«A PERGAMO C’È UN GRANDE ALTARE DI MARMO ALTO 40 PIEDI…»
IMPORTANZA DI PERGAMO
QUADRO STORICO GENERALE E AMBITO STORICO CULTURALE
DESCRIZIONE DELL’ACROPOLI DI PERGAMO
L’ARA MAGNA
FREGIO ESTERNO: LA GIGANTOMACHIA
FREGIO ESTERNO: DESCRIZIONE
FREGIO ESTERNO: ANALISI STILISTICA
FREGIO INTERNO: LE STORIE DI TELEFO
FREGIO INTERNO: DESCRIZIONE
FREGIO INTERNO: ANALISI STILISTICA


«A PERGAMO C’È UN GRANDE ALTARE DI MARMO ALTO 40 PIEDI…»

Berlino, Pergamonmuseum
ARA DI PERGAMO (iniziata dopo il 183 a.C.)
Ricostruzione
Marmo e calcare, larghezza della piattaforma mt. 36,44 – profondità mt. 34,20

«A Pergamo c’è un grande altare di marmo alto 40 piedi, con bellissime sculture; include tra l’altro anche una gigantomachia». A pronunciare queste parole è Lucio Ampelio nel suo Liber Memorialis (III/IV sec.?). Di lui non si conoscono né data di nascita né data di morte, quindi non si può sapere a quando risale la sua osservazione. Ciò nondimeno la sua testimonianza si è rivelata fondamentale per la ricostruzione dell’altare che oggi è dato ammirare nella sala del Pergamonmuseen zu Berlin.
Meta del nostro viaggio a bordo della Nuova Argo questa volta è dunque Berlino, e più precisamente il Pergamonmuseen, che si trova nel complesso dei Musei di stato della capitale tedesca. Scopo? Fare la conoscenza diretta di quel particolare fenomeno universalmente noto col termine di “Ellenismo” e scoprirne il linguaggio.

IMPORTANZA DI PERGAMO

Fra i tanti centri che sorgono dalla spartizione dell’impero alessandrino Pergamo è quello che manifesta al top i vocaboli di un nuovo linguaggio, il linguaggio ellenistico.
La città cinquant’anni dopo la morte di Alessandro Magno, tra il 283 a.C. e il 133 a.C., è il centro più potente dell’intera Asia Minore. Sulla sua acropoli Attalo I (269-197 a.C.), Eumene II (221-159 a.C.) e Attalo II (220-138 a.C.), fanno erigere monumenti che diverranno modelli incontrastati per numerose generazioni di opere future. Il nome Pergamo darà origine ad un termine che servirà a designare uno degli stili più importanti che caratterizzeranno l’arte ellenistica matura. La visita a questo monumento ci permetterà di capire in che cosa consiste nel concreto l’Ellenismo pergameno.

QUADRO STORICO GENERALE E AMBITO STORICO CULTURALE

Bergama, Turchia
VEDUTA DELLA ZONA ARCHEOLOGICA

L’antica Pergamo sorge nella media valle del Caico; a 28 km c’è la costa anatolica che si affaccia sul Mar Egeo. La sua storia di città stato qualsiasi inizia a cambiare con Filitero (III sec. a.C.) che domina la polis fra il 283 e il 263 a.C. Da lui prende avvio la dinastia degli Attalidi.
Pergamo deve il successo a due fattori determinanti: la posizione geografica, fra Macedonia e Siria, e la politica estera imperniata sull’alleanza romana. Altro fattore importante è la situazione sociale ed economica. Le principali risorse economiche sono in possesso del re, come pure le ricchezze provenienti dai tributi delle province.
A differenza di quello che accade nelle poleis greche, a Pergamo la terra viene divisa fra il ceto aristocratico e sacerdotale, e non fra i liberi cittadini. Tuttavia questo regime non vige in tutte le città del territorio. Ciò da origine a delle differenze fra i singoli centri, che per una strana alchimia invece di provocare attriti genera una forte spinta allo sviluppo e alla crescita. Purtroppo a Pergamo, come altrove, non è tutto tranquillo. Ai confini dello stato premono i Celti delle regioni interne dell’Anatolia: i Galati. La loro pressione si trasforma presto in invasione e allora è guerra. La prima guerra contro i Galati vede protagonista vittorioso Attalo I. Il sovrano per ringraziare Atena di avergli dato la vittoria le fa erigere un tempio corredato di statue raffiguranti i nemici vinti. Circa cinquant’anni dopo Attalo II fa erigere nel recinto sacro del santuario un donario. Questo monumento è formato da un grande podio circolare, cilindrico per l’esattezza, sulla sommità del quale si ergono, poste radialmente, quattro statue di galati feriti a morte, e un gruppo centrale costituito da un barbaro che si suicida dopo aver ucciso sua moglie: effigiare il nemico sconfitto è un modo per dare maggior prestigio, maggior enfasi, alla grandezza della vittoria. Di questo monumento non c’è rimasta traccia. A sua memoria restano una statua e un gruppo entrambi di marmo, copie romane da originali in bronzo: il Galata morente, che si trova nei Musei Capitolini, e il Galata che uccide sua moglie e sé stesso, del Museo delle Terme, a Roma.
Anche l’ara magna viene eretta in seguito ad una vittoria sui Galati. In questa occasione a riportare la vittoria è Eumene II, fratello maggiore di Attalo II, che la consegue negli anni compresi fra il 168 e il 165 a.C., durante il suo regno durato dal 197 al 159 a.C.
Le vittorie sui Galati, ma non solo su loro, anche sulle altre città che contendono a Pergamo il predominio sull’Asia Minore, sono state determinanti oltre che per Pergamo parimenti per tutte le altre città greche. Infatti queste vittorie portano Attalo e Eumene a considerarsi i custodi, nonché gli eredi della gloria e della grandezza di Atene. E qui sta il nocciolo della questione.
Pergamo aspira ad assumere per la civiltà greca il ruolo culturale che fu gia di Atene. A tal fine si promuove un indirizzo che cerca di creare una continuità col passato. Per questo l’arte pergamena si pone come la naturale prosecuzione dell’arte del V e IV secolo a.C. Dunque l’Ellenismo non è la diffusione dei modi attici nei regni dei diadochi, ma la prosecuzione di questi nei centri di potere fioriti dopo il definitivo tramonto di Atene. È per realizzare tale obiettivo che si chiamano maestranze in grado di far rivivere con le loro opere la grande stagione classica; costruire un’acropoli che diventi il nuovo punto di riferimento culturale dell’intera Grecia, è questo l’obiettivo che Attalo e Eumene si prefiggono nel corso della loro reggenza.

DESCRIZIONE DELL’ACROPOLI DI PERGAMO

L’acropoli di Pergamo prende vita su un versante collinoso che digrada lievemente verso sud, dove si stende la valle del Caico. Il terreno in pendenza viene sistemato mediante una serie di terrazzamenti contigui. I vari livelli sono congiunti da una strada che dai magazzini, posti sulla sommità, scende verso la porta della rocca per proseguire verso l’ara magna e la piazza del mercato. Nell’ordine abbiamo un terrapieno dove più tardi Traiano farà costruire il suo tempio, una serie di edifici detti palazzi, quindi il tempio di Atena Polias e infine la porta della rocca. A sud del recinto del santuario di Atena Polias la strada compie una deviazione per rendere accessibile la biblioteca. Dalla porta, piegando a sinistra, si dirige verso l’heroon dei sovrani locali, mentre a destra finisce verso il teatro di Dioniso e il tempio intitolato allo stesso dio; a seguire costeggia il recinto dell’altare per terminare nell’agorà superiore. Naturalmente la sistemazione si è svolta a tappe successive.

L’ARA MAGNA

La grande ara è dedicata a Zeus Sotèr e Atena Nicefora. Si leva su edifici di vecchia data, che per farle posto vengono impietosamente abbattuti; è collocata al centro di un grande recinto sacro. L’accesso all’area è un semplice varco, passato il quale ci si trova di fronte al lato est, cioè il lato opposto a quello principale, orientato diversamente dalla esposizione canonica dei templi.
L’ara si erge su un basamento che sfiora la forma quadrata. Il fronte si stende per oltre 26,50 mt. e si protende per quasi 34,50 mt. (cap. arte ellenistica). Concettualmente è un grande parallelepipedo penetrato da un prisma a base triangolare coricato, costituito dalla poderosa scalinata posta sul fronte principale; questa collega il piano terra allo stilobate. Strutturalmente l’altare è costituito da un podio decorato da un fregio continuo alto mt. 2,30 e lungo mt. 120 che lo avvolge completamente. S’interrompe solo sul lato ovest per far posto alla scalinata, che occupa mt. 20 del prospetto. L’innesto della scalea nel podio determina la formazione di due corpi aggettati. Qui il fregio risale lungo la scalinata per terminare naturalmente ad angolo acuto. Sullo stilobate s’impianta un recinto colonnato che forma un portico ionico intorno all’ara sacrificale; sul fronte, in corrispondenza dei risalti, si prolunga a formare due ante parallele. Alla sommità del colonnato si erge una stretta trabeazione senza fregio, costituita dal solo architrave ionico, tripartito, e la cornice; a coronamento dell’alzato fanno bella mostra di sé una ricca serie di acroteri. L’altare non è stato mai terminato: ne costituiscono testimonianza inconfutabile alcuni doccioni rimasti sbozzati. Al centro del cortile porticato c’è l’ara sacrificale. È circondata su tre lati da un muro scolpito in bassorilievo che fa da spina al porticato. Sul fregio esterno è raffigurata una formidabile Gigantomachia; su quello interno le Storie di Telefo, il fondatore mitico della città. Spicca sul nitore delle superfici marmoree il blu del fondo del fregio esterno.
La singolare forma dell’altare non è una novità assoluta. Prima di lui altre opere sono state licenziate con questo aspetto particolare, come l’altare di Magnesia e l’altare di Asclepio a Coo. Solo il re, i sacerdoti e i membri della casa reale potevano entrare nel recinto per assistere alla celebrazione del sacrificio. Tutti gli altri sostavano fuori, intorno al grande basamento, nel cortile del santuario.

FREGIO ESTERNO: LA GIGANTOMACHIA

La Gigantomachia come è noto raffigura la lotta fra i Giganti e gli dèi dell’Olimpo. È un tema ricorrente nel corredo figurativo dei templi; ricorrente ne è anche il significato: la lotta della civiltà contro la barbarie. Ad Atene la barbarie era rappresentata dai Persiani; a Pergamo la barbarie è rappresentata dai Galati. L’insolita lunghezza del fregio ha reso necessario introdurre nella raffigurazione anche le tematiche inerenti alla teogonia e ad episodi tratti da Omero. C’è anche, e non poteva essere altrimenti, un pizzico di fantasia che trae ispirazione dalla più attuale variante ellenistica dei testi tradizionali. Questa variante è costituita dalla presenza di Eracle.
Il mito ci parla di come i nuovi dèi vengono a sostituire i vecchi per mezzo di due battaglie molto importanti: quella contro i Titani, la Titanomachia, e quella contri i Giganti, la Gigantomachia. La prima si conclude con il confinamento dei Titani nel Tartaro. Di qui scaturiscono le premesse per la seconda. La misura repressiva contro i Titani indispettisce la madre, Gea, la terra, la quale per vendicarsi genera i Giganti. Questi sono esseri dalla statura e dalla forza sovrumana; il loro aspetto è mostruoso: il corpo è da uomo, ma le gambe sono serpenti e invece di finire con i piedi finiscono a testa di rettile. Le loro armi sono massi e interi tronchi che sradicano senza difficoltà e scagliano, dopo avergli dato fuoco, addosso agli avversari. Non appena generati si lanciano all’attacco dell’Olimpo, ma sull’Olimpo vengono affrontati da Zeus e dagli altri dèi, che, seppure a fatica, dopo una estenuante lotta ne hanno ragione.
Fin qui la mitologia greca. La variante pergamena aggiunge quanto segue: la ribellione dei Giganti induce gli dèi dell’Olimpo ad interpellare un oracolo. Questi sentenzia che l’unico modo per avere la meglio sui Giganti è coinvolgere nella lotta un essere mortale. Questo essere mortale è Eracle.
Telefo, il fondatore di Pergamo, è figlio di Eracle, è dunque Eracle, l’eroe di Tebe, il nodo, il punto di raccordo che lega i due fregi, quello interno a quello esterno.

FREGIO ESTERNO: DESCRIZIONE

Il senso di lettura del fregio non è in sequenza, cioè non va letto come una serie di scene in successione, bensì come un tutt’uno, cioè come il momento culminante di una battaglia.
Se si considera come partenza il punto di osservazione dello spettatore al momento del suo ingresso nel recinto dell’altare allora la lettura comincia da est, per proseguire poi in due diverse direzioni, nord e sud, quindi concludersi dopo essere passati per le parti esposte ad ovest, sui due risalti nord e sud che si affacciano sulla gradinata. Al centro c’è Hera che travolge dei giganti col suo carro da guerra, trainato da quattro cavalli alati, personificazione dei quattro venti Noto, Borea, Zefiro ed Euro. Seguono verso nord Zeus ed Atena le cui pose rimandano immediatamente al Poseidon e all’Atena del frontone ovest del Partenone. La dèa guerriera, protettrice della città, sta separando brutalmente, tirandolo per i capelli, il gigante Alcioneo dalla madre Gea, còlta mentre sta emergendo dalla terra: è noto come i Giganti traessero la loro sovrumana forza dalla madre terra. Per avere ragione di loro il modo più sicuro è sollevarli dal suolo: la loro separazione dalla madre terra li rende comuni mortali, quindi facilmente vulnerabili. A suggello dell’azione vincente intrapresa dalla dèa giunge volando da destra una Nike alata. Fra Hera e Zeus figura Eracle, l’eroe che secondo la leggenda rivisitata decide le sorti della battaglia. Di questa figura rimane oggi solo la pelle ferina del leone di Nemea.
A ridosso dell’angolo nord-est appare Ares alla guida della sua biga. Di fronte si para un gigante alato che la fa impennare. Al lato opposto, accanto ad Hera, compare un gruppo formato da un gigante e, molto probabilmente, Demetra, dèa delle messi. A seguire si fa riconoscere Apollo, facilmente identificabile dalla faretra. Ai suoi piedi c’è il corpo ormai privo di forze di Efialte, ferito a morte da una freccia scagliata dal dio che ha centrato appieno il suo occhio. In questo partito c’è da notare la fin troppo esplicita somiglianza del dio con la celebre opera classica di Leocare, l’Apollo del Belvedere, del 330 a.C. Appresso, segue il gruppo di Latona e Artemide, rispettivamente madre e sorella di Febo (altro nome di Apollo). Latona è rappresentata nell’atto di dar fuoco con una fiaccola ad un gigante dai tratti bestiali, mentre Artemide è ripresa nell’atto di scagliarsi contro un guerriero nudo, munito di scudo e lancia, mentre scavalca il corpo esanime di un gigante; dietro di lei è il suo fido cane, impegnato a mordere al collo un altro titano. A chiusura del lato est c’è Clizio che lotta contro la dèa trimorfa Ecate e il suo molosso. Ecate divinità delle strade, degli spettri e della magia, oppone una fiaccola, una spada e una lancia, contro il macigno abbrancato dal gigante.
Il fregio sud si apre con la tenzone che vede impegnate Asteria (la stellata), la figlia Ecate, e Febe, la luminosa, sua madre. La triade Ecate, Asteria, Febe, introduce alle divinità del giorno e della notte. Queste caratterizzano tutto il fregio sud. Intanto possiamo rilevare da queste sequenze quanto già detto, e cioè l’obiettivo del fregio è quello di trattare il tema come un’immagine unica. La cosa appare in tutta la sua evidenza se si considera ad esempio come il legame parentale che raggruppano alcune figure trapassa da una facciata all’altra, come nel caso appena visto. Ma non è solo una questione di genealogia; c’è anche un fattore di corrispondenze morfologiche, come ad esempio nel giovane gigante ai piedi di Febe che cerca di estrarsi la freccia che gli si è conficcata nel petto e l’altro, accecato da Apollo.
Continuando il giro incontriamo un giovane dio, forse Etere, che strangola un mostro con gambe serpentine, corpo d’uomo, testa e zampe da leone. Alla destra scorgiamo un personaggio alato, forse Urano, affiancato da una divinità femminile, probabilmente Temi, sua figlia, dèa della giustizia. Segue una zona ampiamente lacunosa, dove si può ravvisare l’effigie di Teia, attorniata dai suoi figli. Tra essi individuiamo Selene, di spalle, in groppa ad un mulo, mentre si allontana scavalcando un gigante; Elio con la sua quadriga mentre si scaglia addosso ad un titano e ne travolge un secondo; Eos, la dèa dell’aurora in groppa al suo cavallo mentre scaglia innanzi a sé una fiaccola. Quale il senso di questo scontro delle divinità astrali? Nulla può fermare il tempo, neanche esseri soprannaturali come i Giganti.
Il fregio termina con un groviglio di figure in cui spicca il corpo massiccio di un gigante dalle sembianze taurine e la dèa Cibele, a cavallo di un leone: segno evidente che il ciclo astrale si è concluso ancor prima che il fregio volti verso il risalto sud-ovest.
Il risalto sud è interamente dedicato a Dioniso. Esso si apre col dio silvano che alla guida di un leone combatte, spalleggiato dalla madre Semele e accompagnato dal suo seguito, costituito da due satiri fanciulli e tre ninfe. Queste ultime risalgono la scalinata creando l’illusione di un rapporto reale fra figurazione e architettura.
Sul risalto di rimpetto sono di scena le divinità del mare: Doride e Nereo, Oceano e Teti combattono sul lato della scalinata; Anfitrite e Tritone sul lato ovest. Le divinità marine proseguono il loro intervento sul lato destro del fregio nord con Poseidone e la sua quadriga trainata dai caratteristici cavalli marini. Seguono una dèa che sguinzaglia un leone: forse Ceto, la madre delle Graie, genitrice di Ketos, un pesce mostruoso, probabilmente un essere ispirato dalla balena. Spostandoci verso il centro incontriamo molto probabilmente le Moire. Il mezzo è occupato da una dèa con un vaso colmo di serpenti: quasi sicuramente una delle tre Erinni, le divinità che puniscono i sacrilegi.
La parte sinistra prosegue invece il fregio est. Ecco dunque riallacciarsi ad Ares, Afrodite intenta a strappare una lancia dal petto di un gigante riverso sul corpo di un suo simile. Accanto alla dèa dell’amore c’è Dione, sua madre, e Eros, suo figlio.
Di difficile interpretazione sono i personaggi che chiudono la rappresentazione. In quest’ultimo tratto spicca in modo particolare la curiosa figura del dio che viene stretto alla vita da un gigante e morso ad un braccio, così come singolare è l’immagine del personaggio che per procurarsi un’arma non trova niente di meglio a cui pensare che sradicare un albero. Alcuni studiosi vedono nella vittima del “morditore” Castore, il fratello di Polluce, che qui viene identificato col personaggio sulla sinistra, munito di scudo, che si lancia in suo soccorso.

FREGIO ESTERNO: ANALISI STILISTICA

Il grande fregio esterno è di una forza drammatica straordinaria. Si punta soprattutto a rendere evidente attraverso gesti e smorfie la sofferenza dei Giganti; la furia dello scontro è incontenibile, pervade l’intero nastro marmoreo e quasi sbalza le figure fuori della cornice. Si sceglie l’altorilievo per aumentare le possibilità drammatiche dei contrasti di luce e ombra; s’incide profondamente la materia perché sia più evidente la contrapposizione luministica; si fa ricorso a tutto il repertorio stilistico scopadeo per far sentire maggiormente la sofferenza interiore dei soccombenti. Ma il fine di tutta questa orchestrazione di toni non è più quello di esprimere un sentimento di sofferenza per la condizione umana privata del sostegno degli dèi, bensì quella di impressionare l’osservatore con la rappresentazione enfatica e la verità dei dettagli.

FREGIO INTERNO: LE STORIE DI TELEFO

Completamente diverso sia per concezione che per struttura è il fregio interno; qui vi si narrano le storie di Telefo. Il fregio è alto poco più di un metro e mezzo e si dispone tutt’intorno all’ara sacrificale, sotto il porticato. Per le conseguenze che avrà sull’arte futura il fregio di Telefo rappresenta uno dei massimi capolavori di tutti i tempi. A differenza del fregio esterno questo va letto in sequenza, cioè è pensato come un libro illustrato, ovvero è strutturato in una serie di scene disposte in senso cronologico nelle quali si raccontano le vicende del mitico fondatore della città: insomma una specie di moderno fumetto, ma senza vignette, né balloon.
Telefo è il protagonista di una serie di vicende caratterizzate da continui cambiamenti di fronte. Naturalmente esistono molte versioni del mito; la versione adottata nel fregio è quella interpretata dai mitografi dell’epoca.
Un giorno l’oracolo delfico di Apollo, interpellato dal re dell’Arcadia Aleo, profetizza che gravi sciagure sarebbero piovute su di lui a causa della prole di sua figlia Auge. Allarmato il sovrano arcade, per evitare che l’infausto destino si compia consacra la figlia ad Atena, facendola diventare sua sacerdotessa. Ora però accade che Eracle soggiorna per qualche tempo come ospite alla corte di Aleo. Durante questo periodo contrae una relazione con Auge dalla quale nasce un figlio, Telefo. Venutone a conoscenza Aleo fa costruire una barca per rinchiuderci la figlia e abbandonarla in mare. La barca vaga nell’Egeo fino a quando non approda sulle sponde della Misia, nella penisola anatolica. Qui la principessa viene accolta dal re Teuthras (Teutrante) e dalla sua corte. Questi la tratta come una figlia; per ringraziare Atena di averla salvata dall’infame sorte Auge introduce il suo culto nelle zone della Misia. Diversa sorte tocca al figlio.
Dopo aver sistemato la madre, Aleo cerca di sbarazzarsi del nipote, e senza starci a pensare su troppo lo abbandona in un bosco di platani. In questo bosco lo trova Eracle ancora vivo e vegeto, grazie alle cure di una leonessa. Diventato adulto Telefo si vendica di tutti gli zii. Perseguitato dal nonno fugge dall’Arcadia e dopo varie peripezie arriva in Misia alla corte di Teuthras. In questo luogo trova anche lui accoglienza e in cambio presta il proprio aiuto nella lotta contro i nemici del Paese. Grazie a questo servigio, ma soprattutto al valore dimostrato in battaglia, gli viene offerto il posto di sovrano e la mano di Auge. Quando è ormai tutto pronto per la celebrazione del matrimonio Atena interviene tramite il suo serpente sacro per svelare ai contraenti il loro rapporto di parentela. Il matrimonio sfumato non impedisce a Telefo di diventare sovrano, e una volta assunto il comando egli difende con coraggio la Misia dall’invasione greca. In una delle battaglie che è costretto a sostenere contro i Greci perde la sua amata moglie Iera, una bellissima amazzone. In un combattimento egli stesso è ferito alla gamba da Achille, una ferita speciale che a detta dell’oracolo può essere guarita solo da chi l’ha procurata. E la leggenda da questo punto in poi si complica. Telefo spinto dalla necessità si reca ad Argo per incontrare Achille. Viene accolto da Agamennone senza che questi sapesse chi fosse l’ospite. Qui Telefo chiede aiuto, ma una volta rivelatosi, il re dei Greci ha un imbarazzante momento di esitazione nell’offrire il proprio aiuto. Per costringerlo a venire in suo soccorso Telefo prende in ostaggio il piccolo Oreste, figlio di Agamennone, e minaccia di ucciderlo se l’atride non gli avesse concesso la sua assistenza. A risolvere la faccenda che si stava mettendo veramente male interviene Ulisse che convince Telefo a farsi soccorrere da lui. Telefo guarisce e per riconoscenza guida i Greci alle porte di Troia. Al suo ritorno in Misia fonda Pergamo e i suoi luoghi di culto. E qui la storia finisce.

FREGIO INTERNO: DESCRIZIONE

Ecco dunque che nel fregio si vedono quattro artigiani intenti a costruire una barca sotto lo sguardo vigile di Aleo; sopra c’è Auge seduta su una roccia, affranta, in compagnia di due ancelle, totalmente avvolta nel suo mantello. Come nelle stele classiche il dolore di Auge non si esprime attraverso il volto, ma attraverso il gesto di poggiare il mento sulla mano. Più avanti ecco Auge in compagnia di Teuthras, quindi Eracle, riconoscibile per la pelle leonina, in piedi davanti al platano, appoggiato alla sua devastante clava, insieme alla leonessa e al neonato Telefo. Ancora più avanti si può ravvisare Telefo insieme ai suoi compagni e il banchetto di Argo.
Potremmo andare avanti ancora per molto, ma la parte che più ci compete è quella linguistica.

FREGIO INTERNO: ANALISI STILISTICA

Rispetto al fregio esterno, questo è molto più basso; là i particolari ambientali sono dati per note, qui sono parte integrante dello spazio figurativo e inquadrano i personaggi nello spazio concreto, naturale e sociale. È oggi assodato che gli antichi fregi fossero dipinti; quello di Telefo non doveva fare eccezione. Comunque dipinto o no l’autore si è ispirato ai fregi dipinti. È infatti innegabile che abbia voluto qui ricercare valori che sono tipici della pittura più che della scultura. Le figure non s’impongono sullo spazio staccandosi dal fondo e contrapponendosi nettamente come pieno a vuoto, si collegano gradualmente al fondo tramite l’inscenatura che sfuma sulla lastra col suo modellato morbido, dando così la sensazione di uno spazio più profondo di quello effettivo: la scultura assume qui il carattere illusionistico della pittura. Al timbro drammatico del movimento che investe il fregio esterno, nel fregio interno si contrappone un timbro idilliaco; al linguaggio luministico tessuto sui contrasti fra luce e ombra del primo si contrappone il linguaggio fatto di morbidi passaggi chiaroscurali del secondo.