Anversa, Museo Reale di Belle Arti – Berlino, Gemäldegalerie
Jean Fouquet
DITTICO DI MELUN (1450/1455)
Olio su tavola, altezza cm. 95 – larghezza cm. 86 (ciascuna tavola)
Il Rinascimento è inizialmente un fenomeno tutto italiano e fiammingo, anzi tutto fiorentino e di Bruges. Ma già alla metà del Quattrocento ha raggiunto le altre parti d’Europa, maggiormente Francia, Germania e Spagna. Il cambiamento arriva lentamente per opera di alcuni coraggiosi riformisti che riescono a trovare un loro linguaggio personale districandosi fra Italia e Belgio. Come per le Fiandre, il cambiamento avviene soprattutto in pittura; restano indietro architettura e scultura. In Francia c’è Jean Fouquet (1420 c. – 1481) e Enguerrand Quarton (1418 c. – 1466).
Jean Fouquet è di Tours, pittore e miniatore. Il suo stile iniziale risente della cultura figurativa continentale, fortemente influenzata da quella fiamminga, ma un viaggio in Italia, intrapreso fra il 1444 e il 1446, gli fa correggere l’indirizzo spiccatamente nordico in senso italiano. A Roma conosce l’opera di Masolino (1383-1440) e del Beato Angelico (1395 c. – 1455), ma l’incontro che determina la svolta è quello con Piero della Francesca (1410 c. – 1492) e Domenico Veneziano (1410 c. – 1461). Il suo capolavoro è il Dittico di Melun, del 1450 circa. Qui le raffinatezze lineari dei miniaturisti francesi e l’attenzione al particolare dei fiamminghi si sposano al senso del volume e alla prospettiva degli italiani. Tutta sua è l’invenzione della prospettiva curvilinea che unifica le due tavole in un solo grande spazio di chiara impostazione fiorentina.
Parigi, Museo del Louvre
Enguerrand Quarton
PIETÀ (1455 c.)
Tempera e oro su tavola, altezza mt. 1,62 larghezza mt. 2,18
Enguerrand Quarton, o Charonton, nasce a Laon e anche lui come Jean Fouquet è pittore e miniatore, anche in lui come in Jean Fouquet interagiscono componenti di origine fiamminga e italiana. Le principali caratteristiche della sua pittura, stilizzazione geometrica e luce fredda, ne tradiscono la cultura figurativa d’origine: la cultura provenzale. La sua fama è legata soprattutto alla Pietà di Villeneuve-fez-Avignon, del 1455 circa. La pala è scarna, totalmente incentrata sulla drammaticità del soggetto; le figure principali formano una piramide umana al centro della tavola, la luce è glaciale e rende di marmo i corpi dei protagonisti: Gesù Cristo è un cadavere irrigidito dal tocco della morte.
Norimberga, casa di Albrecht Dürer
ESTERNO
In Germania c’è il Dürer (1471-1528), ma non solo lui. Ci sono anche Lucas Cranach il vecchio (1472-1553), Matthias Grünewald (1470 c. – 1528) e Hans Holbein il Giovane (1497-1543). Albrecht Dürer è considerato il massimo esponente della pittura tedesca rinascimentale. È un personaggio che per molti versi ricorda Leonardo (1452-1519). Anche lui è un genio versatile: è infatti pittore, incisore, matematico e attento studioso della natura. La sua fama è dovuta oltre che alle eccezionali doti tecniche anche agli studi scientifici in campi quali la geometria, la prospettiva, l’antropometria e l’astronomia; progetta inoltre un trattato sulla pittura, ma non lo porterà mai a termine. I suoi scritti sono alla base del linguaggio scientifico tedesco, e i suoi trattati sulla prospettiva e sulle proporzioni del corpo umano fanno scuola.
Albrecht Dürer nasce a Norimberga, è il terzo dei 18 figli di Albrecht Dürer senior e Barbara. Il padre, originario dell’Ungheria, giunge tardi al matrimonio. Sposa la figlia del suo maestro, appena quindicenne, quando lui ha ormai 40 anni. Di mestiere fa l’orefice. Quando si accorge del talento del figlio, senza pensarci su due volte, lo mette al lavoro nella sua bottega. Qui non passa molto tempo che il giovane Albrecht inizia a dare segni del suo smisurato ingegno. Ha soli 13 anni e si fa l’autoritratto, il primo autoritratto certo nell’arte europea concepito come opera a sé. Il disegno, oggi conservato all’Albertina di Vienna, presenta tutte le incertezze di chi sta ancora in una fase di apprendimento (vedi il dito indice troppo lungo e lo sguardo irreale), pur tuttavia è sommamente eloquente per quanto riguarda gli sviluppi futuri. A 16 anni Albrecht dice al padre che vuole diventare pittore e il padre acconsente, anzi si attiva subito per trovargli una bottega dove metterlo a farsi le ossa. Troppo lontana Colmar, dove lavora Martin Schongauer (1448 c. – 1491), artista di levatura europea, ripiega su una bottega sotto casa dove stanno Michael Wolgemut (1434–1519) e Wilhelm Pleydenwurff (1420 c. –1472), apprezzati incisori.
Spirito curioso di tutto, arrivati i 18 anni inizia a girare il mondo. Sta fuori quattro anni, durante i quali approfondisce le proprie conoscenze tecniche e viene a contatto con la letteratura antica. Torna per sposare Agnes Frey (1475-1539), la donna scelta per lui dal padre. Sono di questo periodo le prime incisioni sperimentali, l’Autoritratto col fiore d’eringio e alcuni acquerelli, come quello che riprende un paesaggio sito a ovest di Norimberga: è questa tra le prime immagini dell’arte europea interamente dedicate al paesaggio. Stilisticamente si tratta di lavori redatti ancora alla maniera medievale, con gruppi di figure disposti uno accanto all’altro e con lo spazio realizzato empiricamente. A questa data di prospettiva il giovane Dürer non ne sa ancora niente.
Pochi mesi dopo il matrimonio Albrecht, con la scusa di seguire i consigli dei medici di lasciare i luoghi infestati dalla peste, lascia Norimberga, colpita dall’epidemia, per recarsi in Italia. Motivo? Aggiornarsi sulla nuova arte rinascimentale. Meta? Venezia.
Durante il tragitto passa per Innsbruck, e anche qui lascia alcuni acquerelli uno dei quali riprende il cortile del castello, residenza amata dall’imperatore Massimiliano I (1493-1519). Benché l’intenzione fosse quella di apprendere la divina perspectiva artificialis Albrecht viene attratto dalla pittura veneziana, in particolare da quella di Gentile (1429-1507) e Giovanni Bellini (1430 c. – 1516). Al suo rientro a Norimberga è un altro Dürer. L’effetto di questo primo approccio con l’arte veneziana si manifesta già negli acquerelli redatti durante il viaggio di ritorno. Uno fra tutti spicca: l’acquerello che raffigura l’imponente rocca che si innalza con le sue fortificazioni su una collina verdeggiante di ulivi. Qui lo spazio risulta più arieggiato e il colore più naturale, ma soprattutto, nella redazione del dipinto, appare chiara la messa in opera di una costruzione visibilmente più vicina all’impianto tonale.
Berlino, Musei di Stato
Albrecht Dürer
SACRA FAMIGLIA CON LIBELLULA (1495)
Incisione su rame, altezza cm. 24 – larghezza cm. 18,6
Madrid, Museo del Prado
Albrecht Dürer
AUTORITRATTO CON GUANTI (1498)
Olio su tavola, altezza cm. 52 – larghezza cm. 41
Contemporanee agli acquerelli sono le prime incisioni su rame. Antecedentemente alle opere di pittura Albrecht da alla luce stampe. Dopo il suo ritorno a Norimberga, mette su una propria bottega d’incisore. Tra le prime è la Sacra Famiglia con la libellula, ma l’opera con la quale assapora il successo sono la serie di xilografie dedicate all’Apocalisse.
In prossimità della fine del XV secolo arrivano anche i dipinti. Del 1498 è l’Autoritratto con guanti, ora al Prado di Madrid. All’epoca Albrecht ha all’attivo alcune pale d’altare e dei ritratti.
Il quadro presenta un Dürer elegantemente abbigliato, in posa accanto ad una finestra aperta su un paesaggio dominato da un massiccio rilievo montuoso. Alle mani porta dei guanti di pelle; ha i capelli biondi, lunghi, a boccoli, che gli ricadono morbidi sulle spalle, una corta barbetta e due baffettini da moschettiere. L’espressione è serena e sicura di chi ha il controllo di sé e dell’ambiente circostante, dunque si tratta di un’opera che rispecchia lo spirito umanistico ai più alti livelli.
Intanto egli continua a studiare la natura dal vero, ma i paesaggi ad acquerello vanno sempre più perdendo il carattere di accurata registrazione di una situazione topografica per assumere quello di un sempre più libero gioco di modulazioni cromatiche. Degli ultimi anni del Quattrocento è anche la Pala Paumgartner, la più grande pala d’altare dell’artista.
Firenze, Galleria degli Uffizi
Albrecht Dürer
ADORAZIONE DEI MAGI (1504)
Olio su tavola, altezza mt. 1,00 – larghezza mt. 1,14
Praga, Galleria Nazionale
Albrecht Dürer
LA FESTA DEL ROSARIO (1506)
Olio su tavola, altezza mt. 1,62 – larghezza mt. 1,95 circa
All’inizio del Cinquecento il Dürer è ormai famoso, soprattutto come incisore e ritrattista. Nelle opere di soggetto sacro si evincono tutte le sue riserve sulla prospettiva geometrica come mezzo di razionalizzazione dello spazio, nonché il suo avvicinamento alle poetiche neoplatoniche che lo portano a spostare l’attenzione dal dato a quello dello stile. Segue, fra un numero considerevole di stampe, la tavola con l’Adorazione dei Magi dove le riserve tardo-gotiche sono sciolte e risulta ormai convertito pienamente all’Umanesimo.
Fra il settembre e l’ottobre del 1505 Albrecht lascia nuovamente Norimberga per recarsi una seconda volta in Italia. Motivo? completare le conoscenze sulla cultura figurativa della rinascenza; anche stavolta la sua meta finale è Venezia. A Venezia soggiorna un anno e mezzo e tra le varie operette dipinge per la chiesa della comunità tedesca di San Bartolomeo, la grande pala d’altare con la festa del Rosario.
La pala va avanti a rilento, preceduta da numerosi studi; viene terminata alla fine del settembre 1506. Il senso del dipinto è semplice e diretto: si vuole ribadire il rapporto di dipendenza fra il potere temporale del papa e dell’imperatore e quello divino. La Madonna, regina celeste, siede in trono al centro della tavola, intenta a incoronare l’imperatore Massimiliano I d’Austria, mentre Gesù Bambino insieme a san Domenico pensa a distribuire ghirlande di rose agli astanti. Al margine del quadro è il patriarca, sul lato opposto è invece molto probabilmente il Fugger (1459–1525), il committente. In questo lavoro il Dürer prende posizione nei confronti della pittura tonale, ed è una posizione piena di riserve. Consegnata l’opera, nonostante il senato della Serenissima è disposto a sborsare 200 ducati l’anno per avere il Dürer fra i suoi cittadini, Albrecht riparte per Norimberga.
Al ritorno in Germania sforna una serie di stampe memorabili, fra cui Il cavaliere, La morte e il diavolo, San Girolamo nello studio e Melencolia I (1514). Intanto nel 1512 diviene pittore di corte di Massimiliano I, e dopo di lui di Carlo V (1516-1556). Alla corte di quest’ultimo sono di casa i fiamminghi, e qui subisce l’influenza di Luca da Leida (1494-1533). Le sue ultime opere sono ritratti e quadri di soggetto religioso. Qui la ricerca classica incontra la spiritualità maturata alla luce della riforma luterana.
Nel 1525 scrive un trattato di prospettiva, nel 1528 pubblica 4 libri sulle proporzioni del corpo umano. Insanabile curiosone, affamato di sapere, è irresistibilmente attratto in Zelanda per vedere di persona lo scheletro di una balena spiaggiata. Non la vedrà mai; ciò che vedrà sarà invece la propria fine. Albrecht muore di malaria il 6 aprile 1528, nella stessa città dove era nato, a poco più di un mese dal suo quarantanovesimo compleanno. Lascia la moglie con una cospicua somma in denaro (era uno dei dieci cittadini più ricchi di Norimberga) e nessun figlio.
Milano, Museo Poldi Pezzoli
Lucas Cranach il vecchio
RITRATTO DI MARTIN LUTERO (1529)
probabilmente bottega
Olio su tavola, altezza cm. 38,3 – larghezza cm. 21
Non si sa quale sia il vero nome di Lucas Cranach, detto il vecchio; quello che si sa è che Cranach deriva dalla sua città natale, Kronach, dove vede la luce nel 1472. Quando ha circa trent’anni si fa un bel tour lungo il Danubio, nel corso del quale ha l’occasione di fare la conoscenza dell’Umanesimo. In questo periodo si sente molto vicino ai due Albrecht, il Dürer e l’Altdorfer (1480 c. – 1538); la sua pittura porta già impressi i segni che ne faranno una delle più personali del Cinquecento, di levatura pari a quella dei maggiori manieristi della prima generazione. Sono elementi ricorrenti del suo stile particolarissimo i paesaggi movimentati, i dettagli e i simboli persistenti, il lirismo esacerbato, la tensione psicologica e la presenza di personaggi dall’espressione enigmatica.
Rientrato dal viaggio danubiano si stabilisce a Weimar. Qui la sua arte si fa sempre più espressamente anticlassica man mano che si abbrevia la distanza da Martin Lutero (1483–1546). Le sagome iniziano ad allungarsi, la figura umana prevale sul paesaggio e le sue forme diventano sempre più ricercate, gli abiti sempre più raffinati, fino a creare una vera e propria iconografia protestante. Memorabili sono i suoi ritratti di Lutero, come pure le sue strepitose cacce.
Nel 1505 l’elettore di Sassonia Federico il Saggio (1463–1525) lo chiama presso la sua corte a Wittenberg. In città apre una stamperia, diventa proprietario di una farmacia e viene eletto tre volte borgomastro. Nel 1909 Lucas diventa nobile. Da questo momento in poi il suo destino si lega a quello del suo signore. Dopo la sconfitta di Mühlberg, Lucas segue Federico in esilio. Resta con lui dal 1550 al 1552, poi torna a Weimar, dove Muore il 16 ottobre, alla probabile età di 81 anni.
Basilea, collezione d’arte pubblica
Matthias Grünewald
CROCIFISSIONE (1508 c.)
Olio su tavola, altezza cm. 73 – larghezza cm. 52
Grünewald non sarà certo il pittore tedesco più importante, ma è senz’altro il più visionario. Alcune sue immagini sono tranquillamente accostabili alle più sfrenate rappresentazioni surrealiste dei nostri tempi. A lui il classicismo non lo sfiora neanche, è e vuole essere anticlassico. I suoi personaggi sono l’esatto opposto degli eroi classici: sono bruttini, malaticci, indossano stracci, più che muoversi si contorcono, i loro volti sono maschere tragiche. La sua importanza sta tutta nella singolare interpretazione che da del Rinascimento nordico, un’interpretazione visionaria e fantasmagorica. Nella Germania nazista la sua arte figura fra quella degenerata, ma subito dopo viene innalzata ad una delle più grandi interpretazioni pittoriche cristiane di tutti i tempi.
Ancora oggi ci si interroga su chi fu più grande, lui o il Dürer. È difficile pensare a due artisti più lontani. È facile immaginare che ad Albrecht la pittura di Matthias facesse ribrezzo, così violenta e irrispettosa del vero, tuttavia i due maestri hanno qualcosa da condividere. Entrambi fanno leva sulla fantasia tipicamente nordica, anche se per il Dürer l’immaginazione deve passare per il filtro della conoscenza, delle regole e della buona pittura, mentre per il Grünewald deve avere libero sfogo. Questa diversa concezione della fantasia nell’arte si evince dal loro modo di dipingere: lento e meditato quello di Albrecht; rapido e frenetico, addirittura improvvisato certe volte, quello di Matthias. La differenza fra i due verte anche sul piano religioso. Entrambi credenti, Matthias evita i temi profani, Albrecht no. Benché ingaggiato spesso come ingegnere, Matthias è un poeta, mentre Albrecht ricercato pittore è uno scienziato. Grünewald non ha mai piegato la linea alle esigenze della mimesi; per lui la linea è un mezzo autonomo, legato alle necessità della comunicazione visiva. Anche il colore assume la stessa funzione, si pone al servizio dell’espressione. Ed è proprio questo modo d’intendere i mezzi linguistici che operano la fusione del valore espressivo, medievale, e di quello rappresentativo, rinascimentale, cosa che lo fa rientrare a buon diritto nell’ambito culturale del più tipico Umanesimo nordico.
Matthias Grünewald in realtà si chiama Mathis Gothart Nithart. La città che gli da i natali è Würzburg, che diverrà nota per gli affreschi del Tiepolo (1696-1770) nella residenza del vescovo-conte. La data di nascita è sconosciuta, dovrebbe essere intorno al 1580. Nota è invece, come sempre, la data della sua morte, che avviene ad Halle sul Saale, l’ultimo di agosto del 1528, quando Matthias doveva essere sui 45/50 anni. Comunque sia, Grünewald fa parte della generazione dei maestri del primo Cinquecento, come Dürer, Cranach, Altdorfer. Il cognome Grünewald con il quale è passato alla storia dell’arte è un nome del tutto arbitrario, inventato nel Seicento da Joachim von Sandrart (1606–1688), il Vasari tedesco. Non si sa chi sia stato il suo maestro, e non è certo che abbia conosciuto personalmente il Dürer, dalla cui attività incisoria trae costante ispirazione; non si sa se abbia mai visitato l’Italia.
La sua pittura, originalissima, fiorisce a partire del 1505. La prima opera di rilievo è la Crocifissione di Basilea. In questo olio appaiono già tutti gli elementi iconografici tipici del suo linguaggio: il corpo di Cristo dall’aspetto livido, tipico dei cadaveri, marezzato per via delle numerosissime ferite, le braccia stirate fino all’inverosimile, con le dita delle mani che sembrano degli sterpi, lo sfondo desolato, fatto di aride colline dai colori alcalini, i mantelli tormentati delle donne dolenti. Il colore impregnato di luce, le ombre trasparenti, lo spazio senza nessuna indicazione prospettica, ovvero gli elementi che trasformano il veduto in visione, rappresentano la poetica singolarissima del Grünewald.
Nella Crocifissione di Washington, del 1510 la vena drammatica di Mathis si accentua. Compaiono i panni sbrindellati, la croce con i bracci piegati, i piedi penduli da un corpo teso come una freccia su una balestra tirata, pronta per scoccare il suo dardo.
Colmar, Alsazia, Musée d’Unterlinden
Matthias Grünewald
ALTARE DI ISENHEIM (1512/1516)
Olio su tavola, altezza mt. 3,36 – larghezza mt. 5,89
La sua opera più famosa è l’altare della chiesa della priora di Isenheim, una complessa macchina a costituire la quale convergono pittura, scultura e architettura. L’altare è formato fondamentalmente da quattro grandi ante mobili dipinte su entrambe le facce, di due sportelli fissi e di una predella, dipinti su un’unica faccia. Descriverlo tutto sarebbe troppo lungo, ci soffermeremo quindi soltanto sul riquadro con la rappresentazione delle tentazioni di sant’Antonio. Il santo è sdraiato a terra davanti alla sua capanna distrutta dal fuoco, tormentato da mostri infernali; in primo piano c’è il demone della peste; in alto infuria la lotta fra angeli e diavoli; sul fronte un cartiglio riporta il lamento dell’antico vescovo di Alessandria, sant’Anastasio, che recita: «Dov’eri, buon Gesù, perché non accorresti a sanare le mie ferite?». Tutto ciò accade sotto lo sguardo vigile di Dio.
Nel 1519 Mathis consegna il Trittico di Aschaffenburg, dove è rappresentato il ben noto miracolo della neve. Nel riquadro centrale c’è la Madonna che sta amorosamente giocando col piccolo Gesù; porta una veste di broccato e, cosa del tutto inconsueta, cinge il collo con una pelliccia. Gli fa da nimbo l’arcobaleno, mentre Dio la incorona dal cielo. La tavola è piena di simboli mistici: dall’alveare e le api che alludono alla Chiesa e ai suoi fedeli, alle numerose erbe dalle virtù salutari, per passare alle perle e ai coralli, che hanno proprietà di scongiuro contro gli spiriti maligni.
Nel periodo in cui dipinge questa tavola viene anche incaricato di fornire pale d’altare per il duomo di Magonza. Di esse non ne rimane traccia. Segue la Crocefissione della Kunsthalle di Karlsruhe.
Nel 1526 Grünewald risulta residente a Francoforte presso un ricamatore di seta. Probabilmente il suo trasferimento è dovuto a ragioni politiche, legate in parte all’adesione al luteranesimo e in parte alla partecipazione alle rivolte contadine dilagate in molti Länder tedeschi.
Del periodo di Francoforte non si hanno dipinti. Sembra che durante tale soggiorno si dedicasse alla produzione e al commercio di saponi. Nel 1527 è ad Halle, città protestante. Qui arriva probabilmente già malato ospite di un altro ricamatore, certo Hans Plock.
Il primo settembre 1528 tre suoi amici fanno pervenire alle autorità di Halle questo laconico messaggio: «Il maestro Mathes Gothard, pittore e idraulico al vostro servizio a Halle, si è addormentato in Dio». Matthias lascia tutti i suoi beni, pochi, al suo unico figlio, nominando tutore l’amico Plock. Fra questi figurano oltre a vestiti, arnesi e altro, una crocifissione andata perduta, un’edizione di prediche di Lutero e un elenco di richieste dei contadini ribelli alle autorità.
Il luogo della sua sepoltura è ignoto.
Londra, National Gallery
Hans Holbein il Giovane
I DUE AMBASCIATORI (1533)
Olio su tavola, altezza mt. 2,06 – larghezza mt. 2,09
Hans Holbein il Giovane nasce ad Augusta, in Bavaria, muore a Londra all’età di 45/46 anni; è il più giovane dei quattro. Suo padre, pittore anch’egli, è Hans Holbein il vecchio (1465 c. – 1524). Notissimi sono i suoi dipinti, dove fa sfoggio di un impressionante realismo fotografico di chiara ispirazione fiamminga. Suoi sono il ritratto di Erasmo da Rotterdam (1466 c. – 1536), di Enrico VIII d’Inghilterra (1509-1547), e di Tommaso Moro (1477 c. – 1535), nonché la tela con i due ambasciatori.
Hans Holbein il Giovane è fra i pittori tedeschi quello che si allontana di più dallo spirito tormentato e spigoloso del manierismo nordico per sposare pienamente la causa dello sperimentalismo freddo e lenticolare antimanieristico. Tuttavia la sua fede non si mostra impenetrabile alle suggestioni del desueto. Lo si vede nei due ambasciatori, in cui inserisce nello strepitoso tromp l’oeil dell’insieme l’anamorfosi di un teschio umano.
Toledo, San Tomè
El Greco
ENTIERRO DEL CONDE DE ORGAZ (1586/1588)
Olio su tela, altezza mt. 4,80 – larghezza mt. 3,60
Che cosa sarebbe diventato il manierismo se non ci fosse stato il Barocco? A questa domanda risponde l’arte del Greco (1541-1614). El Greco è più grande di Annibale Carracci (1560-1609) di 19 anni e di Caravaggio (1571-1610) di 30; muore 5 anni dopo il primo e 4 dopo il secondo. La sua arte fiorisce in pieno clima manierista, si sviluppa durante gli anni del fenomeno Carracci e Caravaggio, si spegne poco prima del sorgere del nuovo corso dell’arte barocca. La sua pittura è intensamente religiosa, fino alla deformazione espressionistica; rappresenta il punto d’approdo di tutta una cultura tesa a considerare l’attività estetica non come mimesi ma come esistenza in atto. Il suo maestro è Tiziano (1488 c. – 1576), ma il suo temperamento raggiunge punte d’ascetismo molto vicine a quelle del Tintoretto (1518-1594), e come quest’ultimo, più di quest’ultimo, fa della pittura uno strumento d’espressione autonomo. Scopre che la visionarietà mistica non si realizza solo nel contenuto, bensì nella tecnica pittorica, concretizzando una concezione dell’arte di estrema attualità.