LA RAPPRESENTAZIONE DEI SENTIMENTI
IL NEOPLATONISMO FICINIANO
CONSEGUENZE DEL NEOPLATONISMO: L’ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA TRASCENDENZA
L’ARTE COME SUPERAMENTO DELL’EROICO RINASCIMENTALE: BOTTICELLI
BOTTICELLI E LEONARDO
METAFISICA BOTTICELLIANA E RELAZIONE CON IL NEOPLATONISMO
CONSEGUENZE DELLA POETICA BOTTICELLIANA
L’ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA FANTASIA
L’ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA NOSTALGIA DEL PASSATO
IL SOGGETTO STORICO MODERNO
LEONARDO DA VINCI: PENSIERO ARTISTICO
RELAZIONE DELL’IMPOSTAZIONE LEONARDESCA CON LE ALTRE IMPOSTAZIONI E CONSEGUENZE SULLE IDEE DELLA METÀ DEL SECOLO
RELAZIONE FRA ARTE E SCIENZA
CONSEGUENZE DEL METODO LEONARDESCO
RELAZIONE TRA LEONARDO E I CONTEMPORANEI
RAPPORTO CON LA METAFISICA NEOPLATONICA
RAPPORTO CON LA CONCEZIONE NEOPLATONICA DELL’UOMO
LA RAPPRESENTAZIONE DEI SENTIMENTI
Firenze, Galleria degli Uffizi
Botticelli
GIUDITTA (1470 c.)
Tempera su tavola, altezza cm. 31 – larghezza cm. 24
Nel 1469 alla morte di Piero il gottoso (1416-1469) i figli, Lorenzo (1449-1492) e Giuliano (1453- 1478), divengono “principi dello stato”: è la fine di fatto della repubblica fiorentina e l’instaurazione di fatto della signoria dei Medici.
Lorenzo non è un uomo d’affari come suo nonno (Cosimo il vecchio), è un intellettuale e un politico; non accumula denaro, lo spende; è un ambizioso, cosa che il nonno non era, almeno in campo politico. Questa “debolezza” suscita invidie e risentimenti, a Firenze e fuori Firenze. Quando si mette al timone della famiglia ha solo vent’anni, e pure a vent’anni si sposa. Sposa Clarice Orsini (1453-1488) che ne ha diciassette. Il matrimonio è un matrimonio politico: mira ad evitare discordie interne e a creare solidi legami con Roma. È artista egli stesso: scrive poesie. Con lui comandante in capo la città gigliata diventa la capitale europea della cultura quattrocentesca. Grande collezionista di opere d’arte, organizza scuole e stimola la produzione d’avanguardia.
Dopo l’ultimo Lippi (1406-1469), il Pollaiolo (1431 c. – 1498) e il Verrocchio (1435-1488) l’argomento all’ordine del giorno nella Firenze della seconda metà del Quattrocento è il sentimento e la sua rappresentazione attraverso il movimento naturale, il principale elemento linguistico impiegato nella determinazione dello spazio figurativo.
Rappresentare gli stati d’animo nel Rinascimento significa esprimere un qualcosa di astratto che forma non ha con un qualcosa di concreto che invece una forma ce l’ha, come la figura umana, ad esempio: il tema principale di rappresentazione è dunque l’animazione della figura umana. I caratteri stilistici sono inequivocabili: alla fissità luminosa, alla stabilità e alla uniformità della luce si preferisce la mobilità chiaroscurale, la vibrazione atmosferica; alla condensazione della luce l’effusione, alla circoscrizione della forma plastica l’indeterminatezza. All’arte non si giunge con la ragione o con la cultura storica, e nemmeno con il mestiere, ma sperimentando la propria intuizione, il proprio sentire, la propria sensibilità, la propria immaginazione, o il travaglio del proprio lavoro.
Importanti sono le conseguenze sul piano concettuale del nuovo indirizzo. Per il Lippi il principio agente è il sentimento della natura; per il Pollaiolo è il furore di chi vuole capire il mondo attraverso la propria personale esperienza; per il Verrocchio è la sottile dialettica psicologica. In qualunque modo stiano i fatti, comunque una cosa è assodata: l’arte non è più rappresentazione del mondo nella sua triplice veste naturale, umana e divina, ma è espressione del modo di essere dell’uomo nel mondo; la natura non è più il piano della rivelazione e l’opera d’arte non è più la proiezione di una realtà data come oggetto, è il piano su cui si riflette l’agire umano e l’opera d’arte diventa la sua espressione: il che vuol dire che l’arte diventa espressione della personalità umana, e questa può essere fatta in molti modi diversi.
Il nuovo argomento di confronto che impegna gli artisti ai massimi livelli diventa quindi la rappresentazione della personalità. Ogni artista ha la sua idea a riguardo, più o meno profonda e interessante, ma tutte ugualmente degne di considerazione. Ad esempio l’uomo del Botticelli (1445-1510) ha una personalità tendente alla trascendenza, al superamento delle regole matematiche e storiche per la liberazione del principio spirituale dal condizionamento materiale; l’uomo di Leonardo (1452-1519) invece ha una personalità fatta di curiosità per il mondo esterno di cui intende carpirne i segreti; anche l’uomo di Michelangelo (1475-1564) aspira a liberare il proprio spirito dalla materia e ciò fa di lui un titano che lotta per la salvezza eterna.
Ad alimentare il dibattito artistico ci si mette anche la speculazione filosofica. È di questi anni la filosofia neoplatonica di Marsilio Ficino (1433–1499). Il neoplatonismo nasce con l’intento di conciliare immanentismo umanistico con trascendentalismo cristiano, cioè si prefigge l’obiettivo di definire un umanesimo religioso. Ma i risultati in arte approdano a tutt’altre mete. Con il neoplatonismo l’idealismo classico diventa una nuova forma di trascendenza; col neoplatonismo la trascendenza torna a prevalere sull’immanenza, lo spiritualismo sul realismo. Questa filosofia estetizzante indica nell’ispirazione il principio attivo dell’arte. Per il neoplatonismo del Ficino l’impulso che porta a vedere l’arte in un momento di particolare eccitazione soggettiva è il “furore”.
Rispetto al pensiero platonico quello neoplatonico ha, riguardo all’argomento estetico, una sola grande differenza: la forma archetipa appartenente al piano ideale della natura non è niente di geometricamente definito e regolare; non è pertanto oggetto di rivelazione, ma di ricerca. Non viene più pensata come una forma che si riflette nella mente dell’artista, non ci sono più i raggi visuali a collegare la forma ideale alla mente umana; forma artistica e forma ideale non si specchiano più l’una nell’altra. Ricercare la forma artistica equivale sempre a ricercare la forma ideale della natura, ma per individuarla gli strumenti adottati fino a questo momento, vale a dire la cultura storica, la ragione, la fede, non sono più sufficienti, ne occorrono di nuovi, quali la ricerca sperimentale, l’intuizione, la pratica mistica, tutti fondati sull’esperienza diretta dell’artefice nell’ambito del proprio lavoro specifico. In sostanza il neoplatonismo recupera la componente spiritualistica e religiosa a discapito di quella razionale e laica che si era andata diffondendo nella cultura rinascimentale del primo Quattrocento.
Col neoplatonismo ficiniano si impone un nuovo tipo di bello, non più impostato su storia e ragione, tanto meno sull’esperienza visiva, ma sul sentimento. Questa piccola variazione nella concezione dell’arte rinascimentale introduce un nuovo principio nel campo dell’estetica umanistica, l’arbitrio personale. Se l’arte è fondata sul sentimento non ha più senso guardare al passato come ad un dogma: a partire da questo momento l’arte non è più nell’arte stessa, ma nell’arbitrio dell’artista.
Il neoplatonismo fotografa quella che è ormai la situazione culturale della Firenze della metà del Quattrocento: l’affermazione della libertà dell’artista di fronte all’autorità degli Antichi.
La forma che s’intravede, come per incanto, durante un attacco di furore è una forma vaga, indeterminata, che trae la sua origine dalla geometria, ma che geometria non è. L’artista neoplatonico non imita la natura, né dimostra teoremi razionali; compie un’esperienza operativa legata ad un percorso interiore, che può essere di trascendenza mistica, come nel Botticelli, o di purificazione spirituale come in Michelangelo. Ma anche l’approfondimento conoscitivo può essere considerato un percorso neoplatonico se porta all’indefinito: questo è esattamente ciò che pensa Leonardo. L’arte dunque con il neoplatonismo passa dal piano rappresentativo della realtà a quello rappresentativo di un percorso interiore.
CONSEGUENZE DEL NEOPLATONISMO: L’ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA TRASCENDENZA
Svincolatasi dai legami che la tenevano unita al piano ideale della natura, quella artistica diventa una forma da definire. Le proposte avanzate sono tante, ma tutte sembrano indicare due soluzioni opposte: o resta indeterminata o viene imposta alla materia dall’artista. Dunque l’arte o resta un mistero occulto o deve sottomettersi alla volontà del soggetto e a come lui vede l’armonia fra gli elementi strutturali delle immagini delle cose: è il superamento della mimesi e quindi la crisi della rinascita dell’arte classica.
Il neoplatonismo domina nell’accademia che si tiene presso i Medici, con sede nella loro villa di Careggi, vicino Firenze. Al suo interno, o comunque nella cerchia neoplatonica, si formano artisti come Botticelli, Leonardo e Michelangelo.
Accantonata l’interpretazione del perfetto equilibrio matematicamente rilevabile fra figura umana e spazio ambiente, resta aperto il fronte della conquista dello spazio da parte dell’uomo. Ma questa conquista non avviene più come prima per opera della consapevolezza etica che causa il gesto storico; ora è il sentimento, la forza profonda e oscura che spinge l’uomo alla conquista del mondo. Dunque la nuova tematica si concentra sul tipo di sentimento che genera il movimento fisico. L’argomento dominante sul piano stilistico è invece ancora la definizione dello spazio attraverso la luce.
La luce si sa è mobile; per definire uno spazio razionale deve essere una luce teorica o una luce naturale, ma diffusa, intelligente, oppure ancora una luce che scivola sulla superficie delle cose, o penetra senza fermarsi e creare contrasti. Sembra impossibile però definire lo spazio con una luce mobile, una luce che si riflette invece che fissarsi, che si frange invece che cristallizzarsi nelle forme, così come sembra impossibile definire lo spazio con la mobilità propria dell’uomo, a meno che non si rinunci all’idea dell’uomo eroe, cosciente del proprio agire nel mondo.
Il contenuto problematico delle prime opere riguarda la due opposte interpretazioni, naturalistica e storicistica, della sorgente del moto nell’immagine artistica formulate dal Lippi e da Andrea del Castagno (1421 c. – 1457). Il Botticelli, l’artista che forse meglio di chiunque altro impersona lo spirito neoplatonico, non tenta la strada del compromesso; intende trovare qualcosa che superi entrambe le posizioni. Questo qualcosa è il considerare l’arte come attività a prescindere dalla rappresentazione della realtà tanto naturale quanto storica, l’idea di Sandro è l’arte come trascendenza. Insomma, in altre parole, Botticelli parte dal contrasto fra il Lippi e Andrea del Castagno, vale a dire fra arte come processo fondato sull’esperienza o arte come processo fondato sulla cultura, ma non lo affronta facendo una scelta fra l’una o l’altra posizione; cerca invece di superare entrambe le posizioni antitetiche pensando all’arte come ad un processo di trascendenza tanto dell’esperienza quanto della cultura.
L’arte come trascendenza non è affatto un’idea nuova, nuova è però l’immagine che il Botticelli dà alla realtà rivelata dalla luce: forme fluttuanti, prive di peso, diafane, malinconiche, sospese fra essere e non essere. Origine di questo nuovo simulacro è l’arbitrio, proprio dell’attività creativa. Come la ragione anche l’immaginazione è un dono di Dio; dono fatto da Dio agli uomini affinché attraverso l’immaginazione possano uscire dai limiti che gli sono imposti dallo stato di natura e raggiungere l’idea. Questa, come vuole la filosofia neoplatonica, non si identificava in niente di certo, niente di concreto, ma è il limite vago a cui tendere nella continua ricerca di valori estetici. La trascendenza botticelliana si enuncia già nei primi saggi. Nella Giuditta degli Uffizi e nel San Sebastiano del Museo di Stato di Berlino si inizia a configurare la linea botticelliana come elemento costruttivo fondamentale del componimento neoplatonico.
Nella Giuditta del 1470 il soggetto è il celebre episodio raccontato nella Bibbia, ma il tema espressivo è il sentimento come movente dell’animazione dello spazio figurativo.
Quando si parla di sentimento il riferimento d’obbligo è il Lippi. Ma diversamente da Filippo in Sandro si dovrebbe parlare, più che di presenza, di assenza di un vero e proprio sentimento. Ciò che traspare dal volto e dal fatuo incedere dell’eroina e della sua ancella è non si sa bene cosa. Si sa per certo, invece, cosa non è. Non è la fierezza dell’eroe sicuro di aver agito in nome del bene, né il turbamento dell’individuo che segue il momento di concitazione dell’atto di violenza. È uno stare vagamente al di là dei sentimenti umani, è l’incarnazione del senso di vuoto che segue il successo, lo stato d’animo oscillante fra rimpianto del passato e attesa del futuro di chi ha vissuto un’esperienza eroica.
L’ARTE COME SUPERAMENTO DELL’EROICO RINASCIMENTALE: BOTTICELLI
Berlino, Musei di stato
Botticelli
SAN SEBASTIANO (1473, ma secondo altri 1474)
Tavola, altezza cm. 195 – larghezza cm. 75
New York, Metropolitan Museum of Art
Andrea del Castagno
SAN SEBASTIANO (seconda metà del XV secolo)
Tavola, altezza cm. 136,5 – larghezza cm. 58,4
Sul soggetto eroico Sandro torna nel suo San Sebastiano, e questa volta si misura con Andrea del Castagno e il suo San Sebastiano (Oggi attribuito a Francesco Botticini (1446-1498))
Il San Sebastiano è un soggetto molto frequente. Viene di solito rappresentato come un giovane legato ad un tronco, trafitto da un numero alquanto variabile di frecce. È senz’altro una figura eroica, dunque un ottimo soggetto per esprimere la propria idea di eroicità.
Sandro lo presenta come una figura sottile, allungata, letteralmente sospesa a mezz’aria, quasi non avesse peso, modellata da una luce molto tenue, diffusa, che dall’ambiente trapassa nel quadro attraverso la superficie del dipinto. Mentre si riversa nello spazio virtuale mette in evidenza i lievi risalti del gracile corpo del santo, poi si spande nel paesaggio fino all’orizzonte. Qui forma un bagliore che si riverbera sul primo piano producendo un effetto di schiacciamento volumetrico. Ne consegue, come sempre, un’accentuazione della linea di contorno per isolare e definire il singolo personaggio. Il san Sebastiano del Botticelli non è il ritratto dell’eroe che accetta il martirio col coraggio di chi ha la certezza che il suo sacrificio fa parte di un disegno divino, quanto piuttosto il ritratto di un bel giovane malinconico. Una malinconia dovuta forse agli uomini che lo hanno appena trafitto i quali si sono resi responsabili non tanto di un crimine contro la giustizia quanto contro la bellezza. Il corpo è perfettamente ponderato, spalle e ginocchia si corrispondono in pieno rispetto del chiasma classico. Quello che esce fuori dal canone aureo è il rapporto fra l’altezza della testa e l’altezza dell’intero corpo che non corrisponde più perfettamente al rapporto aureo di 1: 8.
Dunque la bellezza è qualcosa di inafferrabile; non si può definire razionalmente, la si può solo sentire, cogliere nel morbido fluire della linea che contorna il fisico del martire e nel movimento ritmico delle pieghe del panno che gli cinge il bacino. Nel San Sebastiano non è un concetto ad essere espresso, bensì un sentimento, e la trascendenza botticelliana si identifica con una forma, un movimento, un colore e una luce inafferrabili.
Firenze, Galleria degli Uffizi
Botticelli
PRIMAVERA (1478, ma la datazione è controversa)
Tempera su tavola, altezza mt. 2,03 – larghezza mt. 3,14
Uno dei più celebri dipinti dell’intera storia dell’arte è la Primavera. In molti si sono chiesti quale sia il vero significato dell’opera, ma questo sfugge, o meglio varia a seconda dei diversi livelli di comprensione. Tuttavia tale inconveniente non compromette affatto l’apprezzamento della tavola, così come accade per una canzone per cui l’apprezzamento della musica non viene sminuito se non si conoscono le parole. Il successo che ancora oggi accompagna tale capolavoro indipendentemente dalla conoscenza del suo contenuto confermerebbe la suddetta affermazione.
La bellezza della Primavera infatti non dipende da quello che dice, ma da quello che trasmette a livello di sensazioni estetiche. Ignorarne il contenuto, qualsiasi esso sia, non impedisce di cogliere il bello nell’armonioso fluire delle linee, nell’accordo finissimo dei colori, nella musicalità della composizione, nello stiramento dei corpi e nella sensazione di fresca iniziazione che deriva dalla percezione del tappeto verde fiorito che si stende ai piedi delle figure.
Forme e colori non spiegano né la realtà naturale né quella umana; al contrario, deformano arbitrariamente l’immagine sperimentale del mondo in funzione di un codice noto solo all’artista. Con ciò entrano in crisi tutti gli elementi strutturali positivi attraverso cui veniva redatta l’immagine artistica nella prima metà del Quattrocento. Al Botticelli non interessa più la prospettiva perché dà la struttura razionale dello spazio, né la luce naturale perché rivela la realtà fisica delle cose, né la massa e il volume in quanto danno la concretezza fisica degli elementi naturali.
Nella Primavera il fondo è estremamente ravvicinato ed è costituito da una quinta di alberi (di pomi d’oro, forse aranci) allineati, tutti alti uguali, verticali, disposti coi tronchi paralleli che non fanno assolutamente prospettiva, così come non fa prospettiva il prato. La forma pur richiamando la geometria deborda dalla sua regolarità; i colori sono esangui e trasparenti; il volume si è svuotato del suo contenuto di materia. La linea non è più un mezzo descrittivo, ma un mezzo espressivo di un ritmo musicale. Botticelli non vuole la razionalità, vuole che ci si perda nel quadro, vuole che sia percepito come si percepisce la musica, per sé, pura musicalità, fatta di linee e colori, non di note.
L’arte dunque per il Botticelli non deve tanto rappresentare qualcosa quanto piuttosto manifestare il risultato di un percorso interiore, dal naturale allo spirituale, e la spiritualità per Sandro sta nell’inafferrabilità della situazione raffigurata.
Firenze, Galleria degli Uffizi
Botticelli
NASCITA DI VENERE (1485 c.)
Tempera su tavola, altezza mt. 1,73 – larghezza mt. 2,79
L’altro celebre capolavoro del Botticelli è la Nascita di Venere. Viene dipinto intorno al 1485, dopo la breve esperienza romana nella cappella Sistina. A Roma Sandro conosce Pietro Perugino (1450-1523), il quale nello stesso periodo sta affrescando la sua Consegna delle Chiavi.
Le opere del Botticelli al ritorno da Roma accentuano quelli che sono ormai i caratteri propri della sua poetica in segno di aperta polemica con la visione classicista che si va seguendo in sede papale.
Men che mai qui Botticelli per tracciare le sue esilissime figure usa riunire i punti dei razzi prospettici che legano la realtà alla sua immagine virtuale. La mano che guida l’artista nel delineare lo spazio del dipinto è l’ispirazione, il desiderio di raggiungere la certezza dell’idea, né attraverso l’esperienza, né attraverso la cultura, bensì attraverso il proprio esclusivo esercizio dell’arte.
Il Botticelli (vero nome Sandro Filipepi) si forma nella bottega del Verrocchio. Qui conosce Lorenzo di Credi (1456 c. – 1537) e Leonardo. Il suo destino di uomo e di artista è e rimane segnato dalla conoscenza di quest’ultimo.
Sebbene di sette anni più anziano, Botticelli risente tanto del pensiero artistico vinciano che a volte non si riescono a spiegare alcune sue opere senza il confronto con Leonardo. È indubbio che tra i due c’è una forte rivalità, ma è anche vero che tanto l’uno quanto l’altro hanno innegabili punti in comune. Innanzi tutto entrambi si oppongono all’universalismo di Piero della Francesca (1410 c. – 1492), ma Botticelli in nome di una maggiore indipendenza dell’arte dall’esperienza e Leonardo per una minore ingerenza dei concetti a priori nei “modi” dell’arte. Se per Leonardo la ricerca dell’essere delle cose va tutta impostata sull’esperienza, per il Botticelli l’esperienza è d’ostacolo alla ricerca dell’essenza e quindi va superata.
La sua strada per l’essenza parte dallo stesso punto da cui partono tutte le strade delle tendenze più astratte del suo tempo, ovvero da una cultura di base fondamentalmente classica, fondata su principi la cui verità è indimostrabile, ma, e qui sta la novità, invece di proseguire lungo la direzione razionale o sperimentale, si orienta verso un processo stilistico di continuo raffinamento dell’immagine, assolutamente incontrollabile attraverso gli strumenti della geometria, della storia, dell’esperienza. Attraverso l’esercizio dell’arte Botticelli scopre che la forma, quando ci si spinge oltre i limiti consentiti della cultura classica, per sentieri alternativi, si smaterializza, diventa immagine diafana, priva di massa; le proporzioni auree si perdono, le figure si stirano, si allungano, il colore stinge, diventa esangue, tutto dilegua: la forma si tramuta in immagine. Nell’ambito di tale risultato prende importanza la linea, unico mezzo in grado di fermare le parvenze, mezzo espressivo quanto mai necessario proprio per far sì che alla fine queste non svaniscano.
METAFISICA BOTTICELLIANA E RELAZIONE CON IL NEOPLATONISMO
La poetica botticelliana è tanto strettamente collegata all’ideologia filosofica neoplatonica da potersi affermare che il neoplatonismo in arte è lui. Per il Botticelli il mondo visibile è pura illusione, bisogna trascenderlo se si vuol entrare in contatto con l’essere. La natura non è altro che la copia delle idee archetipe; per lui la forma classica non rivela l’essenza, allude ad essa. Ed è proprio per questo che bisogna oltrepassarla. Non c’è chiarimento dell’essenza quanto piuttosto dissolvimento dell’essere in una forma in cui l’essenza primigenia si intuisce più che rendersi evidente; non c’è niente di certo, tutto tende alle forme archetipe.
CONSEGUENZE DELLA POETICA BOTTICELLIANA
Senza dubbio con Botticelli l’arte si solleva dal gravoso compito di chiarire storia e natura, ma dal momento che, per quanto si possa essere dotti, le leggi del Signore non si danno mai nella certezza della cultura o della ragione, ma solo nella trascendenza mistica che si verifica nel corso del lavoro artistico, la creatività estetica non si sente più legata a nessun tipo di dogma, se non alla conoscenza che si acquisisce durante l’esperienza ascetica: e nell’esperienza ascetica le verità che si rivelano, non sono proprio simili a quelle che ci si aspetterebbe se si seguissero le dottrine classiche.
L’ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA FANTASIA
Firenze, chiesa del Carmine, cappella Brancacci
Filippino Lippi
RESURREZIONE DEL FIGLIO DI TEOFILO E SAN PIETRO IN CATTEDRA (1481/1483, ma secondo altri 1484/1485)
Particolari della decorazione parietale
Affresco
Botticelli ha un unico grande discepolo, ma che con l’alto senso spirituale e morale del Maestro ha davvero poco a che vedere. Si tratta di Filippino Lippi (1457 c. – 1504), il frutto del romantico amore fra Filippo e Lucrezia Buti (1435–XVI sec.). Per il Botticelli la creatività, la libertà d’immaginazione è una concessione fatta agli uomini da Dio, la stessa della ragione. Scopo? Salvarli dalla disperazione provocata dalla coscienza della loro limitatezza di esseri umani. Filippino sostituisce all’immaginazione la fantasia, il libero arbitrio umano, e se è un dono del Signore allora perché non farne uso sentendosi in sua grazia?
Per Filippino un’artista non è altro che un produttore d’immagini e la fantasia è uno strumento che può ben servire allo scopo. Non è necessario sapere a cosa serve produrre immagini di fantasia: se è un dono di Dio a qualcosa servirà, anche se non è dato saperlo (qualche risposta riguardo a questo argomento già l’aveva abbozzata il suo maestro).
Nella Firenze dell’ultimo quarto di secolo gli ideali rinascimentali sono irrimediabilmente in crisi. Per Botticelli l’arte non è un mezzo di conoscenza scientifica del mondo, ma un mezzo di trascendenza, superamento dei limiti del reale, dunque conoscenza metafisica. Nello stesso tempo il fiammingo Hugo van der Goes (1430 c. – 1482) va sostenendo che la prospettiva priva gli oggetti di ogni vivezza, riducendoli a pure funzioni dello spazio: lo dimostra nel suo Trittico Portinari. Il segno più eloquente di questa crisi però lo riusciamo a vedere in maniera esplicita se facciamo ritorno nella cappella Brancacci del Carmine e andiamo ad analizzare gli affreschi tirati da Filippino a completamento di quelli di Masaccio (1401-1428).
Sono passati ben cinquantaquattro anni dal giorno in cui Masaccio diede inizio alla memorabile impresa. Cosa è rimasto nel figlio di Filippo, un protagonista storico della rivoluzione linguistica, dello spirito di allora?
Senza dubbio l’incarico rappresenta un momento magico per confrontarsi con il fondatore del Rinascimento in pittura. Al cospetto del pioniere della rinascita Filippino non ci prova neppure a misurarsi con lui, si limita a prendere atto del cambiamento dei tempi e dunque dei valori. All’epica strutturale del fondatore Lippi junior oppone la sua cronaca fatta di appunti e vivaci riprese; alla parlata severa e laconica del caposcuola oppone il suo toscano corrente. Tuttavia tra lo stile dei due artefici rimane il segno della continuità fra nuova e vecchia generazione, infatti non bisogna assolutamente dimenticare che tutti e due gli artisti parlano toscano, e anche se il primo parla una lingua meno ricca di sfumature neologistiche le radici sono le stesse.
Firenze, chiesa della Badia
Filippino Lippi
APPARIZIONE DELLA MADONNA A SAN BERNARDO
Tempera su tavola, altezza mt. 1,95 – larghezza mt. 2,10
Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, cappella Strozzi
Filippino Lippi
MARTIRIO DI SAN FILIPPO (1487/1502)
Particolare della decorazione parietale
Affresco
Emulo del Botticelli, per Filippino l’arte non visualizza il prodotto di una teoria, ma il prodotto di un processo, il processo attraverso cui un’immagine empirica si trasforma in una di fantasia. Ecco come funziona questo processo: l’artista parte dalla realtà ma poi la trasforma in corso di esecuzione in una immagine liberamente inventata.
Nella tavola con l’apparizione della Madonna a san Bernardo del 1486, tenta l’impossibile: mettere nello stesso quadro Botticelli e i fiamminghi. La cosa non è certo meno fantasiosa che mettere insieme un libro aperto su un tronco d’albero che fa da leggio, oppure della Madonna che fa visita al santo fra uno stuolo di ragazzini vestiti da angioletti.
Nel 1487 Filippino inizia a lavorare nella cappella Strozzi di Santa Maria Novella, e si trova ad affrontare un tema storico libero da problemi di confronto. Il martirio di san Filippo non ha nulla di drammatico, dimostra solo la follia degli uomini. L’antico sono i ruderi, vittima della stessa follia che crocifigge un uomo che predica la salvezza dell’anima. Il passato per Filippino non è più citazione colta, non è dogma né insegnamento, è solo la dimensione della fantasia. Le figure spiccano sul fondo piatto, senza dissolvenze e lontananze; sono individui senza neanche un briciolo della dignità e del piglio eroico di quelle di un Andrea del Castagno. Sono ceffi, beceri che mostrano tutta la loro singola, grottesca, balorda goffaggine.
L’ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA NOSTALGIA DEL PASSATO
Amsterdam, Rijkmuseum
Piero di Cosimo
RITRATTO DI GIULIANO DA SANGALLO (1500/1510)
Olio su tavola, altezza cm. 47,5 – larghezza cm. 33,5
Londra, National Gallery
Piero di Cosimo
PROCRI MORTA (1495)
Olio su tavola, altezza cm. 65 – larghezza cm. 183
Fra i tanti giovani talenti che si formano nelle operose botteghe fiorentine della seconda metà del Quattrocento Piero di Cosimo (1462 c. – 1521) è uno dei più interessanti.
Piero di Cosimo non è un tipo che ama le sfide, eppure è attratto dalle difficoltà: vuole trovare una relazione dialettica fra i vocaboli fiamminghi e la sintassi fiorentina. La chiave del rebus consiste nell’allentare il rigore spaziale della prospettiva senza però rinunciare alla sua capacità di mettere bene le cose al loro posto nello spazio.
Esempio di questo assunto confortante è il ritratto di Giuliano da Sangallo, in cui finanche le minuziosissime penne sul davanzale assumono un chiaro significato spaziale.
Nella Procri morta Piero chiarisce il suo pensiero riguardo all’Antico. Il soggetto è mitologico; ma il soggetto mitologico non è una novità. Da qualche decennio questo soggetto sta diventando sempre più frequente. Motivo? È senz’altro un soggetto che lascia più libero l’artista di inventare. Ma mentre la maggior parte degli artisti guarda al passato come ad una dimensione stimolante per la fantasia o per la conoscenza, Piero guarda al tempo che fu come ad una dimensione bella e perduta, cioè con un atteggiamento che noi oggi chiameremmo romantico.
San Gimignano, collegiata, cappella di Santa Fina
Domenico Ghirlandaio
ESEQUIE DI SANTA FINA (1475)
Episodio delle storie di santa Fina
Affresco
Naturalmente, come è stato già detto in precedenza, non tutti gli artefici in attività nella Firenze del Magnifico sono impegnati intellettualmente. C’è pure chi pensa ad allietare, soddisfare il gusto del pubblico borghese: Domenico Ghirlandaio (1449-1494) è uno dei tanti.
Per Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio, non si tratta però solo di questo; l’arte non è un semplice modo per intrattenere garbatamente gli spettatori. Anche la mondanità deve trovare un’espressione adeguata ai canoni e ai modi di essere della borghesia fiorentina. La cultura rinascimentale con lui diventa il modo per esprimere i valori di questa classe sociale; e sono valori di serietà, compostezza, razionalità, decoro, compiaciuta coscienza di far parte di una classe importante. Cosicché con Domenico un’intera classe sociale passa dal piano della sua esistenza reale e contingente a quello ideale dell’immagine artistica. È lui l’inventore di quello che sarà un genere di grande successo: il soggetto storico moderno.
I primi saggi di questo genere li troviamo a San Gimignano, nella collegiata, nella cappella dedicata a santa Fina. Qui si sintetizzano la spazialità scenografica del Lippi con la sensibilità psicologica del Verrocchio, nonché l’attenzione ai particolari dei fiamminghi.
Nel riquadro che raffigura santa Fina distesa sul cataletto Domenico ambienta il momento delle esequie in uno spazio all’aperto, lastricato, in un luogo imprecisato, fuori San Gimignano. Il soggetto principale è strutturato in modo semplice, di immediata lettura e comprensione. La santa vestita di rosa giace su un catafalco coperto da un paramento di broccato, color blu intenso. Intorno a lei gli intervenuti, disposti a semicerchio a continuare, come due ali, l’andamento semilunato della grande abside che si erge alle spalle della santa. La calotta è rivestita di intonaco blu; le lastre verticali del catino sono rivestite di marmo giallo oro; l’altare è rosso; le vesti degli officianti sono bianche come le paraste e l’architrave che delimitano l’abside; il tutto è coronato da un intensissimo cielo azzurro: una cromia che sa molto di veneto. Come lo spazio i colori sono di facile percezione: sono tutti colori primari dalle gamme squillanti, inequivocabili.
Firenze, chiesa di Santa Trinita, cappella Sassetti
Domenico Ghirlandaio
CONFERMA DELLA REGOLA (1483/1485)
Episodio delle storie di san Francesco
Affresco
Nella cappella Sassetti di Santa Trinita a Firenze si trova un altro ciclo di affreschi in cui Domenico precisa la sua invenzione. La scena, l’episodio storico della conferma della regola di san Francesco, è introdotta prospetticamente da un’altra investitura, quella del Poliziano (1454-1494) da parte di Lorenzo il Magnifico. Dunque un episodio storico a stretto contatto con un avvenimento che ancora storico non è, ma che ambisce a diventarlo. E lo diventa per mezzo dell’arte che attua un evidente parallelismo col passato: la nobilitazione dell’atto diventa nobilitazione dello spazio nell’ambientazione di fondo. Cogliendo al volo la novità della prospettiva monumentale del Perugino, Domenico inquadra piazza della Signoria, una piazza medievale, con un solenne porticato brunelleschiano, quattrocentesco.
Pochi riusciranno a resistere al fascino di questo genere; molti artisti si proveranno a perfezionarlo; molti con leggerezza, ma qualcuno con un’alta quanto meditata e profonda coscienza della cultura del proprio tempo, come Raffaello (1483-1520).
LEONARDO DA VINCI: PENSIERO ARTISTICO
Firenze, Galleria degli Uffizi
Leonardo da Vinci
ANNUNCIAZIONE (1472/1475 circa)
Olio su tavola, altezza mt. 1,04 – larghezza mt. 2,17
L’intellettuale più straordinario di tutti i tempi è senza dubbio Leonardo di ser Piero d’Antonio (1427–1504), ovvero Leonardo da Vinci. Leonardo nacque a Vinci, un paesino vicino Empoli, in seguito alla relazione amorosa fra il padre ser Piero, il notaio del paese, e una domestica, certa Caterina (1427–1495 c.). Morì ad Amboise, in Francia, alla corte di Francesco I (1515-1547), nel castello reale di Cloux, sulle rive della Loira, all’età di 67 anni: neanche tanto vecchio come viene dipinto. Sepolto, per suo desiderio, nella chiesa di Saint-Florentin, le sue spoglie sono andate disperse in seguito alle numerose guerre di religione che si susseguirono in Francia, nel Cinquecento.
Anche per Leonardo, neoplatonico di formazione come il Botticelli, la forma artistica che si specchia nella forma ideale della natura è sconosciuta, dunque non è oggetto di imitazione, ma di ricerca. Contrariamente al suo collega però, egli concepisce l’arte non come un processo di stilizzazione, una pratica ascetica, ma come un processo analitico che vede il suo punto di partenza nell’indagine empirica intorno all’aspetto fenomenico della realtà. Questo vuol dire che Leonardo parte dai fenomeni, luci ed ombre, che dalla realtà si trasmettono, tramite i raggi luminosi reali, e non i “razzi visivi”, astratti, agli occhi dell’osservatore, e da questi alla sua mente, la quale attraverso i processi psichici superiori elabora l’immagine finale. L’immagine artistica che scaturisce da questo percorso di tipo sperimentale ha le sue caratteristiche peculiari.
I raggi luminosi viaggiando in una sostanza concreta e densa, l’atmosfera, una volta giunti agli occhi dell’osservatore, trasmettono delle sensazioni continuamente variabili, così come variabile è la causa che le provoca. La mente, che da quelle sensazioni deve ricavare i concetti, non va oltre, ma le penetra più a fondo; non astrae, ma approfondisce cercando di cogliere, di volta in volta, quella misteriosa armonia di luci e di ombre che si stabilisce fra le masse luminose. L’immagine che ne risulta è un’immagine instabile, i cui contorni sfuggono alla definizione, vibrano all’unisono con l’intera massa luminosa dell’atmosfera. Leonardo, così come parte dall’interpretazione della natura i qualità di fenomeno, parte dall’interpretazione della storia in qualità di accadimento di fenomeni; perciò come non ha senso parlare di essenza per il fenomeno, anche per la storia non ha senso parlare di sequenza logica provocata da un movente morale. L’azione storica, ovvero quella giottesca e masaccesca per intenderci, in Leonardo diventa movimento naturale causato dai sentimenti e dai moventi psicologici che albergano nell’animo umano più profondo.
Firenze, Galleria degli Uffizi
Leonardo da Vinci
ADORAZIONE DEI MAGI (1481/1482)
Olio e bistro su tavola, altezza mt. 2,46 – larghezza mt. 2,43
Firenze, Galleria degli Uffizi
Botticelli
ADORAZIONE DEI MAGI (1477, ma secondo altri 1475 circa)
Tempera su tavola, altezza mt. 1,11 – larghezza mt. 1,34
Se per il Botticelli l’opera di Leonardo ha significato molto, almeno nel senso di spingerlo a prendere posizioni sempre più nette e definite, in contrasto col suo più giovane collega, anche per Leonardo l’opera del Botticelli è stata importante. Lo ha aiutato a trovare più rapidamente la sua strada: prova ne è l’ultima opera fiorentina del Quattrocento, l’adorazione dei Magi affrontata nel 1481/1482, palesemente riferita all’altra adorazione del Botticelli del 1477.
La grande differenza che si nota fra l’immagine di Leonardo e quella del Botticelli non dipende tanto dalla diversa concezione della finalità dell’arte quanto dalla diversità del processo esecutivo per arrivare alla definizione dell’archetipo. Per entrambi l’arte è l’esito ideale cui indirizzare il processo di ricerca dell’essenza. Ma per Botticelli questo processo si configura come un processo di stilizzazione, mentre per Leonardo si configura come un procedimento analitico sperimentale.
Il metodo di Leonardo per arrivare all’essenza consiste nella raccolta e sistemazione delle osservazioni che a mano a mano si vanno compiendo nel corso dell’esperienza costruttiva, durante la quale l’operatore si deve attenere scrupolosamente soltanto a ciò che vede, rifiutando coraggiosamente tutto quel che è frutto di concetti a priori. Le conseguenze di una tale impostazione sono della massima importanza. Ad un’arte che tende a realizzarsi indipendentemente dall’oggetto, egli contrappone un’arte per cui la presenza dell’oggetto è condizione assolutamente necessaria. Il che equivale a dire che ad un’arte visionaria si va contrapponendo un’arte di veduta; ad un metodo deduttivo, che fa discendere le cose particolari dalle idee generali, si oppone un metodo induttivo, che fa risalire alle idee generali dall’osservazione delle cose particolari; alla verità rassicurante dell’idea si contrappone la verità destabilizzante dell’indagine.
Con l’impostazione leonardesca l’arte si configura come uno dei tanti modi in cui si esprime il fare impostato sull’attività sperimentale, e come tale essa non produce modelli estetici da imitare, ma tutt’al più modelli metodologici da seguire: ha dunque delle affinità con la scienza. Ed è proprio seguendo la via dell’esame empirico che Leonardo precorre la strada della sperimentazione scientifica. L’opera d’arte con lui diventa il momento conclusivo di una serie di approfondimenti analitici; e tanto più i prodotti finali ottenuti sono simili tra loro, seguendo le stesse indicazioni metodologiche, tanto più il metodo sperimentale è scientificamente valido.
Leonardo è anche il primo artista che si pone il problema della distinzione fra arte e scienza.
Per lui arte e scienza hanno lo stesso fine: l’intendimento del mondo. Ma l’arte ha in più il compito di cogliere quella misteriosa armonia che fa della natura non solo una cosa profondamente intelligente, ma anche una cosa profondamente bella. Dunque ha un qualcosa in più rispetto alla scienza, e per questo le è superiore. Il suo fine precipuo rimane quello dell’individuazione delle relazioni armoniche fra gli elementi strutturali dell’immagine della natura e in questo si realizza in quanto e unicamente arte, così da distinguersi anche dalla tecnica del fare senza fini estetici o tecnica strettamente scientifica o ingegneria. Inoltre, cosa fondamentale, l’arte è l’espressione dei sentimenti che albergano nell’uomo; la scienza aborrisce i sentimenti, favorisce la ragione.
CONSEGUENZE DEL METODO LEONARDESCO
Essendo il metodo leonardesco fondato sull’esperienza personale, non ha più senso attingere alla cultura storica, o razionale. Quindi le opere degli antichi non costituiscono più modello formativo, né le opere frutto del raziocinio matematico; né l’opera d’arte può essere frutto del lavoro di più persone. Come risultato di un processo in cui interviene un elemento personale, soggettivo, proprio, l’immagine creativa è diversa da artista ad artista, anzi, l’una dall’altra, anche se dello stesso autore. Si spiega così perché Leonardo non ha discepoli, ma solo imitatori.
RELAZIONE TRA LEONARDO E I CONTEMPORANEI
Firenze, Galleria degli Uffizi
Verrocchio e Leonardo
IL BATTESIMO DI CRISTO (1478/1480 c.)
Olio e tempera su tavola, altezza mt. 1,77 – larghezza mt. 1,51
La metodologia leonardesca di impostare l’arte sui dati dell’osservazione è anticipata dal Pollaiolo e dal Verrocchio, suo maestro. Ma per il Verrocchio, per il Pollaiolo e per lo stesso Lippi esperire la realtà significa partire dalla nozione dell’essere, della sua essenza, quindi l’esperienza di questi artisti non è tale fino in fondo; è ancora piena di presupposti teorici, concetti a priori; prende vita da una cultura di base ancora colma di conoscenze inconfutabili, provenienti dalla storia e dalla geometria, dalla religione, principi dottrinali incontestabili. La differenza con Leonardo sta nel fatto che egli non arriva a definire una irregolarità morfologica da contrapporre alla regolarità classica, ma ad istituire una nuova immagine artistica, che si costruisce senza arrivare alla determinazione dell’essere. Leonardo non da nulla per scontato, né ci sono per lui verità indiscutibili; tutto sottopone a verifica, tutto mette sotto esame, e il suo acuto ingegno analitico lo porta a scoprire l’indefinibilità dell’essere, l’indeterminabilità del concetto, l’indecifrabilità della forma e del colore.
Toscani, fiamminghi e il Bellini (1430 c. – 1516) ricercano l’essenza della natura nell’essere. Anche per Leonardo l’oggetto della ricerca artistica è l’essenza della natura. Essendo un toscano, contrariamente a fiamminghi e veneti, identifica l’essenza nella forma; ma contrariamente ai toscani la forma non è qualcosa di preesistente all’esperienza, non si da per scontata, non è qualcosa che si fissa a priori, ma a posteriori, al termine di una solerte analisi visiva. Il “genio” si attiene scrupolosamente all’esperienza, indipendentemente da quel che della cosa si conosce; il risultato finale è quello che scaturisce dall’analisi dei dati visivi, corrispondano o no alla nozione che si ha dell’essere. Mettendosi a percorrere questa strada Leonardo scopre il valore dell’atmosfera nel processo conoscitivo. Lo spazio intorno alle cose non è un vuoto astratto, bensì un contenitore riempito dall’aria. Questa addensandosi con l’aumentare della distanza fra oggetto e osservatore viene percepita come una coltre grigio azzurra, sempre più consistente man mano che ci si allontana. Tutto ciò influenza la nozione delle cose che scaturisce dalla percezione della realtà. Impostando la definizione dell’essere su tali premesse Leonardo arriva a dare vita ad una forma indefinita, un complesso gioco di modulazioni luminose che sfuma le sagome in una sorta di densità atmosferica: cioè arriva a formulare il cosiddetto sfumato leonardesco.
Allo stesso tipo di conclusione, ci si sta avvicinando un altro artista, completamente diverso da lui, che lavora a Venezia, su opere di piccole dimensioni: Giorgione (1477 c. – 1510). Solo che per Giorgione, essendo veneto, il complesso gioco non si configura in modulazioni di chiaroscuro, bensì in modulazioni tonali di colore. La pittura tonale, scoperta da lui, sarà fondamentale per il passaggio del Rinascimento dalla fase analitico-scientifica alla fase sintetico-immaginativa.
RAPPORTO CON LA METAFISICA NEOPLATONICA
Come accennato in precedenza, anche Leonardo, come il Botticelli e poi Michelangelo si forma nell’ambiente culturale neoplatonico. Di quell’ambiente egli condivide la tendenza a superare il classicismo, sia nella sua versione razionale che in quella storicista; ma ciò che non condivide è la direzione verso cui questa filosofia spinge il superamento. Il neoplatonismo supera si la geometria, l’universalismo, l’immutabilità, l’apriorismo della forma classica, ma lo fa nella direzione di un’altra forma ideale, più eterea, più vaga, più fluttuante, meno definibile con gli usuali strumenti del classicismo, ma pur sempre raggiungibile per vie opposte a quelle empiriche.
Contro una filosofia che spinge a trascendere la natura Leonardo oppone la sua poetica che spinge invece ad approfondirne l’indagine. Forse proprio per questo Leonardo non viene capito nella sua Firenze, mentre viene subito accolto favorevolmente a Milano, terra dove viva è ancora la tradizione naturalistica tardo-gotica.
RAPPORTO CON LA CONCEZIONE NEOPLATONICA DELL’UOMO
Un altro punto di separazione con l’ideologia neoplatonica è quello relativo al concetto dell’uomo rinascimentale, il quale, sia per i neoplatonici che per Leonardo, non è più l’uomo che trae le ragioni del proprio agire dalle verità eterne contenute nella cultura degli Antichi e rivelatasi poi con l’incarnazione di Cristo, ma è l’uomo che mette alla guida delle proprie azioni le forze che trae dall’interiorità del proprio essere così com’è, con tutti i dubbi e le limitatezze che gli derivano dalla sua finitezza mortale. Differentemente da questi però, egli non si appella alle capacità d’intuizione dell’essere, bensì alle capacità analitiche dell’individuo.