IL RINASCIMENTO A MILANO
BRESCIA CENTRO DI DISSIDENZA COSTRUTTIVA


IL RINASCIMENTO A MILANO

Milano, ospedale Maggiore (oggi sede dell’università statale)
Filarete
ESTERNO (iniziato nel 1456)

Milano, ospedale Maggiore (oggi sede dell’università statale)
Filarete
CORTILE (iniziato nel 1456)

Firenze, biblioteca Nazionale PIANTA E PROSPETTO DELL’OSPEDALE MAGGIORE (1460/1465)
Da un disegno a penna redatto sul Trattato di architettura

Il Rinascimento a Milano arriva con mezzo secolo di ritardo. Rimane fuori dalle porte della città fino a quando Francesco Sforza (1401-1466) non chiama dalla Toscana il Filarete, al secolo Antonio Averulino (1400-1469 c.). Prima di questa decisione storica la capitale lombarda è il maggior centro italiano di diffusione della moda “Cortese”.
Il Filarete ha fama di essere un buon architetto, tuttavia non riesce a fare gran che di nuovo. Nell’ospedale Maggiore, del 1456, all’esterno, tutto quello che gli viene concesso è di incorniciare bifore gotiche in archeggiature a tutto sesto classiche. Più libertà gli viene accordata nel cortile interno dove si inventa un bel doppio loggiato, ripetendo su due ordini quello dello spedale degli Innocenti del Brunelleschi. A parte questi tentativi di aggiornamento della situazione meneghina il Filarete si fa ricordare più che altro per le sue elucubrazioni sulla città ideale dedicata al signore di Milano chiamata “Sforzinda”. Ma anche in questo caso, nella pratica attuazione, non riesce ad andare oltre l’introduzione di nuovi vocaboli in una lingua ancora fortemente gotica.

Milano, castello Sforzesco, Musei civici del castello
Michelozzo
PORTALE DEL BANCO MEDICEO DI MILANO (1460/1465)
L’attribuzione oggi è oggetto di discussione

Milano, chiesa di Sant’Eustorgio, cappella Portinari
Michelozzo
ESTERNO ED INTERNO (1464/1468)
L’attribuzione oggi è oggetto di discussione

Le cose all’ombra del duomo non vanno certo meglio al compaesano Michelozzo (1396-1472), che si trova a Milano nel 1462, per conto dei Medici, a curare il progetto del nuovo banco cittadino e a realizzare la cappella Portinari in Sant’Eustorgio. Del primo rimane oggi solo il portale, recentemente attribuito ad un altro autore; la seconda è il gioiello di una chiesa non molto grande ma molto famosa tra i milanesi. Motivo della sua fama? In Sant’Eustorgio c’erano custodite le spoglie dei magi. Oggi non ci sono più: le ha portate a Colonia il Barbarossa (1122 c. – 1190). Per la storia dell’arte è importante perché si ritiene che nella sua fabbricazione ci sia anche l’intervento del Bramante (1444-1514).
La cappella Portinari (anch’essa recentemente attribuita ad un altro autore) è un’opera grandiosa, fatta sul modello della cappella Pazzi e della sagrestia Vecchia di San Lorenzo. Ma la purezza delle linee deve fare qui i conti con la decorazione tanto cara alla tradizione lombarda, che ne trasforma pesantemente la struttura caricandola di elementi estranei alla nomenclatura classica fiorentina, tanto da disturbarne il rigoroso geometrismo. Alla concezione della parete come piano di proiezione di Filippo (1377-1446) si sovrappone la realtà della stessa come superficie pittorica propria dei lombardi: al senso plastico si sovrappone quello pittorico; alla uniformità tonale la vibrazione luministica. Ciononostante la presenza di Michelozzo a Milano è importante perché è la fonte prima di esportazione del rinascimento toscano in una terra storicamente, politicamente e geograficamente più legata ai Paesi d’oltralpe che non a quelli del centro Italia.
La spinta verso il rinnovamento viene frenata dalle maestranze lombarde che succedono a quelle fiorentine. Le novità vengono riassorbite nel linguaggio architettonico tradizionale ad opera di Guiniforte Solari (1429-1481) il quale completa la facciata dell’ospedale Maggiore lasciata incompiuta dal Filerete con bifore archiacute gotiche, nonché conclude con volte a crociera l’interno della certosa di Pavia.

Pavia, Certosa
Giovanni Antonio Amadeo
FACCIATA (iniziata nel 1491)

Le cose non cambiano neanche con Giovanni Antonio Amadeo (1477-1522), artista della generazione immediatamente successiva a quella del Botticelli (1445-1510), del Bramante, del Perugino (1450-1523), del Signorelli (1445 c. – 1523) e finanche di Leonardo (1452-1519). La sua linea è chiara: aggiornare la tradizione senza cambiarla; ma il risultato è un cocktail di stili camuffati dalla immancabile decorazione lombarda, che tutto stempera e tutto dissolve, anche una facciata redatta sul severo e robusto stile romanico lombardo come il prospetto della certosa di Pavia.
In scultura con i fratelli Mantegazza si suona sempre la stessa musica, anche se qua e là si sentono nuove assonanze, nuove sonorità. Nella pittura invece le cose vanno un po’ meglio.

Bergamo, accademia Carrara
Vincenzo Foppa
CROCIFISSIONE (1456)
Tempera su tavola, altezza cm. 68 – larghezza cm. 38

Il cambiamento nell’hinterland ambrosiano arriva col bresciano Vincenzo Foppa (1430-1515). Poco prima di lui però il pavese Donato de’ Bardi (notizie dal 1426 – prima del 1451), da non confondersi col quasi omonimo Donato Bardi, ovvero Donatello (1386-1466), aveva intrapreso la via delle riforme fornendo una sintesi originale fra arte fiamminga e rinascimentale. Ma la sua voce era rimasta momentaneamente inascoltata.
Il punto di partenza di Vincenzo è Gentile da Fabriano (1370 c. – 1427), ma di lui non c’è quasi più traccia nella Crocifissione del 1456. C’è invece una certa influenza umanistica derivata dalla sicura esperienza padovana in cui si è verificato l’incontro con il coetaneo Mantegna (1430 c. – 1506). Le novità in questa piccola tavola sono: innanzi tutto l’introduzione dell’arco, il quale, dichiarato antico dalla presenza dei medaglioni con i busti imperiali inseriti nei pennacchi, sembra invitare lo spettatore ad entrare nel quadro; quindi c’è la cruda realtà dei corpi dei suppliziati; e ancora, la cosa più importante, la luce. Questa entra dal rincasso prospettico formato dai due plinti e dal parapetto in primissimo piano per perdersi e riemergere da dietro le colline; di qui passa poi ad illuminare la città sul fondo, Gerusalemme, che rimane investita da un freddo bagliore argenteo e appare all’improvviso, come una città fantasma. Da questo schermo riflettente la luce scivola lungo il sentiero, fa baluginare le cime degli alberi e si ricongiunge con il fascio luminoso che penetra dall’esterno, da sinistra, come è chiaramente indicato dal verso dell’ombra portata sul pavimento di cotto dell’invito. Fra queste due fonti restano compresse le figure dei sofferenti, le quali tuttavia non risultano schiacciate, mantengono il loro aspetto di volumi modellati da quella stessa luce che li smaterializza.

Milano, chiesa di Santa Maria presso San Satiro
Bramante
INTERNO E PIANTA (1490 c.)

Nel 1483 giunge a Milano Leonardo; poco dopo arriva anche Bramante passando da Bergamo e Pavia, e le cose iniziano a mutare.
Bramante esordisce come pittore dipingendo figure di filosofi sulla facciata del palazzo del Podestà di Bergamo, quindi si ripete sulla facciata del palazzo Panigarola a Milano con l’aggiunta di uomini d’arme. Questi primi saggi, benché privati del loro effetto originario, la dicono chiara sulla concezione artistica dell’urbinate: identità assoluta fra monumentalità architettonica e figuratività eroica dell’uomo storico. Questa si configura nel possente contrapporsi fra lo spazio vuoto e concavo delle nicchie e il volume pieno e convesso della figura umana in esse contenuta. È la stessa imponente visione che trasferirà totalmente nella sua architettura, fatta di grandiosi movimenti di masse e che a Roma segnerà il sorgere della nuova arte edificatoria cinquecentesca. Dunque la sua concezione dell’uomo equivale a quella di un monumento: per questo uomo occorre una struttura adeguata alla sua misura. Ne consegue che l’architettura del Bramante è fatta si a misura d’uomo, ma di un uomo dalle proporzioni monumentali. Ma nel momento in cui si precisa, questa monumentalità non è effettiva, reale, basta che si comunichi attraverso le immagini, la virtualità. Ma non basta: una parola va detta anche sugli atti che questa umanità monumentale deve compiere. Sono atti legati, commisurati alla struttura dello spazio, il quale ha le caratteristiche proprie di quello razionale, misurabile, universale del primo Rinascimento, ma non è quello del primo Rinascimento. Insomma Bramante traspone sul piano psicologico quello che Piero della Francesca (1410 c. – 1492) aveva redatto sul piano teorico.
Nel 1480 Bramante ha la possibilità di approfondire la sua visione sperimentandola direttamente sul cantiere. La chiesa di Santa Maria presso San Satiro, sempre a Milano, è una vecchia chiesa che Donato ha l’incarico di ricostruire. La concepisce come una chiesa a croce latina anche se lo spazio non gli permette di realizzarne il coro. L’ostacolo lo aggira realizzando un coro virtuale. Se l’arte deve influire sulla psiche dell’osservatore, lo stesso effetto lo si ottiene sia che all’immagine corrisponda qualcosa di reale sia che non lo faccia. Il coro di San Satiro diventa così un perfetto saggio di trompe-l’oeil architettonico. Una profondità immaginaria, finta è dal punto di vista della funzionalità visiva, identica ad una profondità reale: è l’insegnamento di Melozzo (1438-1494).

Milano, chiesa di Santa Maria delle Grazie
Bramante
ESTERNO DELLA TRIBUNA E PIANTA (1492/1497)

Dal 1492 al 1497 Bramante può approfondire la propria esperienza su una chiesa molto più grande, la chiesa di Santa Maria delle Grazie, anche questa a Milano. Qui salda alla struttura longitudinale del corpo dell’edificio preesistente il complesso spaziale della tribuna; qui lo stacco fra i due corpi è ancor più esplicito che nel duomo del Brunelleschi.
La tribuna si presenta vista dal di fuori come un poderoso complesso di masse in movimento, rigonfie d’aria. Questa sembra premere dall’interno verso l’esterno, ma la sua pressione è contenuta dai muri perimetrali, tesi come pelli di tamburo. Al centro di queste superfici si aprono le finestre, unico punto di contatto fra spazio interno e spazio esterno. Le numerose aperture però non bastano da sole ad alleggerire l’imponente massa muraria, occorre inserire un ulteriore elemento che renda più arioso l’insieme. Questo elemento è il loggiato romanico a bifore del tiburio.

BRESCIA CENTRO DI DISSIDENZA COSTRUTTIVA

Padova, Museo Civico
Romanino
PALA DI SANTA GIUSTINA (1513)
Olio su tavola, altezza mt. 4,00 – larghezza mt. 2,62

Rientrano nel quadro storico manieristico, ma, anche in questo caso, il termine manieristi va loro stretto, i pittori lombardi operanti durante l’intero corso del Cinquecento. Per questi artefici il problema della crisi dei valori rinascimentali non si esprime partendo dai dati della storia, bensì da quelli della natura.
L’arte dell’Italia del Nord si inserisce nel quadro della politica culturale espansionistica della Serenissima su tutti i territori e le città da lei dipendenti, cioè valorizzare tutti quei caratteri che si ritengono essere propri della cultura figurativa nordica. Questi caratteri si possono individuare analizzando alcune opere dei quattro più significativi autori bresciani: il Romanino (1484 c. – 1560 c.), il Moretto (1498 c. – 1564), il Savoldo (1480 c. – 1548 c.) e il Moroni (1522–1579 c.).
Dopo che Milano è diventata una città francese il centro di maggior interesse del nord padano diviene Brescia. Il grande problema su cui i maggiori protagonisti della stagione bresciana si trovano a dibattere è la contraddizione fra cultura lombarda e cultura veneta, ma la loro importanza va al di là della semplice ricomposizione delle contraddizioni fra due versioni regionali del linguaggio rinascimentale. Nella loro opera si realizza la sintesi fra l’interpretazione dell’arte come rappresentazione dell’essere e l’interpretazione dell’arte come rappresentazione del sentire.
Il realismo che caratterizza la produzione di questi autori ha origini critiche. I termini sono noti: La ricerca di una sintesi fra le due interpretazioni che contrappongono l’arte intesa come ricerca dell’essere e l’arte come espressione del sentire. La risposta che arriva da Brescia è che le due rese si possono conciliare quando il rappresentare coincide con il vivere le cose da muti testimoni dei fatti, senza partecipazione emotiva: una tesi ripresa e approfondita, fino al superamento da parte del Caravaggio (1571-1610) alla fine del secolo.
Gerolamo Romanino nella Pala di Santa Giustina affronta lo stesso problema del Lotto (1480-1557 c.): mettere alla prova i due sistemi principali, quello prospettico e quello tonale. Nel Romanino la soluzione è quella di combinare la prospettiva illusionistica del Bramante con le larghe stesure cromatiche di Tiziano (1488 c. – 1576). Ma la luce-colore del veneto non diventa struttura; si riflette sulla superficie della materia, non si integra.

Cremona, duomo
Romanino
CRISTO CORONATO DI SPINE ED ECCE HOMO
Affresco

Quando Gerolamo affronta il tema del movimento come negli affreschi del duomo di Cremona nel 1519 e nel 1520 trova la soluzione fra l’interpretazione della storia come poesia di Tiziano e la storia come aneddotica del Lotto, nella storia come epica popolaresca: un modo molto prossimo a quello del Pordenone (1483–1539). Ma, e qui sta la sua originalità, a differenza di quest’ultimo, la sua narrativa è priva di enfasi oratoria, è più intima e colorita da toni a volte farseschi, da commedia popolare.

New York, Metropolitan Museum
Giovan Gerolamo Savoldo
SAN MATTEO E L’ANGELO (1530/1535)
Olio su tela, altezza cm. 125 c. – larghezza cm. 94 c
.

Giovan Gerolamo Savoldo trova la soluzione del problema padano nelle radici comuni alla cultura lombarda e a quella veneta. Queste radici sono la statica contemplativa del Giorgione (1477 c. – 1510), non l’impetuosità drammatica del Tiziano; la contemplazione analitica dei fiamminghi, non la narrativa espressionistica dei Tedeschi; il luminismo radente dell’ultimo Foppa, non la prospettiva bramantesca.
Per il Savoldo le cose non sono funzioni dello spazio, è lo spazio funzione delle cose, ed ogni cosa si sublima in luce. Le opere di Gian Gerolamo sono intime; i soggetti sono attentamente studiati: sceglie sempre quelli che si prestano ad essere decantati liricamente. Il Savoldo è un fine compositore di versi. Le sue opere sono poesie visive; rifuggono dalle amplificazioni oratorie e dagli effetti speciali.
Uno dei quadri che meglio esprime la sua poetica è il San Matteo e l’angelo. Rappresenta il santo mentre è intento a scrivere il suo vangelo, ispirato dall’angelo. Lo scrive in una camera buia, rischiarata unicamente dalla luce riflessa della tunica che per l’occasione si è trasformata in un grande schermo specchiante. La materia diventa luce, la luce fievole della piccola lanterna si trasforma in luce spirituale, cosicché le cose vedute diventano visione poetica.

Brescia, duomo Vecchio
Moretto
ASSUNTA (1525)
Olio su tela, altezza mt. 4,72 – larghezza mt. 3,10

Brescia, pinacoteca Tosio Martinengo
Moretto
PALA CON SAN NICOLA DA BARI (1539)
Olio su tela, altezza mt. 2,45 – larghezza mt. 1,92

Il Moretto è il punto di partenza del realismo lombardo, un realismo che fonda le sue radici non già nel bisogno di approfondire la conoscenza dell’essere, bensì nel bisogno di stare esclusivamente a quello che si vede, accettare tutta la realtà così com’è, al di là dei giudizi e delle interpretazioni personali. Un realismo dunque di tipo morale più che intellettuale, quindi un realismo di tipo nuovo, moderno; lo stesso che giungerà nella sua profondissima sostanza fino ai nostri giorni; lo stesso che produrrà Caravaggio. Un’oggettività che nasce dalla volontà di vedere e raffigurare le cose senza particolarismi minuziosi; non si cerca l’universale perché non si vuole esaltare il soggetto: anche questa è crisi dell’antropocentrismo. Le fondamenta di questo realismo le vediamo nell’Assunta del duomo Vecchio di Brescia e nella Pala con san Nicola da Bari. La prima dipende dall’Assunta dei Frari; la seconda dalla Pala Pesaro. Ma in questi due dipinti non c’è solo Tiziano. In fondo in fondo c’è anche la tradizione foppesca, come nel chiaroscuro denso e copioso. Rispetto al Tiziano la prosa si fa piana e distesa, senza trasalimenti estatici; rispetto alla tradizione foppesca il colore si espande, ma resta invischiato nel chiaroscuro, quindi si fa plumbeo, biaccoso, come se ad accenderlo ci fosse una luce artificiale.
L’amore per la verità puntuale e oggettiva trova larga applicazione nei ritratti, dove il Moretto eccelle. Tuttavia i suoi ritratti non penetrano la psicologia del soggetto come fa il Lotto, né vedono nell’individuo un momento della realtà tutta, come fa Tiziano, rappresentano il soggetto qual è. Soprattutto nelle effigi di galantuomini borghesi il Moretto ci presenta individui dalle moderate ambizioni sociali, dotati di un robusto senso positivo della realtà, uomini che fanno del lavoro e dell’onesta imprenditoria il loro credo.

Londra, National Gallery
Giovan Battista Moroni
IL SARTO (1570)
Olio su tela, altezza cm. 97 – larghezza cm. 74

Ancor più del Moretto, il suo maggior allievo Giovan Battista Moroni è uno specialista nel cogliere nei soggetti ritrattati il senso della loro moralità. Moralità borghese, vale a dire rispettabilità sociale, cioè quella sorta di contegno che sussegue, anzi è, almeno nella borghesia dell’epoca, la diretta conseguenza di un’austerità religiosa e morale.
Un esempio assai eloquente lo abbiamo in uno dei tanti ritratti civili che ci ha lasciato, come quello che raffigura un sarto. Il personaggio è ripreso al lavoro: la stoffa sul banco, le forbici in mano. Si appresta a tagliare il tessuto con la stessa serietà con cui l’intellettuale si accinge a scrivere o a riflettere; non c’è nessun atteggiamento ufficiale. Il sarto è visto per quello che è, e così si mostra agli altri; c’è la stessa onestà nella rappresentazione che nella vita fatta di lavoro.