madonna del cancelliere Rolin, rispettivamente del 1432, 1434 e 1434/1435. Oltre a dette opere vanno ricordati anche i ritratti quali quelli dell’Uomo col turbante rosso e della moglie Margaretha van Eyck.
Il cosiddetto Polittico di Gand è un’opera monumentale, costituita da 12 pannelli, disposti su due ordini sovrapposti. Non è dato sapere quanto tempo ci hanno messo i van Eick per realizzare un’opera così complessa e così elaborata. Come risulta da un’iscrizione presente sulla cornice esterna del dipinto la inizia Hubert prima del 1426, dal momento che a quella data risulta morto, quindi la porta a termine Jan e la consegna all’abate della chiesa di San Bavone nel 1432, dopo almeno sei anni di lavoro.
Guardando il dipinto pluripannellato aperto si può notare, partendo dal registro superiore e dal centro verso l’esterno: il Padre Eterno, la Vergine a sinistra e san Giovanni Battista a destra, quindi a seguire Maria con gli angeli cantori e Adamo, mentre dalla parte opposta gli angeli musici ed Eva. Seguendo lo stesso percorso, nel registro inferiore abbiamo: al centro la grande tavola con l’adorazione dell’agnello mistico, dopodiché a sinistra i cavalieri di Cristo con i giudici integri e a destra gli eremiti con i pellegrini.
Dopo aver superato lo stupore iniziale per la qualità altissima della resa pittorica non si può fare a meno di notare una certa difformità fra i vari scomparti. I critici imputano questa disomogeneità alla doppia impronta dei fratelli van Eyck. Fra gli esperti l’indirizzo prevalente attribuisce a Hubert il progetto e l’esecuzione della parte centrale, i pannelli con l’agnello e i tre superiori, mentre a Jan spetterebbe tutto il resto. Ma quel che il polittico perde in organicità, lo riacquista allorquando si vanno ad analizzare le tavole singolarmente. Così ecco emergere le peculiarità del linguaggio dei van Eyck, destinate a diventare i canoni tipici dell’arte fiamminga del Quattrocento. Questi sono: innanzi tutto il naturalismo percettivo, fondato su quei valori che molto più tardi verranno definiti dal Fiedler (1841–1895) della pura visibilità, quindi il particolarismo analitico, la lirica della luce e il colorismo, freddo e trasparente.

Londra, National Gallery
Jan van Eyck
RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI (1434)
Olio su tavola, altezza cm. 81,8 – larghezza cm. 59,5

Se il polittico di Gand è l’opera più sontuosa di van Eyck, quella più conosciuta è il Ritratto dei coniugi Arnolfini. La celebre tavola è stata ed è tuttora oggetto di varie interpretazioni, soprattutto per via di alcuni particolari enigmatici. Il primo è il soggetto. L’interpretazione tradizionale è quella che vorrebbe l’opera un presente per la celebrazione del matrimonio fra Giovanni Arnolfini (1400 c. – 1472), un mercante di Lucca d’istanza a Bruges da oltre dieci anni, e Giovanna Cenami (1433-1506). L’altro punto che ha fatto discutere e continuerà a far discutere è la condizione della donna: è in stato interessante o no? Non è che la cosa sia importante in sé, ma potrebbe gettar un fiotto di luce sul significato del gesto della sua mano sinistra, così chiaramente allusiva del ventre. E poi c’è anche l’immagine che autoritrae il Van Eyck allo specchio insieme ad un altro personaggio la cui presenza nella tavola non è chiara: si pensa l’abbia voluta l’autore per indicare la contingenza dell’evento. Inoltre c’è la multitorciera che porta accesa solo una candela in pieno giorno, e le ombre che nelle mele vanno in una direzione e nella coperta e nel baldacchino vanno in un’altra. Cosa dire poi dei volti dei coniugi, così imperscrutabili; quali sentimenti nascondono. E infine che c’entrano le dieci storie della passione di Cristo dipinte in miniatura nei tondelli della cornice polilobata dello specchio sferico. Tutti enigmi che in parte servono ad alimentare l’interesse intorno a questa opera, la quale, al di là dei misteri che custodisce, ci attrae soprattutto per la grande destrezza tecnica dimostrata dal van Eyck nel tromp l’oeil.
Comunque, come accade per molti altri celebri quadri (vedi la Gioconda) potrebbe anche essere che non ci sia nessun enigma da svelare. L’unico vero enigma è la realtà quando la si riprende per quello che è, e non per quello che si immagina essere.

Londra, National Gallery
Jan van Eick
UOMO CON IL TURBANTE ROSSO (1433)
Olio su tavola, altezza cm. 25,5 – larghezza cm. 19

Jan van Eyck ha rinnovato anche la ritrattistica del tempo. L’uomo con il turbante rosso è considerato da molti l’autoritratto, anche se il fatto che vi abbia apposto la firma e la data di esecuzione non vuol dire assolutamente che si tratta di lui. Come si vede l’uomo porta una specie di turbante rosso che gli grandeggia sulla testa. Lo sguardo fissa l’osservatore, sembra quasi scrutarlo. Per capirne tutta la novità bisogna sapere che prima di questo olio i ritratti coglievano il personaggio solo di profilo, ritenendo tale angolazione la più adatta per renderne il carattere e la veridicità fisionomica. Ebbene Jan dimostra che non il profilo, né il fronte, ma i tre quarti producono effetti realistici ancora più efficaci.

Parigi, Museo del Louvre
Jan van Eick
MADONNA DEL CANCELLIERE ROLIN (1434/1435)
Olio su tavola, altezza cm. 66 – larghezza cm. 62

La terza opera che verrà analizzata è la Madonna del cancelliere Rolin. Forse è stata eseguita in seguito alla pace di Arras stipulata nel 1435. La tavola raffigura il cancelliere Rolin (1376–1462) in adorazione della Madonna col Bambino. Lui veste un abito dai preziosi disegni, la Vergine un ampio mantello rosso sul quale sono ricamate in oro le parole pronunciate davanti al cancelliere nel giorno della celebrazione; il Bambinello tiene in mano una corona gemmata. La scena si svolge in un loggiato medievale dalle cui arcate di fondo filtra un chiarore come di tramonto, creatrice di un complesso gioco di luci all’interno della veranda. Al di là delle arcate si distende una città fluviale con i suoi edifici, le sue strade, i suoi abitanti; tutto descritto nei minimi dettagli, così come viene descritto nei minimi dettagli, benché a scala maggiore, quel che succede al di qua delle arcate. Ed è proprio questo elemento, il dettaglio, che, contrariamente a quanto avviene nella cultura figurativa italiana, da unità all’insieme.

ROBERT CAMPIN: IL DISTACCO MORBIDO DAL TARDO-GOTICO FIAMMINGO

Madrid, Museo del Prado
Robert Campin
TAVOLA CON SANTA BARBARA (1438)
Olio su tavola, altezza cm. 101 – larghezza cm. 47

La pittura fiamminga del Quattrocento nasce con Jan van Eick, ma la pittura fiamminga germoglia prima, nel cuore del tardo-gotico di Fiandra. A differenza di quello italiano l’Umanesimo fiammingo fiorisce senza strappi col passato. L’artista di Fiandra che meglio di chiunque altro impersona il distacco morbido dal tardo-gotico è Robert Campin (1375-1444).
Robert Campin, conosciuto anche come Maestro di Flemalle, nasce a Valenciennes e muore a Tornai. È il primo pittore a fornire un’interpretazione domestica dei soggetti sacri, un’interpretazione che presto diventa motivo caratteristico dell’arte fiamminga. Ad esempio nella tavola con Santa Barbara, la protagonista viene rappresentata mentre è intenta a leggere un libro nella calda intimità di una casa borghese. A parte il manto verde cadmio, ricchissimo di pieghe, quel che colpisce in questa immagine è la minuta descrizione dei singoli oggetti, delle strutture architettoniche e del mobilio, tutto visto e riportato con una lucidità impressionante. Fonte della rivelazione é la luce grigio argentea che penetra dalla finestra dagli scuri spalancati. Sembra quasi di sentirla l’aria frescolina che entra dall’apertura sulla parete di fondo, pertanto ci par comodo riscaldarci allo stesso fuoco che da tepore alla stanza.

GLI ALTRI PROTAGONISTI DELL’UMANESIMO FIAMMINGO: ROGIER VAN DER WEIDEN

Madrid, Museo del Prado
Rogier van der Weyden
DEPOSIZIONE DALLA CROCE (1433/1435)
Olio su tavola, altezza mt. 2,20 – larghezza mt. 2,62

Il secondo pittore fiammingo per ordine d’importanza è Rogier van der Weiden (1399 c. – 1464). Di lui e della sua formazione si sa poco. Nasce a Tournai, muore a Bruxelles il 18 giugno, alla presumibile età di 65 anni; suo padre Henry de la Pasture fa il coltellaio. Si forma nella bottega di Robert Campin. Sposa Elisabeth Goffaert, la figlia di un calzolaio di Bruxelles, dalla quale ha due figli, Jan e Peter. Il primo diventerà orafo, il secondo pittore come il padre.
Nel 1449 è in Italia per il Giubileo del 1450; si ferma a Roma, Firenze, Milano e Ferrara. La sua opera è conosciuta e apprezzata in tutte le corti; sui suoi lavori meditano molti artisti italiani della prima metà del Quattrocento. Forma allievi sia in Italia che nelle Fiandre. I suoi dipinti sono molto numerosi e di difficile collocazione cronologica dal momento che diversi non sono firmati, tuttavia il suo stile è inconfondibile ed entro certi limiti da conto almeno dell’autografia dei pezzi.
Fra le opere più conosciute e sicuramente di sua mano è la Deposizione dalla Croce, per vedere la quale non in terra di Fiandra dobbiamo soggiornare, né in terre nordiche, ma in terre del sud, a Madrid, nel Prado.
Il pannello faceva parte di un trittico che Rogier aveva replicato per la chiesa di San Pietro di Louvain. Le figure che danno vita al celebre episodio della passione di Cristo sono come inserite a forza in uno spazio oblungo e ristretto, quasi fossero sbalzate sullo sfondo liscio come in un bassorilievo. La compressione in quello spazio asfittico crea un profondo senso di angoscia che corrisponde esattamente al sentimento che accomuna tutti i partecipanti: quanto diversa questa deposizione da quelle italiane, serenamente rituali! Emergono nella tavola tutte le peculiarità che andranno a definire lo stile fiammingo quali la lenta, accuratissima fattura, ma soprattutto l’acutezza visiva, nonché l’interesse per il particolare realistico, l’analisi della psicologia umana e la grande sensibilità luministica. A questi elementi va aggiunta la monumentalità della figura umana che ne definisce inequivocabilmente la personalità pienamente umanistica.

Firenze, Galleria degli Uffizi
Rogier van der Weyden
SEPOLTURA DI CRISTO (1444/1445)
Olio su tavola, altezza cm. 110 – larghezza cm. 96

Agli Uffizi c’è la Sepoltura di Cristo, opera dove Rogier si confronta con il Rinascimento fiorentino.
Il maestro è anche un ritrattista eccellente. Notevole è il suo Ritratto di donna, geometrico e ieratico, ma anche intensamente umano pur nella sua fredda immobilità trascendente.
Le opere che seguono il soggiorno italiano denotano un certo cambiamento stilistico. La gamma dei colori si fa più fredda, la linea più ritmica e stirata, il tono generale risente di una più intensa religiosità che si esprime attraverso un naturalismo più tragico.

HANS MEMLING: IL RAFFAELLO DEL NORD

Danzica, Museo Nazionale
Hans Memling
TRITTICO DI DANZICA (1467/1473 c.)
Olio su tavola, altezza mt. 2,23 – larghezza mt. 3,06

Beaune, Francia, Hôtel Dieu
Rogier Van der Weyden
GIUDIZIO UNIVERSALE (1443/1451)
Olio su tavola, altezza mt. 2,15 – larghezza mt. 5,60

Hans Memling (1436 c. – 1494) è fiammingo come pittore ma tedesco come nazionalità. Si pensa sia stato allievo di Rogier van der Weiden, ma la cosa non è provata.
Hans nasce a Seligenstadt, muore a Bruges alla presumibile età di 58 anni. Il suo cognome pare derivi da Mömlingen, una cittadina della Baviera situata nei pressi di Aschaffenburg. Si distingue tra i fiamminghi per il suo stile caratterizzato dal colorito più delicato e dalle forme improntate ad una estrema grazia, tanto da giustificare l’epiteto di Raffaello del Nord con cui è anche conosciuto. Per questo suo stile viene molto apprezzato pure in Italia.
Le differenze col suo presunto maestro emergono in modo abbastanza eloquente dal confronto fra il Trittico di Danzica e il Giudizio Universale a cui chiaramente si ispira. Infatti dall’analisi delle due opere si vede quanto Hans sia più progredito rispetto a Rogier. Ad esempio mentre Rogier divide il giudizio in nove tavole singole, cioè segue uno schema paratattico, Hans concepisce le sue cinque tavole come un’unica scena, e ancora, mentre in Rogier prevalgono i valori plastici che fanno delle sue figure sculture dipinte, in Hans prevalgono valori prettamente pittorici. Infine mentre Rogier affronta il nudo con discrezione quasi imbarazzata, Hans lo svolge in modo più aperto e disinvolto, segno sicuro di un ammorbidimento delle censure del tempo.
Diverse sono le opere a suo carico fra cui nell’ordine: il Trittico di Donne, la Passione di Torino con gli splendidi squarci paesaggistici, la Madonna col Bambino, santo e devoto della National Gallery di Ottawa, Il trittico del Matrimonio mistico di santa Caterina e il Reliquiario di sant’Orsola, il suo capolavoro. In sant’Orsola, conservata nell’attuale Hans Memling museum (già ospedale di Bruges), appare pregevole oltre alla solita attenzione per i particolari, la delicatezza della figura, la varietà del paesaggio retrostante e la delicatezza dei panneggi, nonché l’effetto tattile della stoffa.

HUGO VAN DER GOES: IL FIAMMINGO CHE FECE RIFLETTERE LEONARDO

Firenze, Galleria degli Uffizi
Hugo van der Goes
TRITTICO PORTINARI (1475/1478)
Olio su tavola, altezza mt. 2,53 – larghezza mt. 5,86

Pochi artisti stranieri hanno influito sugli sviluppi della pittura rinascimentale fiorentina, apparentemente così distante, come Hugo van der Goes (1430 c. – 1482). Suo è il celebre Trittico Portinari che tanto interesse suscita nell’ambiente fiorentino di fine Quattrocento, in modo particolare sul Ghirlandaio (1449-1494), su Filippino Lippi (1457 c. – 1504), nonché su Leonardo (1452-1519). Eppure di Hugo van der Goes, a parte le notizie di rito, si sa solo che è nato a Gand, che è uno dei massimi pittori del suo tempo, che nel 1477 si ritira come fratello laico presso il monastero Roode Kloster (croce Rossa) a Bruxelles, e che muore a Auderghem presso Bruxelles, ad un’età approssimativa di 42 anni, in seguito ad una grave malattia mentale. Suoi maestri spirituali sono van Eyck, van der Weyden e Giusto di Gand (1430–1480 circa). La sua opera più celebre è appunto il Trittico Portinari.
Il Trittico gli viene commissionato dai Portinari, una ricca famiglia di mercanti fiorentina. Il tema di rappresentazione è l’adorazione dei Magi. In questa opera Hugo sembra voler ribadire la distanza fra realismo fiammingo e realismo italiano. L’ampio schermo raccoglie ed enuclea con lenticolare precisione tutti gli elementi dell’insieme, così ecco apparire con sconcertante verità, uno in relazione all’altro, la capanna, la chiesa, la Madonna, i Magi, i pastori, gli astanti donatori, fra i quali la stessa Maria Portinari Baroncelli, nonché pagliuzze, un vaso con dentro degli iris, tutto visto con scrupolosa attenzione. Ne risulta un’immagine tutt’altro che fredda, bensì fervida, ricca di sottigliezze mimetiche, piena di intensa luminosità.

BOSH

Madrid, Museo del Prado
Hieronymus Bosch
IL GIARDINO DELLE DELIZIE (1480/1490 c.)
Olio su tavola, altezza mt. 2,20 – larghezza mt. 3,89

La pittura di Bosch (1450 c. – 1516) è inconfondibile. Riprende, reinterpretandola in modo del tutto originale, la tematica medievale della redenzione divina. Il fine è lo stesso, suscitare paure escatologiche, ma fornire anche una via d’uscita all’umana condanna attraverso i santi, i quali con l’esempio della loro stessa esistenza ci inducono a riflettere sui valori che conducono alla salvezza. La sua poetica è fortemente ancorata al pensiero religioso più ortodosso. Se ne avvedono bene i fedeli fiamminghi, che non considerano affatto l’opera di Bosch come la semplice espressione di una fantasia eccitata, bensì come un monito contro la lascivia dilagante nei costumi della dirigenza cristiana rinascimentale. Per questo, anche se sature di episodi grotteschi, e spesso pungenti, le sue tavole sono richieste soprattutto dalle chiese del Nord. La sua opera è altro che trastullo per corti; c’è anticipata la sensibilità e molti temi della riforma protestante. L’arte di Bosch, è risaputo, da forma a proverbi, cioè a modi popolari di comunicare contenuti morali; non per questo la sua arte è arte popolare. Al contrario, si avvale del linguaggio realistico per impressionare maggiormente l’osservatore; le sue deformazioni non provengono dal linguaggio, bensì dalla realtà stessa. Jeroen Anthoniszoon van Aken detto Hieronymus Bosch o Jeroen Bosch nasce a ‘s-Hertogenbosch, una cittadina sita nei Paesi Bassi del sud, vicino a Tilburg, probabilmente il 2 ottobre 1450. La sua famiglia è originaria di Aquisgrana e abita a ‘s-Hertogenbosch da almeno due generazioni. Il nonno Jan, il padre, Anton van Aken, e due zii, fanno i pittori. Hanno una bottega in cui ci si occupa, oltre che di affreschi e di doratura, di fornire tutto il necessario per l’arredamento delle chiese, dagli inginocchiatoi alle cornici per le pale d’Altare: è dunque presumibile che la formazione del giovane Jeroen sia avvenuta in famiglia. Nel 1478 muore il padre; la bottega passa allo zio Goossen e lui si cerca un nome d’arte. Due anni dopo si sposa con Aleyt van der Mervenne, figlia di un ricco borghese, e la sua carriera decolla. Nel 1486 (o 1487) entra a far parte della Confraternita di Nostra Signora, un’associazione di laici dediti al culto della Vergine ed a opere di carità.
Bosch muore probabilmente il 6/7 agosto 1516 quando si approssima a compiere 66 anni. Il 9 agosto si celebrano in forma solenne le sue esequie nella Cappella della confraternita nella cattedrale di ‘s-Hertogenbosch, nei cui registri è ricordato come: «Hieronymus Aquen, alias Bosh, insignis pictor».
Numerose e arcinote sono le sue personalissime opere. Tavole singole come: I sette peccati capitali, l’Estrazione della pietra della follia, le varie Tentazioni di sant’Antonio, il San Giovanni evangelista in meditazione, le Incoronazioni di spine, La nave dei folli e Il prestigiatore, nonché molteplici trittici quali: Il carro del fieno, Il giardino delle delizie, il Trittico della pazienza di Giobbe, quello delle tentazioni, quello del giudizio di Vienna e quello dell’Epifania di Madrid. Non potendole analizzare tutte, ché lungo sarebbe, se ne esaminerà una in particolare, la più famosa e conosciuta: Il giardino delle delizie.
La datazione di questo celebre trittico è incerta; dovrebbe seguire di poco l’altro celebre trittico, Il carro del fieno, quindi dovrebbe essere stato eseguito negli ultimi anni del Quattrocento. La tematica trae spunto da un passo della seconda lettera di san Pietro. Senza entrare nei dettagli va sottolineato che il pannello centrale rappresenta l’umanità prima del diluvio, dedita al peccato, ma anche l’umanità dell’epoca, prima della distruzione finale. L’anta interna di sinistra rappresenta la creazione tramite il verbo divino, Gesù Cristo, mentre l’anta interna di destra, dove appare il cosiddetto inferno musicale, rappresenta la distruzione del mondo. Nella parte esterna, leggibile ad ante chiuse, v’è raffigurato il terzo giorno della genesi, cioè l’emersione della terra dalle acque, ma anche l’emersione della terra dopo il diluvio. Il significato dunque risulta esplicito: Dio ha distrutto il mondo già una volta a causa dei peccati di cui si sono macchiati gli uomini, potrebbe farlo di nuovo.
Tipico dell’artista è riempire di figure le sue tavole, ognuna con un loro preciso significato. C’è chi le ha decodificate una ad una. Per quanto ci riguarda è sufficiente sapere che diverse sono le fonti da cui traggono origine, quali ad esempio la Bibbia, la Legenda Aurea, la Visione di Tondalo, i bestiari medievali, il libro dei sogni, immagini e concetti popolari, insomma visualizzano immagini suscitate dalla lettura.
Col passaggio al nuovo secolo arriva anche per Hieronymus il momento del tour in Italia e anche per lui, come è avvenuto per tutti gli altri maestri nordici, dopo il giro giunge il momento della revisione del proprio linguaggio. Il nuovo Bosch è un Bosch più rinascimentale, in cui le figure assumono un aspetto più monumentale e si inseriscono in modo più armonioso e organico nel paesaggio. In particolare l’ambientazione risulta più ariosa e nello spazio inizia a farsi sentire la presenza dell’atmosfera circolante che avvolge tutte le cose e ne rende più sfumati i contorni.

BRUEGEL

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Pieter Bruegel il Vecchio
PARABOLA (O CADUTA) DEI CIECHI (1568)
Tempera su tela, altezza cm. 86 – larghezza cm. 154

Chi vede per la prima volta i dipinti di Bruegel (1525 c. – 1569) certo non se li scorda più. Accade per lui quello che accade per Bosch, si resta incantati di fronte alla singolarità della sua fantasia visionaria. Bruegel è il continuatore dell’opera boschiana, ma a differenza del predecessore da ai suoi proverbi visivi uno sfondo terreno e contingente invece che escatologico.
Di Pieter Bruegel si ignorano data e luogo di nascita. Verosimilmente è nato intorno al 1525, forse a Breda o un paesino li vicino; muore a Bruxelles nel 1569, all’età di 44 anni o giù di li. La sua salma riposa nella chiesa di Notre-Dame de la Chapelle. Gli fa da maestro Pieter Coecke (1502–1550), pittore di corte di Carlo V (1516-1556), architetto, disegnatore di arazzi, nonché persona colta. Nel 1563 sposa la figlia del suo maestro, Mayeken. Il primo figlio porta lo stesso suo nome, mentre al secondo viene dato il nome di Jan; entrambi seguiranno la carriera del padre. Il più grande diverrà noto col nome di Pieter Bruegel il Giovane (1564–1638), mentre il minore sarà conosciuto col nome di Jan dei Velluti (1568–1625).
La storia di Pieter Bruegel non è diversa da quella di tutti gli altri pittori fiamminghi. Anch’egli compie il doveroso viaggio in Italia, irrinunciabile allora per la formazione corretta di un buon pittore. Gli effetti del tour (il secondo) si fanno soprattutto sentire nell’ammorbidimento delle linee e negli accordi dei colori, cosa questa abbastanza desiderabile per un pittore del Nord Europa.
Bruegel ha lasciato circa una settantina di opere pittoriche. Celebri sono la Danza nuziale all’aperto, il Banchetto nuziale, l’Adorazione dei magi, La grande torre di Babele, La Parabola (o caduta) dei ciechi, la Battaglia tra carnevale e quaresima, la Caduta degli angeli ribelli, ilTrionfo della Morte. Anche nel suo caso, impossibile analizzarli tutti, si commenterà sinteticamente la sola Parabola dei ciechi.
In questo quadro la morale risulta esplicita: l’umanità avanza ciecamente verso il baratro. La situazione nelle Fiandre poco dopo la metà del Cinquecento non è affatto rosea, ci sono lotte dappertutto: lotte religiose fra cattolici e protestanti, lotte di potere tra Francia e Belgio. Una situazione che giustifica appieno una visione pessimistica della vita; una visione che, a quanto pare, non coinvolge la natura, che in quest’opera resta estranea alla tragedia che si sta consumando sul primo piano della tela.
Prima di chiudere questa brevissima incursione nel mondo di Bruegel non possiamo dimenticare però di accennare almeno ai Proverbi fiamminghi, uno fra i suoi dipinti più famosi.
Proverbi fiamminghi si ispira agli Adagia di Erasmo da Rotterdam (1466 c. – 1536), dove si parla del precario equilibrio degli uomini fra saggezza e follia. Nell’opera di Bruegel questa tematica si trasforma in una rappresentazione dove circa centoventi gruppi di persone visualizzano altrettanti ammonimenti tratti dalla saggezza popolare.