IL RITORNO DI LEONARDO A FIRENZE
FIRENZE DOPO LA MORTE DEL MAGNIFICO E LA CRISI DELLE COSCIENZE
L’INCONTRO DI LEONARDO CON BOTTICELLI
LA NUOVA REPUBBLICA E LA SECONDA RINASCITA
LEONARDO E MICHELANGELO: LE BATTAGLIE DI ANGHIARI E CASCINA, OVVERO DUE CONCEZIONI OPPOSTE DELLA STORIA
L’ESORDIO DI MICHELANGELO
GLI ULTIMI GIORNI DI LORENZO IL MAGNIFICO
IL CLASSICISMO COME SENTIMENTO: RAFFAELLO
RAFFAELLO E LA STORIA


IL RITORNO DI LEONARDO A FIRENZE

Londra, National Gallery
Botticelli
NATIVITÀ MISTICA (1501)
Tempera su tela, altezza cm. 108,5 – larghezza cm. 75

Il Quattrocento in molte città italiane si chiude all’insegna della crisi politica. Tra quelle che stanno messe peggio c’è senz’altro Milano, dove a porre fine al secolo ci pensa un avvenimento lacerante. Nel 1499 la città viene invasa dalle truppe di Luigi XII (1498-1515) e diventa territorio francese. Leonardo (1452-1519) e Bramante (1444-1514) che si trovano in questo periodo a lavorare nel capoluogo lombardo sono costretti a fare i bagagli e andarsene; il primo torna a Firenze, il secondo va a Roma.
Al suo rientro nella città gigliata Leonardo trova un clima molto diverso da quello che dominava all’epoca della sua dipartita: da allora erano passati circa vent’anni. La Firenze di fine secolo ha un volto completamente differente da quello degli inizi, quando dietro la spinta degli artisti rivoluzionari si era posta alla guida del rinnovamento culturale dell’intera Europa.

FIRENZE DOPO LA MORTE DEL MAGNIFICO E LA CRISI DELLE COSCIENZE

Nel 1494 anche il capoluogo toscano è sull’orlo dell’invasione francese. Carlo VIII (1483-1498), re del momento, scende in Italia e minaccia di invadere la bella Fiorenza. Ma il suo obiettivo non è la città gigliata, bensì il regno di Napoli: Firenze è solo un passaggio obbligato per raggiungere il capoluogo campano. Il timore di un’invasione però è forte. Piero de’ Medici (1472–1503), il primogenito di Lorenzo, organizza la difesa, ma senza successo. Fallita l’impresa in armi tenta, come gli aveva insegnato suo padre, la via della diplomazia, ma è ancora uno scacco. I negoziati con Carlo VIII vengono interpretati dai fiorentini come una ignominiosa resa. Così per la seconda volta Firenze caccia i Medici dalla città con l’accusa di essere nemici della patria. È il 1495.
Senza i Medici la comunità cittadina si trova a dover affrontare tutta da sola Carlo VIII e le sue truppe. Nonostante le esortazioni a non farlo il re entra in pompa magna nella città: la situazione è molto seria, Firenze rischia l’occupazione. Tuttavia la città riesce a sventare il pericolo cavandosela con il pagamento di un forte indennizzo e con la cessione momentanea di alcune città e fortezze (quest’ultima condizione prevede la riconsegna una volta portata a termine la conquista del regno di Napoli). Tramontata la minaccia francese la repubblica fiorentina si ritrova sconquassata dalle solite liti fra grandi famiglie. Urge un governo. Le redini della città vanno in mano ad un frate fanatico domenicano, fra’ Girolamo Savonarola (1452-1498), il quale predica il pentimento e il ritorno ai costumi morigerati del Medioevo.
Naturalmente il momento infausto travolge anche le arti maggiori. Il cambiamento di clima spirituale si riflette nella produzione degli artisti che si trovano a lavorare in città sul finire del secolo. Gli effetti della crisi si fanno particolarmente sentire quando si arriva a bruciare abiti da cerimonia, gioielli, libri e disegni nel cosiddetto “falò della vanità”, un gigantesco rogo appiccato in piazza della Signoria durante il Carnevale del 1496. Alcuni artisti come fra’ Bartolomeo (1472-1517), confratello del Savonarola, arrivano al punto di distruggere le loro vecchie tele, altri a rifiutarsi di dipingere quadri o scolpire scene che non siano strettamente legate a temi religiosi come la vita di Cristo, della Madonna o dei santi.
L’escalation ha termine nel 1498 quando fra’ Gerolamo viene giustiziato per eresia in piazza della Signoria.

L’INCONTRO DI LEONARDO CON BOTTICELLI

In un clima da guerra civile Leonardo ritrova il suo rivale di un tempo, Botticelli (1445-1510). Ma questi è precocemente invecchiato a causa degli avvenimenti che hanno turbato le coscienze dei fiorentini nell’ultimo quarto di secolo. Il ritorno del “genio rinascimentale” lo inasprisce, ma lui è ormai fuori dalla storia. Negli ultimi lavori ripiega su una pittura aspra e ascetica come quella dei “primitivi” (per primitivi intendendo i pittori tardo-gotici). Le ultime opere sono un vero e proprio manifesto di condanna di tutta la cultura del suo tempo. In modo particolare condanna l’idea che alla conoscenza di Dio si possa arrivare tramite l’esperienza del mondo: l’arte intesa come modo di esperire il mondo, ovvero l’arte rinascimentale, va dunque ripudiata; e a guardare la Natività Mistica non può sorgere il benché minimo dubbio sulla autenticità della sua conversione.
L’opera segue di tre anni l’esecuzione della condanna del Savonarola. Già al primo sguardo la tempera sembra riportarci indietro nel tempo. Ricompaiono improvvisamente i canoni dell’iconismo medievale che si pensava superato per sempre: la bidimensionalità spaziale, la proporzionalità simbolica e l’eccesso espressivo.
La terza dimensione ripiega sul piano schiacciando le figure; la tettoia di paglia accenna alla profondità prospettica, ma lo scorcio viene immediatamente contraddetto dal girotondo di angeli che si svolge immediatamente sopra. Infatti stando alla logica prospettica le figure poste nel ramo distale dell’ellisse, cioè quelle più in basso, dovrebbero essere più piccole di quelle collocate più avanti e invece sono della stessa dimensione, il che le fa sembrare poste sullo stesso piano. L’effetto psicologico prodotto sull’osservatore da queste incongruenze percettive è quello di uno strano senso di disorientamento a causa della colluttazione fra immagine e regole prospettiche. Approfondendo l’analisi si può notare anche la differenza dimensionale fra i pastori adoranti inginocchiati, a destra, e la Vergine, gigantesca, che si erge al centro della composizione. La stessa incongruenza prospettica si nota fra l’intera parte mediana e gli angeli che abbracciano figure di devoti nella fascia che corre alla base del dipinto, visibilmente più piccoli di quanto le regole prospettiche autorizzino a licenziare come corrette; i colori sono squillanti, le forme tormentate. Il segno botticelliano si è trasformato in tracciato contorto, il ritmo melodico si è fatto irto di asprezze, il senso di ansia spirituale provocato dalla tensione verso un’idealità indefinita si è tramutato in senso di angoscia per un ascetismo non sorretto più dalla necessaria fede. L’ansia spirituale della giovinezza è diventata ascesi con la maturità, e alla fine, con la vecchiaia, angoscia.

LA NUOVA REPUBBLICA E LA SECONDA RINASCITA

Venezia, Galleria dell’Accademia
Leonardo
BATTAGLIA DI ANGHIARI
Schizzo (1503/1504 c.)
Disegno a penna e inchiostro, altezza cm. 10,1 – larghezza cm. 14,2

Norfolk, Holkham Hall, collection Earl of Leicester
Michelangelo
BATTAGLIA DI CASCINA
Disegno attribuito ad Aristotele da Sangallo dal cartone di Michelangelo (1542)
Grisaglia su carta, altezza cm. 76 – larghezza cm. 132

Dopo l’esecuzione del Savonarola nell’urbe gigliata è di nuovo lotta. Per affrontare l’anarchia si innalza la carica di gonfaloniere a quella di capo della comunità cittadina.
Nel 1502 è eletto gonfaloniere a vita della repubblica di Firenze Pier Soderini (1450-1522), il quale s’impadronisce del potere con un mezzo colpo di stato, sostenuto e diretto dalle grandi famiglie di banchieri e commercianti della città, avversi ai Medici e ai loro fedelissimi.
Il gonfaloniere è una specie di doge che fa capo a delle magistrature collegiali che si occupano degli affari interni, esteri e di giustizia.
La nuova repubblica ha vita molto breve. Il cardinale Giovanni (1475-1521), secondogenito di Lorenzo il Magnifico, riesce a convincere Giulio II (1503-1513) a muovere contro Firenze per restituirla ai Medici. Così nel 1512 truppe spagnole della Lega Santa marciano sulla città.
La risposta della neo-repubblica è una strenua difesa; ad organizzarla c’è Niccolò Machiavelli (1469-1527). Ma la città capitola e il primo settembre dello stesso anno i Medici sono di nuovo a Firenze, al loro posto di guida, nel palazzo Medici Riccardi.
L’instaurazione della repubblica fiorentina richiama nel capoluogo oltre a Leonardo un altro artista le cui quotazioni iniziano a salire sempre di più: Michelangelo (1475-1564). Il ritorno di Leonardo viene festeggiato come un avvenimento eccezionale. Si creano addirittura file per vedere le sue meravigliose macchine inventate durante il soggiorno milanese. Michelangelo arriva l’anno dopo e s’intrattiene nella città gigliata fino al 1506, quando scenderà di nuovo a Roma chiamato da Giulio II. C’è anche Raffaello (1483-1520), che vi rimane fino al 1508, pur se instabilmente, a causa dei frequenti viaggi a Perugia e Urbino. La presenza del Sanzio in città non è cosa nuova: infatti era già stato a Firenze con il suo maestro Perugino (1450-1523), o forse con il Pinturicchio (1452 c. – 1513), quando era poco più che un ragazzo, quindi in un momento ben diverso. Insomma nella Firenze d’inizio Cinquecento c’è il meglio della cultura d’avanguardia dell’epoca, cosa che stuzzica la nuova committenza pubblica a caccia di prestigio. E il prestigio Pier Soderini lo trova architettando lo scontro fra le due “star” del momento, Leonardo e Michelangelo.
Con la morte di Lorenzo il magnifico (1492) è morta anche l’egemonia culturale dei neoplatonici. Senza più i Medici e il Savonarola nella città gigliata si torna a difendere i principi repubblicani e con essi si vuole riaffermare il valore dei suoi migliori ingegni, che rimangono senz’altro i più avanzati d’Europa.

LEONARDO E MICHELANGELO: LE BATTAGLIE DI ANGHIARI E CASCINA, OVVERO DUE CONCEZIONI OPPOSTE DELLA STORIA

Del giovane Michelangelo Buonarroti, Leonardo ne aveva già sentito parlare durante il suo breve rimpatrio nel 1495, ma mai e poi mai si sarebbe aspettato di trovarselo a fianco nella sala del Consiglio di palazzo Vecchio. È noto che Leonardo e Michelangelo si detestassero; proverbiali sono i loro battibecchi: una volta Leonardo venne insultato pubblicamente da Michelangelo.
L’anonimo Magliabecchiano racconta che un giorno trovandosi Leonardo a passare con Giovanni di Gavine da Santa Trinita, davanti a palazzo Spini, incontra un gruppo di persone che gli chiedono di commentare un passo di Dante (1265-1321). Per puro caso si trova a passare di lì anche Michelangelo. Chiamato dalle stesse persone si sente invitato da Leonardo a pronunciarsi sullo stesso passo. Ma a Michelangelo quell’invito suona come una provocazione, e allora, stizzito, gli rimbalza la richiesta con l’aggravante di pensare piuttosto alla sua impresa fallimentare di Milano, con chiaro riferimento alla mancata realizzazione del monumento equestre a Ludovico il Moro (1452-1508): una vera cattiveria, dal momento che Leonardo di quel fiasco non ne ha alcuna colpa.
Tornando ai fatti, nel 1504 la signoria incarica Michelangelo e Leonardo di affrescare due pareti del salone del Consiglio di palazzo Vecchio. I soggetti sono due battaglie vittoriose dei fiorentini: una contro i milanesi, la battaglia di Anghiari, e l’altra contro i pisani, la battaglia di Cascina. La prima si consumò ad Anghiari, per l’appunto, una località fra Arezzo e San Sepolcro, nel 1440; la seconda avvenne a Cascina, presso Pisa, nel 1364: l’episodio raffigurato, in particolare, fa riferimento a quanto accaduto il 29 luglio.
Il soggetto rappresenta un’ottima occasione per i due artisti di confrontarsi sul tema della storia. Leonardo vede la battaglia come un qualsiasi fenomeno naturale, un ciclone, una bufera che tutto travolge; una lotta cieca, furibonda, che fa avvinghiare i contendenti in un corpo a corpo dove il tutto diventa una massa informe, compatta, magmatica. Uomini e cavalli non hanno più niente di naturale, sono maschere deformate dalla violenza dello scontro; la stessa furia che è negli umani è nelle cose e nello spazio che tutto travolge. Per lui la materia non è partecipe dei nostri sentimenti, né delle nostre credenze religiose o culturali che siano; al contrario, sono i nostri sentimenti che hanno origine nella natura, sono parte integrante del movimento cosmico, generato dalle forze oscure che agiscono nelle profondità nascoste degli elementi. Il mondo è immensamente complicato perché lo si possa contenere nei sistemi dottrinali, per loro stessa natura riduttivi e schematici. L’unica cosa che può fare l’uomo, essere intelligente, è capirlo di volta in volta, risalendo alle sue leggi universali dalle cose particolari.
All’interpretazione in chiave fenomenica di Leonardo, Michelangelo oppone la sua interpretazione in chiave eroica. I fiorentini, intenti a farsi il bagno nell’Arno, sono allertati dalla tromba che li avverte dell’imminente attacco dei pisani. Dopo un primo momento di sbandamento dovuto alla situazione contingente, i compatrioti del Buonarroti trovano la forza necessaria per reagire e conquistare la vittoria: insomma una gran prova di carattere, come si direbbe oggi.
Anche in quest’opera, come in altre della fase giovanile, il richiamo più prossimo è il Signorelli (1445 c. – 1523). Questa volta però il riferimento è la Resurrezione della carne nella cappella di San Brizio del duomo di Orvieto. Al di là del significato immediato la battaglia di Michelangelo allude all’interpretazione cristiana del concetto di momento eroico. Per il cristiano si è chiamati al sacrificio nel momento in cui meno ce lo si aspetta; ed è allora che bisogna reagire al torpore della carne e mettersi in gioco. Di qui ne deriva il concetto di eroe michelangiolesco: per Michelangelo è eroe chi vincendo le debolezze della carne riesce ad affermare sé stesso sopra ogni altra cosa; solo in questo modo può avere salva l’anima. Tradotto in termini pittorici il principio spirituale è evidente nelle correnti interne che si agitano nelle viscere della materia e ne scuotono la massa per liberarla dal peso che la opprime e le infonde il moto ascensionale che la fa balzare da terra.
Insomma le Battaglie di Anghiari e di Cascina non sono solo due battaglie, sono due visioni opposte dell’uomo: per Leonardo l’uomo è, come essere spirituale, parte integrante della natura, per Michelangelo l’uomo proprio perché essere spirituale è costretto a lottare per riscattare la propria anima dai condizionamenti del corpo. Dunque dopo 100 anni, a Firenze, il conflitto fra naturalismo e umanismo non s’è ancora risolto; il dibattito fra correnti divergenti resta sempre acceso e aspro; l’unica cosa che c’è di diverso sono i protagonisti.
Ironia della sorte, queste opere con cui si apre la storia della pittura fiorentina del Cinquecento non hanno mai visto la luce. Sulla Battaglia di Anghiari circola la leggenda (per ora) che fu lo stesso Leonardo a distruggerla per avere commesso un grave errore tecnico durante la fase di fissazione del colore sulla parete (la tinta colò dalla parete a causa della temperatura insufficiente somministrata per farla cristallizzare). Solo di recente, indagini approfondite, hanno rilevato la possibile presenza in loco del preziosissimo reperto. Il cartone della Battaglia di Cascina invece è stato letteralmente fatto a pezzi: dopo aver subito un’infinità di calchi è stato diviso fra varie corti. L’unico documento da cui è possibile farsi un’idea dell’opera e che gode di un certo credito fra gli storici è la copia fatta da Aristotele da Sangallo (1481-1551 c.) nel 1542.

L’ESORDIO DI MICHELANGELO

Parigi, Museo del Louvre, gabinetto dei Disegni
Michelangelo
ASSUNZIONE IN CIELO DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA (1488/1490)
Tratto da Giotto – particolare
Disegno a penna e inchiostro, altezza cm. 31,5 – larghezza cm. 20,5

Vienna, Albertina Museum
Michelangelo
ASSUNZIONE IN CIELO DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA (1488/1490)
Tratto da Masaccio – particolare
Disegno a penna e inchiostro, altezza cm. 29 – larghezza cm. 19,7

Leonardo e Michelangelo, due artisti fra i più celebrati di tutti i tempi. Ma al di là della leggenda quel che sono veramente ce lo dice la storia. Leonardo è l’uomo più moderno del momento e Michelangelo è il nuovo astro del Rinascimento.
Michelangelo Buonarroti nasce a Caprese, un paesino nella Valle del Tevere in provincia di Arezzo, poco prima che il padre, Ludovico di Leonardo Buonarroti Simoni, un funzionario della repubblica fiorentina, finisce il suo mandato di podestà di Chiusi e Caprese.
Scaduto il comando, durato sei mesi, la famiglia Buonarroti si trasferisce a Settignano, un paesino situato sulle colline intorno a Firenze, patria di un aggraziato scultore, Desiderio da Settignano (1428 c. – 1464), e di molti artigiani del marmo. Michelangelo ancora poppante viene messo a balia da una donna figlia e moglie di scalpellini. Questo particolare verrà ricordato sempre dal genio quando scherzosamente affermerà di aver imparato a scolpire succhiando il latte.
A 13 anni disegna già come un compassato professionista. Questo fatto spinge il padre Ludovico a metterlo a bottega dai Ghirlandaio. È il Granacci (1469–1543), suo amico, a trovargli un posto nella bottega dei Bigordi, una delle più prestigiose di Firenze.
La famiglia non è entusiasta della scelta, eppure entrare in una bottega come quella dei Ghirlandaio non è affatto un cattivo affare. E poi, sempre grazie al Granacci, Michelangelo non entra come apprendista, ma già come aiuto, dunque stipendiato. Il contratto è per tre anni, per un totale di 24 fiorini. All’epoca dell’ingaggio sono in corso i lavori di decorazione della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, lavoro per il quale Giovanni Tornabuoni ha sborsato 1.100 fiorini: una bella cifra per un lavoro di affrescatura. Ma al giovane ragazzino di provincia la pittura non piace, preferisce la scultura. Michelangelo non rispetta il contratto. Sta un anno e se ne va per incompatibilità di carattere col Maestro: è solo il primo di una lunga serie di contrasti col prossimo che caratterizzeranno tutta la sua lunga vita.
A testimonianza della precoce maturità artistica ci sono alcuni disegni fatti a penna tratti da Masaccio (1401-1428) e da Giotto (1266 c. – 1337), oggi divisi fra due musei. Benché eseguiti da un ragazzo di 13 anni (o 15) esprimono nella raffigurazione dei personaggi già una grandezza eroica, una forza epica, nonché un aspetto monumentale, ma soprattutto una chiara propensione alla scultura. Le immagini sono realizzate per mezzo di un tratteggio ora più fitto ora più rado, ora incrociato con un altro, ora a seguire un’unica direzione. Questi segni suggeriscono inequivocabilmente le impronte lasciate dalla punta dello scalpello sul marmo: e ciò significa che il giovane Michelangelo disegna come se stesse scolpendo.
Abbandonati i Ghirlandaio va a scuola dal Bertoldo (1420-1490 c.). Il Bertoldo è un donatelliano che tiene corsi di scultura presso l’accademia fondata da Lorenzo il Magnifico (1449-1492), nei giardini di San Marco. In questo ambiente si studiano i marmi antichi copiandoli dal vero. L’Accademia di San Marco non è una vera e propria scuola né un’accademia. Più che altro assomiglia ad un circolo culturale dove si possono incontrare tra i più colti personaggi della Firenze di quest’epoca, dal Ficino (1433–1499) al Poliziano (1454-1494), dal Landino (1424–1498) a Pico della Mirandola (1463-1494).
Come alunno Michelangelo è poco partecipe; studia più che altro per conto suo. È di questo periodo un fauno fatto talmente bene, a imitazione della maniera antica, da essere preso per un originale ellenistico. A ricordo di tale episodio c’è un affresco di Ottavio Vannini (1585–1643), nella sala degli argenti in palazzo Pitti, che raffigura Michelangelo, ancora ragazzetto, mentre presenta il suo fauno a Lorenzo il Magnifico. Questo piccolo miracolo è solo la prima di una lunghissima serie di opere che sortiscono tutte lo stesso effetto di stupore.
Del talento di Michelangelo si viene subito a sapere in casa Medici e Lorenzo, tosto, prende con sé il giovane genio. In casa Medici Michelangelo comincia a respirare l’aria neoplatonica, e ne respira così tanta da rimanerne inebriato per tutta la vita. Ed è proprio il neoplatonismo che gli fa concepire l’arte alla stessa maniera del Pollaiolo (1431 c. – 1498), del Botticelli e di Leonardo, come furore dell’anima. Ma a differenza di Leonardo ciò che genera il furore, cioè l’ispirazione, lo stimolo che fa scattare nell’artefice la molla della creazione, non è il sentimento della natura bensì il sentimento della cultura storica, tutta la cultura e non solo quella classica. Al contrario dei suoi predecessori, e qui sta la novità, il Buonarroti interpreta la cultura non come strumento da utilizzare criticamente nella conoscenza della natura, ma come strumento di trascendenza, base per raggiungere il sublime. Nelle opere del passato non cerca una guida per sapere come sono fatte le cose, bensì i segni del distacco dalla realtà fisica, dell’alienazione.

Firenze, casa Buonarroti
Michelangelo
CENTAUROMACHIA (1490/1492)
Marmo, altezza cm. 90,5 – larghezza cm. 80

Tra i 15 e i 17 anni Michelangelo scolpisce la Centauromachia. In quest’opera i modelli culturali sono evidentissimi: ci sono i sarcofagi romani tardo-antichi, Giovanni Pisano (1250-1315), Donatello (1386-1466) e Leonardo. Si proprio lui, Leonardo. Leonardo nel 1490 ha già lasciato Firenze da un pezzo, ma il suo nome e la sua fama sono rimasti.
Il tema espressivo del rilievo è il “furor”. Nello svolgerlo Michelangelo si richiama all’Adorazione dei Magi, ma mentre là le figure sono mosse da una forza naturale, qua sono scosse dalla resistenza epica dei Lapiti; della natura non c’è traccia, ci sono solo corpi avvinghiati; il moto viene suscitato dalla maniera stessa di scolpire, tendente a far affiorare sulla superficie del marmo le forze interne alla materia. Causa di questo moto è il gesto di un dio, Apollo, che sta al centro della composizione. Lo spazio è pieno e convulso, non c’è prospettiva; le figure non si contrappongono al piano di fondo della lastra come volumi pieni a un volume vuoto, ma come materia levigata, lavorata, animata, a materia scabra, inerte, grezza. Dunque il giovane artista non dissimula l’azione dello scolpire, ma lascia che appaia in tutta la sua evidenza.
In quest’operetta giovanile è già in nuce il motivo principale della sua poetica: l’idea che il principio spirituale, la forma è rinchiusa nella lastra di marmo e che solo attraverso l’operazione di scalpellatura la si può liberare dalla materia che la imprigiona. Non è che gli altri scultori facessero diversamente, ma il fare scultura di Michelangelo differisce da quello dei suoi colleghi perché non rappresenta il mondo della natura, ma rappresenta un’esperienza esistenziale: la lotta dell’uomo per liberarsi dal peso della materia che l’opprime per raggiungere lo stato di pura spiritualità. Michelangelo esprime questo percorso etico con la trasformazione della materia informe in forma immateriale, luce.
La sua estetica è chiara, pur se inconscia, sin da adolescente: liberare la forma (l’idea) dalla sostanza (la materia). È il riflesso in arte del suo pensiero etico: liberare lo spirito dai condizionamenti del corpo. Di qui la sua poetica.
Di nuovo in questo suo modo di vedere le cose c’è che il processo è più importante del risultato. Con Michelangelo si delinea dunque la crisi del Rinascimento; ma non dell’Umanesimo; anzi con lui l’Umanesimo evolve. Solo che ora al centro dell’universo non c’è un uomo con la certezza di dominare il mondo che gli deriva dalla cultura antica e dalla fede, ma un uomo con i suoi dubbi, con la sua facoltà di capire e interpretare, un uomo con la sua umanità finita e soggetta all’errore. Tuttavia la mancanza di verità non lo riporta ad essere soggetto al volere della divinità, ma lo rende responsabile delle sue azioni di fronte alla propria coscienza.

Firenze, casa Buonarroti
Michelangelo
MADONNA DELLA SCALA
Marmo, altezza cm. 57,1 – larghezza cm. 40,5

La Madonna della Scala è compiuta negli stessi anni della Centauromachia. Qui il soggetto è contemplativo, ma il fatto che la raffigurazione s’imposti su una composizione statica invece che dinamica non cambia il modo di esprimere il “furor”. Solo che in questo caso non è descritto dai gesti quanto sentito nell’operazione stessa di liberazione dell’immagine dalla materia che la contiene. Non è l’intercettazione dei raggi visivi a delineare lo spazio cubico in cui si inserisce la Madonna col Bambino e i puttini, ma l’operazione meccanica dello scalpellare. Dunque l’immagine artistica non si realizza seguendo un tracciato prospettico lineare, bensì disponendo le cose in maniera più libera, a suggerire una volumetria più grandiosa, bisognosa di espandersi oltre i limiti che gli sono concessi dalla natura (il marmo). È questa già l’immagine eroica che ha Michelangelo della figura umana, una figura che a stento riesce ad essere contenuta nella realtà. Questa compressione è sintomo di sofferenza, sofferenza dell’uomo per le limitazioni a cui la stessa sua natura lo condanna. Ne risulta che madre e figlio si inseriscono a forza nel cubo spaziale che li contiene.
Il modello tecnico di questo saggio è esplicito: lo stiacciato donatelliano. Ma lo stiacciato donatelliano non serve a Michelangelo per disegnare lo spazio con il rilievo, bensì per dare il senso della materia distrutta per liberare l’essenza, che qui più che nella Centauromachia si precisa nel disegno, benché questo disegno sia ottenuto con lo scalpello invece che con la matita. Masse e volumi si riducono al solo profilo, ma questa riduzione degli effetti del chiaroscuro non serve a dettagliare ma a naturalizzare la realtà fisica e trasporla dalla materia allo spirito. L’opera assume così l’aspetto di una stele classica, ma la Madonna che appare sulla sua superfice non è la figura eroica dei miti greci, bensì l’icona mistica dei miti cristiani.

GLI ULTIMI GIORNI DI LORENZO IL MAGNIFICO

Firenze, Museo Nazionale del Bargello
Michelangelo
BACCO (1496/1497)
Marmo, altezza mt. 2,09 (con il piedistallo)

Nel 1494, come è stato detto all’inizio di questa nostra visita alla città gigliata tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, Carlo VIII scende in Italia; Piero de’ Medici fugge da Firenze e il palazzo di famiglia (il famoso palazzo Medici-Riccardi) viene saccheggiato; la lunga guerra contro Pisa ha asciugato le casse della signoria; il capoluogo toscano ha perso Sarzana e Pietrasanta: un disastro! Michelangelo cambia aria e va a stare un po’ dal padre, poi parte per Venezia, ma il clima umido della laguna non gli è congeniale. Fra il 1494 e il 1495 si reca a Bologna a lavorare all’arca di san Domenico. A Bologna s’impadronisce del linguaggio di Jacopo della Quercia (1374-1438) fatto di masse potenti ridotte ad una lieve ondulazione della superficie entro fermi, larghi contorni contratti. Per l’arca scolpisce tre piccole statue: un angelo e due santi, san Petronio e san Procolo. Nel 1496 Michelangelo è chiamato a Roma. Nella Città Eterna si ferma fino al 1501 a realizzare il Bacco e la celeberrima Pietà; soggetto tipicamente pagano l’uno, soggetto tipicamente cristiano l’altro.
In queste opere Michelangelo cerca la sua sintesi fra sentimento cristiano e idealismo classico: vuole fondere nella stessa statua l’eccesso di espressività della cultura formale anticlassica con l’assenza di espressività propria della sublimazione formale classica. Dunque nelle due statue romane Michelangelo ha modo di sperimentare la sua idea di classicità come equilibrio fra eccesso di sentimenti e assenza di sentimenti.
Nel Bacco, scolpito fra il 1496 e il 1497, affronta il tema del mito. La scultura ha un obiettivo preciso: trovare una continuità fra ponderazione e movimento drammatico.
Il Bacco è una statua che si rifà chiaramente all’arte classica, anche se non alla classicità di Fidia (490-432 a.C. c.) e Policleto (attivo tra il 460 e il 420 a.C.), ma a quella di Prassitele (400– 326 a.C. c.) e Lisippo (370-300 a.C. c.). Tuttavia, contrariamente a quanto avviene nei marmi classici, dove non c’è posto per il sentimento, il suo Bacco è animato dagli effluvi del vino. Ma questi non danno origine ad un movimento incontrollato delle membra, piuttosto si traducono in uno stato d’animo conteso fra il piacere e la malinconia: dunque la ponderazione formale cristiana nasce da una ponderazione del sentimento.

Roma, basilica di San Pietro
Michelangelo
PIETÀ (1498/1499)
Marmo, altezza mt. 1,74

Il tema espressivo della Pietà vaticana, la prima pietà dell’artista, non è, come farebbe supporre il nome con cui viene indicato questo gruppo marmoreo, la compassione, bensì il rimpianto. Il problema che si pone Michelangelo in quest’opera è lo stesso che nel Bacco, cioè quello della conciliazione fra forma classica e sentimento, solo che qui, all’opposto, si parte dal sentimento. I termini sono chiari: si tratta di rappresentare un tema ricco di sentimento cristiano come la pietà con parole strutturate sulla conoscenza razionale dell’essere, dunque con un linguaggio che nega il sentimento. Più in particolare, con la Pietà Michelangelo si propone di trovare il termine medio fra l’eccesso di sentimento delle interpretazioni nordiche (la pietà è un soggetto tipicamente nordico) e l’assenza di sentimento della dottrina classicista. Questo termine medio consiste nel fatto che Michelangelo non interpreta la pietà come compassione per un corpo senza vita, né tanto meno come dolore straziante di una madre per il proprio figlio morto assassinato; la interpreta invece come dispiacere per l’avverarsi di una morte annunciata. Infatti la Pietà non rappresenta un dramma, esprime l’oscillazione del sentimento fra due momenti affettivi, quello della prefigurazione della passione e quello del suo avverarsi. Come? Riconducendo all’unità due figure estratte da due momenti diversi della loro esistenza: Maria al momento della nascita di Gesù e Gesù al momento della morte. Solo in questo modo si spiega come mai la Madonna risulta essere ancora così giovane rispetto al Figlio, ormai maturo. Ipotizzando che Maria avesse 13/15 anni al momento della nascita di Cristo all’epoca della sua morte avrebbe dovuto avere 46/48 anni, e la Maria della Pietà vaticana non ha il volto di una donna di 46/48 anni, bensì di una ventenne. Non si può dunque spiegare l’anacronismo fra madre e figlio se non con il fatto che l’autore nelle due statue ha voluto riunire due momenti distinti in un arco di tempo determinato: prima e dopo la passione.
Tutto questo si configura visivamente attraverso lo scolpire stesso, L’intero gruppo è idealmente serrato in una piramide, con uno dei quattro spigoli laterali che coincide con l’asse gravitazionale dell’intera massa. Ma la corrispondenza fra figura e schema geometrico è disattesa dallo scarto delle linee disegnate dalle pieghe del manto della Madonna e dalla posizione delle membra del Figlio; le stesse curve generano anche il movimento che anima la statica composizione. Dunque Michelangelo ottiene la mobilità del gruppo marmoreo senza descriverlo fisicamente, senza che i personaggi scolpiti facciano una mossa, un gesto. La luce scorre sulla superficie; l’aria non avvolge né offusca la forma; il modellato definisce nettamente i volumi.
Alle istanze dissolutive dell’unità formale avanzata dalla ricerca vinciana, ma non solo vinciana, il giovane Michelangelo reagisce con una maggiore concisione e condensazione dei concetti; allo sfumato leonardesco il fiorentino risponde con il “troppo finito”.

Firenze, Galleria dell’Accademia
Michelangelo
DAVID (1501/1504)
Marmo, altezza mt. 4,34 (con il piedistallo)

Dopo i lavori romani Michelangelo diventa il fenomeno del momento; ogni sua opera non fa altro che suscitare sconfinata ammirazione. La sua Pietà è considerata uno straordinario pezzo di bravura, di difficile emulazione anche per gli artefici più esperti; e non è solo una questione di bellezza. In più c’è da considerare il fatto che si tratta di un capolavoro eseguito da un giovane di soli 23 anni. La stessa cosa si può dire del David che la signoria gli affida dopo aver visto la Pietà. Anche per questa statua si parla di prodigio. La magia stavolta è nel fatto che Michelangelo la ricava riciclando un blocco di marmo di Carrara nel quale Agostino di Duccio (1418–1481 c.) aveva lasciato abbozzata una gigantesca figura, forse di santo o di profeta, che doveva essere collocata all’esterno del duomo.
Il David di Michelangelo è un colosso di marmo alto più di quattro metri, che coglie l’eroe nel preciso momento in cui guarda sicuro verso il nemico, invisibile, prima di passare all’azione. Viene terminato l’8 settembre del 1504, dopo tre anni di lavoro.
L’artista sceglie di raffigurare il biblico giovinetto nell’istante di massima concentrazione e non, ad esempio, come avevano fatto prima di lui illustri maestri quali Donatello e Verrocchio (1435-1488), nell’istante in cui, dopo aver compiuto il gesto eroico, si rilassa. Il motivo, fra le tante ipotesi addotte, verosimilmente risiede nell’idea che Michelangelo vuole esprimere e cioè quella del dominio della forza attraverso il dominio della ragione.

Firenze, Galleria degli Uffizi
Michelangelo
TONDO DONI (1504 c.)
Tempera su tavola, diametro mt. 1,20

Michelangelo benché non si senta un pittore è costretto dalle necessità, di tanto in tanto, a cedere e cimentarsi in questa disciplina da lui ritenuta debole (poi cambierà idea).
Nel 1504 per Agnolo e Maddalena Doni dipinge una Sacra Famiglia in un tondo, il Tondo Doni.
Il Michelangelo pittore è un Michelangelo vicino alle istanze del Botticelli e del Verrocchio, anche se con uno stile originalissimo, caratterizzato da un fare potente e monumentale, sconosciuto a questi artisti, più anziani di lui. Il tema d’immagine è dichiarato: il succedersi delle generazioni. È un tema squisitamente neoplatonico. Lo ha affrontato poco prima anche Leonardo in un cartone destinato alla realizzazione di una pala per la chiesa della Santissima Annunziata, il cui soggetto è la Madonna insieme al Figlio e alla madre, sant’Anna.
Contrariamente a Leonardo, Michelangelo ritiene che la strada giusta per arrivare all’idea, e cioè all’arte, sia quella che colleghi per via diretta l’immagine artistica all’archetipo, senza passare per l’esperienza, anzi secondo lui bisogna rifuggire dall’esperienza se non ci si vuol perdere nell’indefinito. Occorre invece appellarsi alla propria intuizione, singola, irripetibile, soggettiva, straordinaria visione: è con Michelangelo che nasce il genio in arte. Dunque per lui l’arte non appartiene alla natura, non va ricercata puntando gli occhi verso il mondo esterno, ma appartiene al soggetto, che la trova, guardando all’interno di sé stesso. Nel corso di questa analisi “introspettiva”, l’io cerca di afferrare, di volta in volta, nella dinamica delle interpretazioni contraddittorie che finiscono per annullarsi e lasciare l’uomo solo davanti a Dio, l’attimo illuminante, l’intuizione per l’appunto, l’istante in cui l’idea si chiarisce.
In primissimo piano ad occupare l’intero tondo c’è la Madonna che fa per prendere Gesù Bambino sorretto da san Giuseppe. La Sacra Famiglia sta su un terrapieno rialzato; al di là del piano d’appoggio si affaccia san Giovannino; dietro dei giovani nudi fanno bella mostra di sé; ancor più in là s’intravede un paesaggio, lontanissimo. La Vergine e san Giuseppe sono i rappresentanti concreti, non i simboli, del mondo cristiano prima dell’avvento di Cristo, il mondo dell’Antico Testamento; il Bambinello rappresenta il nuovo mondo, il mondo dopo Cristo, quello del Nuovo Testamento; i nudi sono il mondo pagano. Il raccordo fra il mondo cristiano e quello pagano è san Giovannino.
Michelangelo vuole visualizzare dei concetti in sembianze umane, e dei concetti la raffigurazione deve avere i caratteri; deve essere un’immagine che abbia la chiarezza, la fermezza, l’inossidabilità di questi. Le forme risultano quindi determinate fin nei minimi dettagli, sono nitide, nulla si frappone fra loro e gli occhi dell’osservatore; i colori sono insensibili alle condizioni ambientali, sono puri, smaltati. La fermezza però non deve significare assenza di movimento, altrimenti il gruppo assumerebbe l’aspetto di un idolo, ma quest’ultimo non si deve neanche generare dalle azioni umane, altrimenti l’immagine non avrebbe più i caratteri del concetto, bensì quelli dell’esperienza; il movimento deve nascere dalla motilità delle superfici.
Ciò si configura a livello estetico attraverso la composizione, anche qui piramidale, ma arricchita da un moto a spirale che si svolge intorno all’asse del solido virtuale in cui è contenuto. La percezione del movimento si appunta sulla sequenza di alcune parti emergenti, come ad esempio le ginocchia e i gomiti. Sono questi i nodi da cui scatta il ritmo ascendente che anima l’insieme, pur in assenza di azioni di grandezza eroica.
Dunque già a questa data Michelangelo dimostra di essere, anche per quanto concerne il campo della pittura, sulla strada di un’arte che non sia rappresentativa di una realtà data, quanto piuttosto rappresentativa dei moti interiori dell’anima. In linea con quanto vanno affermando gli artisti neoplatonici anche per lui l’arte non è un processo di proiezione, oggettivo, razionale, uguale per tutti, ma è un processo di individuazione della forma attraverso l’esperienza personale, soggettiva del fare arte: in altri termini l’arte è la manifestazione del furore. Ma il furore, la spinta alla trascendenza, in Michelangelo non si esprime mediante pose, bensì attraverso la tecnica, il modo di scolpire o di dipingere, modo che in seguito si esprimerà anche attraverso il sistema di mettere insieme gli elementi architettonici.

IL CLASSICISMO COME SENTIMENTO: RAFFAELLO

Milano, Pinacoteca di Brera
Raffaello
SPOSALIZIO DELLA VERGINE (1504)
Pala proveniente dalla chiesa di San Francesco a Città di Castello
Olio su tavola, altezza mt. 1,70 – larghezza mt. 1,17

Quel che lega le componenti, i vocaboli di una raffigurazione è il tema fondamentale dell’arte rinascimentale. Le risposte all’alba del XVI secolo date da Leonardo e Michelangelo coinvolgono ormai tutto l’agire umano e non solo l’intelletto. Per il primo il connettivo strutturale è il sentimento della natura, quella misteriosa forza che ci spinge a ricercare le leggi che regolano il mondo, che ci induce a sentirle come parte integrante della nostra vita; per il secondo a tenere insieme le fila del discorso estetico è la volontà eroica di vincere la materia per trasformarla in idea, concetto. Lotta epica quella di Michelangelo in nome della filosofia dello spirito, ma lotta epica anche quella di Leonardo in nome della scienza, che è sempre parte dello spirito umano. Michelangelo cerca Dio in un percorso che porta a trascendere la realtà; Leonardo lo cerca in un percorso che lo porta ad approfondirla. Seguendo queste due strade Michelangelo giunge al concetto puro, astratto, Leonardo invece al fenomeno in sé, l’immagine percettiva. Tutte e due tendono a superare la forma naturale, solo che uno in direzione della pura forma, l’altro della pura luce. Apparentemente sembrerebbero due visioni diverse del mondo, ma non è così: infatti entrambe le strade portano ad uno stesso fine, la conoscenza di Dio. Due tesi divergenti fintantoché si accetta l’idea dell’impossibilità di conoscere Dio, se non dopo la morte. L’antitesi non ha senso se invece si ammette che Dio, pura astrazione, si riveli nel fenomeno, pura percezione.
Dopo mezzo secolo il dilemma è sempre lo stesso: Lippi (1406-1469) o Andrea del Castagno (1421 c. – 1457)? Stavolta però a rispondere non c’è Piero della Francesca, morto nel 1492, ma un suo epigono spirituale, il più grande di tutti: Raffaello.
Dal 1504 al 1508 Raffaello è a Firenze a dipingere madonne e fare ritratti di gentildonne. Arriva nel capoluogo toscano negli ultimi mesi del 1504, quando ha 22 anni. In città si respira ancora un forte fervore repubblicano. Benché raccomandato presso la signoria da Giovanna della Rovere (1463–1513) non è accolto dal Soderini con entusiasmo. Infatti Pier non dimentica affatto che il giovanotto è stato raccomandato dalla corte di Urbino, rea secondo lui di aver ospitato Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo e fratello di Giovanni, già cardinale.
Sa di Leonardo e di Michelangelo e di quello che vanno facendo in palazzo della Signoria. Raffaello conosce certamente i due rivali, ma non si sa quanto da vicino: d’altronde a Firenze chi non li conosceva? Dove avrebbe potuto conoscerli? Tanto l’uno quanto l’altro non sono tipi da comitiva. Leonardo ha troppo da fare con i suoi studi di fisica e ingegneria, mentre Michelangelo è un solitario, ma non per misantropia, perché non ama le discussioni accademiche, né la goliardia. A Raffaello invece piace stare in compagnia. Durante le sere d’inverno, quando lavorare diventa difficile per il freddo e per le poche ore di luce naturale a disposizione, nonché la scarsezza dell’illuminazione artificiale affidata alle torce, ci si raduna nella bottega di Baccio d’Agnolo (1462 –1543), un architetto, e qui si parla e si beve vino: chianti e vernaccia. Fra i frequentatori abituali delle “vernate” (così vengono chiamate le riunioni) c’è il Sansovino (1467-1529), il Cronaca (1457-1508), Antonio da Sangallo (1484-1546), il Granacci.
Le vernate non sono frequentate solo da artisti, ci sono anche letterati. Uno di questi Benedetto Varchi (1503-1565) riporta un episodio che vede coinvolto ancora una volta Michelangelo. Durante una discussione su un argomento molto di moda a quell’epoca, cioè su quali delle due arti figurative, la pittura e la scultura, dovesse essere considerata maggiore, chiesto il parere a Michelangelo, casualmente presente in quella occasione, risponde, col suo solito modo accidioso, che a certe domande si fa prima a rispondere col lavoro che con le chiacchiere.
A lui Raffaello deve il senso della maestà e il respiro compositivo, ignorato prima di allora.
Raffaello Sanzio, il cui cognome è Santi, trasformato in Sanzio dal suono della pronuncia latina del nome di famiglia Santius, è un enfant prodige. A 9 anni dipinge la sua prima Madonna col Bambino a casa sua, ad Urbino, dove nasce il 28 marzo. Rimane orfano a 11 anni; il padre Giovanni Santi (1440 c. – 1494) era un pittore di mediocre levatura della cerchia di Melozzo (1438–1494).
Raffaello è ritenuto l’ultimo artista classico della storia, ma più che essere interessato alla rinascita dell’arte classica è interessato a trovare una sintesi, un equilibrio fra tutte le principali interpretazioni dell’arte del proprio tempo. Il suo apprendistato lo fa nella bottega del Perugino. Quando arriva a Firenze ha appena finito di dipingere, su commissione della famiglia Albizzini, lo Sposalizio della Vergine, per la chiesa di San Francesco di Città di Castello.
In questa tavola Raffaello, appena ventunenne, dimostra già di avere una maturità classica molto più profonda e aggiornata di quella del suo maestro, che aveva dipinto una tavola di ugual soggetto per la cattedrale di Perugia qualche anno prima.
Lo schema compositivo è lo stesso. Ci sono un gruppo di persone allineate in primo piano che assistono al matrimonio di san Giuseppe con Maria, in un vasto spiazzo lastricato, al centro del quale si erge un tempio rotondo. In tutte e due le pale, il tempio allude alla Chiesa, ma mentre nel Perugino è sfondo prospettico, in Raffaello è il nucleo intorno a cui si organizza lo spazio della rappresentazione. Al centro della scena c’è il sacerdote nell’atto di unire in matrimonio Giuseppe e Maria, ai lati gli invitati si distribuiscono secondo due ali. Ma mentre nella tavola del Perugino queste si dispongono parallelamente al quadro prospettico, rispettando l’organizzazione tradizionale dello spazio figurativo, nella tavola di Raffaello le figure si dispongono secondo una doppia curva semilunata, concava nei personaggi che stanno al di qua degli sposi, convessa in quelli che stanno al di là. Quindi mentre nel Perugino lo spazio è ancora pensato per piani paralleli e il quadro è una sezione della piramide prospettica, in Raffaello lo spazio è pensato per piani convessi e il piano del dipinto è un elemento che entra nello spazio ambiente e allo stesso tempo lo accoglie.
L’importanza di questo saggio giovanile sta nella sintesi fra organismo longitudinale e organismo centrale del tempietto di fondo, ma, al di là di essa, più in generale, nella sintesi fra prospettiva geometrica, piana, e prospettiva empirica, tonda. Ma non solo. C’è formulata in chiari termini quella che è la nuova concezione cinquecentesca dello spazio, la stessa a cui sta lavorando Bramante; uno spazio pluridirezionale, che non si misura con riga e squadra, ma con gli occhi. Inoltre come pittore supera la concezione di luce specchiante in favore di una luce che circola nello spazio, una luce che avvolge le cose sfumandone i contorni e armonizzandone i colori.

Firenze, palazzo Pitti, Galleria Palatina
Raffaello
RITRATTO DI MADDALENA STROZZI (1506/1507 c.)
Olio su tavola, altezza cm. 65 – larghezza cm. 45,8

Nel 1506 Raffaello esegue i ritratti dei coniugi Doni, gli stessi per cui Michelangelo aveva dipinto appena due anni prima (o tre) il Tondo Doni.
Nel Ritratto di Maddalena Strozzi, moglie di Agnolo Doni, appare evidente che Raffaello nell’eseguirlo ha in mente la Gioconda, ma la somiglianza è solo nell’impostazione. Infatti tutto quello che nell’opera di Leonardo si fonde qui si distingue e precisa nettamente. Nella Gioconda la forma si dissolve nella luce, nella Maddalena la luce si condensa nella forma; nella Gioconda il paesaggio che si stende dietro le sue spalle è montano, spigoloso e sfuma fra le dense nebbie che scendono dalle cime per accumularsi nella valle; nella Maddalena Doni il paesaggio è collinare, pingue, l’orizzonte è ampio ed ogni elemento rimane definito pur se distante. Nell’opera di Leonardo fra figura, in primissimo piano, e sfondo non c’è alcun termine medio che rende possibile la misurazione ottica dello spazio; nella Maddalena Doni invece tra figura e sfondo Raffaello ci mette l’alberello di mezzo. Per quanto riguarda il colore, in Leonardo si riescono appena a distinguere i toni più caldi e più freddi dalla uniformità bruna a cui è ricondotta tutta la gamma cromatica naturale; in Raffaello invece sono brillanti come smalti: i velluti e i rasi sono materia che fissa la luce e la restituisce sotto forma di tinta ben precisa. Questa non è, come in Leonardo, più il fenomeno fisico che investe le cose e si riflette nell’atmosfera facendone vibrare le superfici, ma è l’elemento che si distende sulla loro superficie per plasmarne il volume. Infine se per Leonardo il connettivo fra figure e spazio, fra essere e mondo è fisico, è l’atmosfera che riconduce tutto alla vibrazione luminosa, per Raffaello il connettivo è metafisico, ma non sta più nelle linee della struttura prospettica, bensì è misura proporzionale, equilibrio fra volumi e spazio, assonanze di forme libere, sentite più che rappresentate.

Firenze,Galleria degli Uffizi
Raffaello
MADONNA DEL CARDELLINO (1507 c.)
Olio su tavola, altezza cm. 107 – larghezza cm. 77,2

Numerose sono le madonne dipinte da Raffaello. Una delle prime è la Madonna del Granduca; è del 1504. È detta del Granduca perché acquistata dal Granduca Ferdinando III (1769–1824) nel 1799, il quale ne era talmente innamorato da portarsela con sé anche durante i viaggi.
Un’altra celeberrima Madonna è la cosiddetta Belle Jardinière, del Louvre: praticamente una Madonna col Bambino colti in “plein air”.
La Madonna del cardellino viene eseguita in occasione delle nozze dell’amico Lorenzo Nasi. Quarant’anni dopo va persa sotto le macerie di casa Nasi, crollata per lo smottamento del terreno, frantumandosi in diciassette pezzi. Il figlio di Lorenzo, Giovanni Battista, la recupera e la restaura ricucendo i frammenti uno ad uno.
Questa Madonna fu definita dal Goncourt la più bella Vergine fra tutte le Vergini. La cosa che la rende estremamente preziosa dal punto di vista storico artistico, come del resto tutte le altre madonne dello stesso periodo, è che in questa immagine finalizzata al culto, in sostanza un’icona, Raffaello raggiunge il massimo grado di umanizzazione mai toccato nelle immagini sacre. Non solo, ma nelle madonne gigliate Raffaello dimostra di aver colto lo spirito fiorentino della costruzione razionale dello spazio senza dover ricorrere per esprimerlo alle misure geometriche e matematiche dell’arte fiorentina: una vera e propria liberazione.
Dal punto di vista compositivo c’è senz’altro una novità assoluta per quanto riguarda la concezione dello spazio. Qui è ancora più evidente la nuova idea di struttura fatta di piani concavi e convessi: come dire in natura nulla è superficie piana, tutto è superficie curva. È ancora l’intuizione bramantesca, ma meno rigida, più pittorica, più spontanea, ancor più cinquecentesca.
Raffaello più che dalla natura assorbe da tutto l’ambiente culturale che lo circonda, come farebbe un manierista; ma manierista egli certo non è, perché quello che assimila traduce tutto in uno stile personalissimo, istintivamente, senza tormento, tanto che ogni influsso si ritrova trasformato in qualcosa di assolutamente inedito e unitario.

Roma, Galleria Borghese
Raffaello
DAMA DEL LIOCORNO (1505/1507)
Olio su tela applicata su tavola, altezza cm. 67 – larghezza cm. 56

L’ultimo quadro del periodo fiorentino è la cosiddetta Dama del liocorno, dallo stupendo abito intonato tutto sui finissimi accostamenti cromatici grigio-bruni. La cosa più incredibile che riguarda questo capolavoro è che l’immagine di Raffaello fu cancellata da un’altra immagine dipinta sopra, non si sa quando, forse da Ridolfo del Ghirlandaio (1483–1561), che rappresentava santa Caterina. La sua “resurrezione” fu merito dell’intuito del Longhi (1890–1970), il quale nel 1927 analizzò l’opera.
Poco si sa su chi sia la ritrattata, ma è senz’altro la stessa che si ritrova in un disegno conservato al Louvre, in cui si evince chiaramente lo studio della Gioconda.
Che significa il liocorno?
Il liocorno è simbolo di castità: e casta doveva essere sicuramente la bella dama.

RAFFAELLO E LA STORIA

Roma, Galleria Borghese
Raffaello
SEPOLTURA DI CRISTO (1507)
Pala proveniente dalla chiesa di San Pietro a Prato a Perugia
Olio su tavola, altezza mt. 1,76 – larghezza mt. 1,76

Nella Sepoltura di Cristo, del 1507, Raffaello affronta il soggetto storico. L’episodio è arcinoto: si tratta del trasferimento del corpo esanime del Redentore dalla croce al sepolcro.
In un primo momento Raffaello lo concepisce come un compianto, poi lo trasforma in un trasporto alla tomba. Dunque nella prima versione Raffaello ha a che fare con una rappresentazione statica, mentre nella seconda ha a che fare con una narrazione dinamica; dalla rappresentazione sacra si passa alla storia, da un’immagine da contemplare ad un’immagine ricca di pathos. Ma benché la tematica lasci ampio spazio all’interpretazione drammatica Raffaello non si fa tentare minimamente dalla pateticità del soggetto e nel quadro l’espressione non si fa concitata né viene meno l’equilibrio dell’insieme.
In primo piano c’è il corpo di Cristo privo di vita, sorretto da due portatori; in secondo piano, sulla destra spicca il gruppo, tutto al femminile, con lo svenimento di Maria: quindi due quadri in uno. Ma lo sdoppiamento non danneggia l’unità dell’insieme, perché, sapientemente, Raffaello collega i due distinti episodi con il grande portatore di destra.
Il riferimento prossimo anche in quest’opera è dichiarato: Michelangelo. Il corpo di Cristo infatti richiama molto da vicino il Cristo della Pietà Vaticana, mentre la figura della donna che, in ginocchio, sorregge Maria è la copia della Madonna della Sacra Famiglia del Tondo Doni.
Leonardo qui non c’è, se non qualcosa nel paesaggio di fondo, fatto di montagne che sfumano nell’atmosfera azzurrina del cielo e nei volti dei personaggi che fanno da corona a quello di Cristo: in questi volti ci sono chiaramente espressi gradi diversi del dolore umano.
La scarsa presenza di Leonardo è giustificata probabilmente dal fatto che nella rappresentazione del dramma Michelangelo gli sembra una guida più adatta. Ciononostante non condivide né con l’uno né con l’altro l’idea del furore come principio di animazione dell’immagine storica. La concitazione drammatica per lui non deve mutare la forma, la quale ha l’obbligo di rimanere sempre chiara e inalterata: in altri termini il pathos non deve contagiare il bello. Dunque il dramma si ricompone nella rappresentazione artistica; in essa la storia trova la sua catarsi. Questo pensiero collega il giovane Maestro direttamente alla poetica di Aristotele (383 c. – 322 a.C.) per cui l’arte figurativa, come la poesia, ha il compito di generalizzare, trasporre il molteplice e il contingente nell’universale ed eterno: vale a dire passare dalla sensazione al dato essenziale. Però il compito dell’arte non si ferma a questo processo di concettualizzazione (altrimenti non sarebbe arte, ma scienza); suo compito specifico è rilevare nell’ambito del processo stesso i segni del bello, e questi sono l’unità, la proporzione, l’ordine.