VIE CAVE
IL “BUCO NERO” DEI TIRRENI
ARCHITETTURA AMBIENTALE E RUPESTRE
CONCLUSIONE
Sovana, Grosseto
VIA CAVA DI SAN SEBASTIANO
A qualsiasi testo ci si rivolga, qualsiasi museo si visiti, si vede bene come la storia degli Etruschi (Rasenna o Rasna in lingua madre) inizia nel IX secolo a.C. con la civiltà villanoviana. Questa impostazione crea il convincimento che prima, in Italia, la civiltà non esistesse; prima dei Rasenna la civiltà appartiene esclusivamente all’Oriente. Oggi, però, nuovi indizi, nuovi studi lasciano intravedere orizzonti inediti.
Da qualche tempo alcuni ricercatori hanno iniziato a percorrere strade inesplorate; una di queste porta ad approfondire il rapporto fra Etruschi, Pelasgi e Atlantidi. Ad esempio, a suffragio di queste nuove piste ci sono numerosi punti di convergenza fra la loro religione e quella dei popoli del mare: infatti anche i Rasna mettono al centro del culto la Madre Terra, venerano una dèa delle acque presso sorgenti e laghi, riconoscono un ruolo religioso e sociale alle donne. L’anello di congiunzione con gli Atlantidi è il culto della dèa Cibele (Kubiles) e l’analogia fin troppo esplicita fra la carica di lucumone e quella di re-sacerdote di Atlantis.
Quando si dice che gli Etruschi sono un popolo misterioso s’intende dire che non si sa con certezza quale sia la loro origine, né quali siano state le cause della loro scomparsa, né perché mai di loro ci rimanga così poco di scritto. Delle loro opere d’arte, si sa, ci rimane poco perché realizzate con materiali fragili, quali terracotta e legno, e parecchio di quello che è rimasto è stato inesorabilmente corrotto dall’intervento romano. Tante sono le ipotesi sull’origine degli Etruschi. Parlarne è molto rischioso, finiremmo sicuramente col perderci fra una girandola di congetture che non portano a nulla, anzi confondono ancora di più le idee. Limitiamoci a dire che secondo Erodoto (484-426 a.C.) i Lidi, abitanti della Lidia, una regione dell’antica Anatolia che si affacciava sull’Egeo, furono costretti, a causa di una fortissima recessione economica, a separarsi, costringendo una parte del proprio corpo sociale ad emigrare in cerca di nuove terre. L’avvenimento si verificò, non si sa bene quando, intorno al XIII-XI secolo a.C. I profughi, salpati da Smirne, dopo aver toccato varie regioni mediterranee, sbarcarono in Italia e assunsero il nome di Tirreni, traendolo dal loro condottiero Tirreno, figlio del re Atys; i Tirreni in seguito furono chiamati dai Romani, Etruschi. Per l’altro storico, Dionigi di Alicarnasso (60-7 a.C. c.), gli Etruschi sarebbero un popolo indigeno, che non ha proprio nulla a che dividere con i popoli dell’oriente egeo.
Le discussioni su quale delle due versioni sia quella giusta continuano ancor oggi, aggravate oltretutto da altre ipotesi che certo non aiutano a districare il mistero. Per quanto ci riguarda, qui, noi, non ci metteremo a ripercorrere le annose disquisizioni per vedere pregi e difetti dell’una e dell’altra ipotesi. Concentriamoci invece a considerare le conseguenze e le incongruità dell’ipotesi che vorrebbe gli Etruschi originari dell’Anatolia egea. Questo Perché con la scoperta della stele di Lemno, la teoria di Erodoto è tornata alla ribalta.
La prima cosa di cui ci si accorge battendo la pista erodotiana è che la sua storia presenta un autentico “buco nero”. Mancano in Italia i reperti che possono testimoniare la presenza di una popolazione ritenuta così evoluta come quella dei Tirreni; mancano finora nella storia dell’arte una continuità di opere fra l’epoca megalitica e la proto-storia che possa avvallare con prove visive il passaggio fra una civiltà e l’altra, cosa questa che non si verifica in altre realtà. Di qui la domanda: se i Tirreni sono veramente esistiti ed erano, come asserisce lo storico greco, lo stesso popolo che poi sarà conosciuto con il nome di Etruschi, come mai non resta di loro alcuna opera che ne qualifichi l’alto livello culturale?
Degli Etruschi si inizia a parlare a partire dal IX secolo a.C. cioè quando sono ancora confusi con i Villanoviani, si passa poi a rilevarne i caratteri distintivi nell’VIII e VII secolo a.C., ovvero nel periodo cosiddetto orientalizzante, quindi si passa a profilarne l’aspetto in maniera più diffusa a partire dal VI secolo fino al II, cioè relativamente al tempo della fase di ellenizzazione. Ora se, come dice Erodoto, gli Etruschi sono i Tirreni d’Italia e questi erano un popolo già evoluto nel periodo in cui si trovavano ancora in Lidia, come mai dell’intervallo in cui hanno iniziato a calcare il suolo italico, ovvero a partire dal XIV secolo a.C. e fino al IX secolo a.C. non ci sono tracce sensibili? Le uniche tracce della tarda Età del Bronzo in Italia che possano ritenersi utili per stabilire una continuità storica fra l’Eneolitico e la proto-storia si trovano in Sardegna. Dunque si deve concludere che i Tirreni prima di insediarsi sulle coste tosco-laziali abbiano trascorso almeno un paio di secoli nell’isola. Ma anche ammettendo che sia stato così dove sono i riscontri a livello visivo? Le mura Tirreniche, ovvero le mura pelasgiche italiane sono tutte di datazione incerta, e comunque sia nessuna di esse risale alla fase proto-villanoviana. Dunque, dove sono le testimonianze della civiltà pre-etrusca dei Tirreni?
ARCHITETTURA AMBIENTALE E RUPESTRE
La risposta a questa domanda qualcuno dice d’averla trovata. Documentazioni dirette non ce ne sono, ma la cultura dei Tirreni è rimasta in quella degli Etruschi che ne sono i diretti discendenti.
Il rapporto fra Etruschi e popoli che hanno abitato l’Italia nell’età dei metalli si fa esplicito quando si passa a considerare alcune opere particolari, opere che hanno più di un elemento in comune con quelle megalitiche. Nella storia dell’arte etrusca c’è una grande zona d’ombra, costituita da tutta una serie di tipologie ambientali, autentiche espressioni “Land Art”, di cui il grande pubblico ignora l’esistenza. La ragione è la stessa che nel caso dei monumenti megalitici: scelte di politica culturale, mancanza di certezze: su di esse la cultura ufficiale non si è ancora pronunciata.
Si tratta di montagne, sorgenti, acque, pozzi, boschi sacri, vie scavate nella roccia, cunicoli, tumuli labirintici, sepolcri ipogei, scale sante, tombe e altari rupestri, grotte. La civiltà etrusca è insieme a quella celtica l’ultima erede della cultura neolitica dell’antica Europa.
Sul perchè l’architettura ambientale e rupestre non compaia nei libri di storia dell’arte ci sono due tipologie di risposte: una di tipo funzionalista, l’altra legata alla religione. La tipologia funzionalista asserisce che non v’è alcun significato in queste opere se non quello di essere funzionali a qualcosa di pratico; l’altra ci dice che quella etrusca è una religione impostata su un evento rivelatorio di natura divina e che quindi per gli Etruschi penetrare fisicamente nel sottosuolo significava avvicinarsi alle fonti della conoscenza e del potere sacro. Se così non fosse non si spiegherebbe come mai i Rasenna più che a costruire roccaforti rivolsero ogni loro sforzo a creare incredibili strutture cultuali, simili ad infrastrutture, ma senza fini pratici.
Pitigliano, fosso La Nova
SCALA SANTA
La Nova è un torrentello piuttosto insignificante come corso d’acqua, ma molto importante dal punto di vista politico, storico e storico artistico. Il suo letto segna il confine fra Lazio e Toscana; le sue sponde hanno visto l’avvicendarsi di diverse popolazioni appartenenti ad epoche diverse: metà III millennio, periodo villanoviano, etrusco e medievale. Le rupi che si affacciano sul suo bacino hanno conservato i resti del secolare scorrimento delle acque noviane nel mezzo di uno stupendo paesaggio che ha evidentemente affascinato più generazioni di uomini. Sopra lo sperone di roccia che si affaccia sul pianoro vallivo dove La Nova nasce, più di 2.800 anni fa sorse un villaggio villanoviano di 1.500 anime: una vera metropoli per l’epoca. Qui, in prossimità di una fenditura pietrosa, emerge quella che senza alcuna ombra di dubbio sembra essere una vera e propria scala di pietra. La singolarità di questa struttura è che porta a delle buche, la cui funzione resta oscura. Le ipotesi non mancano: sorreggevano qualcosa; accoglievano offerte votive. Una sola cosa è certa: la scala non porta da nessuna parte, si interrompe così, tutta ad un tratto; non ci sono tracce di altari o altri spazi; sembra proprio essere una scala fine a sé stessa. Non si è molto lontani dal vero se si pensa che la sua funzione fosse esclusivamente sacrale. Per tale motivo gli archeologi l’hanno chiamata scala santa. La scala santa del Fosso della Nova non è figlia unica. Ci sono strutture simili in India, a Jaipur, in Perù, a Machu Picchu, e in altre località.
In India, Perù e altrove le scale conducevano ad un punto d’osservazione speciale. Forse anche qui.
Se ci si volge ad est si vede il Monte Becco, un montarozzetto, alto solo 556 mt., che diventa un punto di riferimento importante in mezzo ad un paesaggio praticamente piatto. A lui gli antichi hanno riservato la massima importanza; lui costituisce la cima preferita dagli dèi. Sopra la cima gli Etruschi costruirono il tempio dedicato alla dèa Voltumna, la maggiore divinità femminile del pantheon tirrenico. La scala santa era fatta proprio per arrivare ad un punto d’osservazione privilegiato del sacrario. Lo scopo era mettere in risonanza due emergenze sacre, per beneficiare del flusso divino che veniva intensificandosi proprio dove i due poli si fronteggiavano. Insomma era un percorso che conduceva l’uomo a trovare l’esposizione più favorevole all’assorbimento delle radiazioni soprannaturali. Perché stabilirlo proprio qui, nella Maremma rupestre? Forse perché gli antichi frequentatori di questi territori sentivano che il suolo tufaceo è il posto privilegiato dove le forze telluriche si uniscono a quelle del cielo per dare origine a correnti di energia che infondono un nuovo vigore vitale alle creature del cielo e della terra.
Sovana, Grosseto
IL CAVONE
Pitigliano, Grosseto
VIA CAVA DI SAN GIUSEPPE
Le vie cave non hanno niente da invidiare a nessun altro manufatto antropico in quanto a spettacolarità; sono qualcosa di unico. Si trovano solo nell’antica Etruria; nessun’altra civiltà oltre a quella che l’ha create ha fatto una cosa simile. Eppure sono opere praticamente ignorate.
Le vie cave sono giganteschi corridoi scavati nel tufo, profondi fino a 20 mt., larghi fino a 3, lunghi diverse centinaia di metri. Sono concentrate soprattutto nella cosiddetta “Etruria rupestre”. Intorno a Pitigliano, un paesetto medievale notevole, ce ne sono una quindicina; in tutto il triangolo delle città del tufo se ne contano almeno una cinquantina, per un totale di decine e decine di chilometri.
Le vie cave, dette anche tagliate, sono opera degli Etruschi. Sono state ricavate scalpellando il tufo centimetro per centimetro per aprire strade in mezzo ad un territorio cosparso di banchi di tufo affioranti. Ma perché ammazzarsi a scavare passaggi nella roccia dal momento che si poteva benissimo optare per soluzioni meno faticose?
Chi si è dedicato al loro studio ci dice che le spiegazioni semplicistiche che cercano di liquidare gli interrogativi intorno a questi manufatti non sono soddisfacenti. La chiave per sciogliere tale pressante interrogativo potrebbe trovarsi nascosta in una semplice osservazione: tutte le vie cave passano per le necropoli. Questo, evidentemente perché sono legate al culto dei morti; si, ma non solo. Servono ad avvicinare gli uomini alle divinità della terra e agli spiriti degli antenati che abitano le profondità telluriche. Per gli Etruschi la terra è un corpo vivo, percorso dall’afflato divino. Le vie cave non sono altro che solchi giganteschi tracciati per permettere alle forze sacre collocate nel sottosuolo di emergere per il bene di tutti, vivi e morti. Dunque le vie cave sono interventi destinati al convogliamento, al controllo dell’energia sacra; qui si concentra l’energia di origine divina.
Il controllo dell’energia divina tramite la costruzione di vie cave è una delle rivelazioni di Tages, un bambino dalla faccia di vecchio: “dai solchi della terra emerge una sapienza vitale, eterna e primigenia, che svela agli uomini i segreti del mondo ultraterreno”.
Percorrere una via cava vuol dire entrare in un tunnel pieno di energie sacre; divinità ctonie e spiriti di defunti sembrano frequentare queste vie; passando di qui ti può capitare di incontrare qualche anima vacante.
Pitigliano, Grosseto
CUNICOLI
Molte opere etrusche sono state realizzate in obbedienza all’idea che la terra e il territorio sono spazi sacri e vivi dove la forza divina che governa il mondo si manifesta presso templi e monumenti sacri.
I cunicoli non sono solo nel ventre dei tumuli; le pareti tufacee di Pitigliano, Sorano e Sovana ne sono crivellate. Senza dubbio qualcuno di essi sarà stato scavato per incanalare le acque, qualcun altro sarà servito ai tombaroli; ma la stragrande maggioranza aveva funzioni legate alla religione. Una delle ipotesi più verosimili è che cunicoli e percorsi labirintici potrebbero esser stati delle rappresentazioni del mondo interiore terrestre, il mondo degli inferi.
Pitigliano, Grosseto, Pian de Conati
SOLCHI DI CARRO (CAR RUTS)
L’antica percorrenza che congiungeva Pitigliano a Sovana passa per il Pian de Conati. Qui, in questo pianoro tufaceo, c’è la prova del legame storico e spirituale fra gli Etruschi e i popoli che li hanno preceduti. Questa prova è costituita da semplici solchi, tutti più o meno della stessa grandezza, incavi scavati dall’uomo, direttamente nel tufo. Gli archeologi li hanno chiamati “car ruts”, solchi di carro.
Il loro numero e le loro dimensioni variano di luogo in luogo: da pochi metri di lunghezza a oltre 300 mt., per una profondità che va da 10 cm. a quasi un metro. Malta è il posto dove se ne contano di più: almeno 200 per una lunghezza di circa 10 km. A Pian de Conati ce ne sono tanti e disposti in modo tale da formare uno strano disegno che ricorda un labirinto.
Non si sa cosa sono e a cosa servissero. Varie sono le ipotesi avanzate; tutte insoddisfacenti. Una li vorrebbe solchi lasciati dal secolare, ripetuto passaggio di carri, ma in questo caso ce ne dovevano essere un paio come quelli che si riscontrano nelle strade antiche romane. Un’altra suppone che servissero per il passaggio delle slitte adibite al trasporto delle pietre, ma allora come si spiega che alcuni piombano negli avvallamenti del terreno, altri si interrompono bruscamente a causa di alcune incavature che si mettono di traverso, altri ancora corrono isolati? Una terza ritiene che fossero solchi per incanalare l’acqua piovana al fine di controllarne lo scorrimento. Questa sembra essere la spiegazione più verosimile, confortata dal fatto che molti vanno a finire nei fossi. Tuttavia resta oscuro lo scopo dell’incanalamento dell’acqua, dal momento che dalle rocce l’acqua nei fossi ci va a finire lo stesso, senza alcun bisogno dei solchi di carro. Inoltre a rendere fragile l’ipotesi c’è da rilevare che alcuni piombano in bocca ad un dromos d’accesso a un ipogeo funerario, con la prevedibile conseguenza del completo allagamento delle tombe. Stanti le criticità, per alcuni archeologi rimane questa la chiave per capire il segreto dei car ruts. L’esigenza del controllo era legata alla convinzione religiosa che riteneva le acque capaci di captare le forze divine al fine di irrorare magicamente un luogo, un territorio, onde garantire i benefici del sacro a tutti, a chi ha ancora a che fare con questo mondo e a chi la vita l’ha ormai perduta.
Pitigliano, Grosseto
COLOMBARIO
I colombari sono dei cameroni scavati direttamente nel tufo le cui pareti si presentano completamente sforacchiate da un fitto reticolo di incavature solitamente disposte come le cellette dei favi. La spiegazione semplicistica è che si tratti di ricoveri per l’allevamento dei colombi, come dice la parola stessa con i quali vengono indicati, oppure delle tombe destinate a raccogliere le urne cinerarie delle persone meno abbienti, che non si potevano permettere l’inumazione in sepolcri più importanti. Ma anche in questo caso, sebbene non si escludano queste possibili funzioni, chi ne conosce i segreti propende per una destinazione di tipo sacrale sempre profondamente legata al controllo del fluxus sacer.
Chiusi, Poggio Gaiella
TUMULO LABIRINTICO
Gli Etruschi non hanno scavato solo canyon, gallerie, grotte artificiali ma hanno creato anche colline. I tumuli labirintici sono rialzi artificiali del terreno nel cui ventre si snodano una serie di cunicoli che non portano da nessuna parte. Nessuno c’è mai entrato per esplorarli; farlo è molto pericoloso: una volta dentro ci si potrebbe perdere. Il più spettacolare di tutti doveva essere la tomba di Porsenna, un monumento straordinario di cui ci parla Plinio (23-79 d.C.), tutt’oggi oggetto di ricerca. Seguono in ordine di grandezza decrescente, la Cuccumella di Vulci, le due tombe della regina, una a Tuscania, l’altra a Poggio Buco, la Ruota di Ciciliano a Pian Cicciano e il tumulo di Morranaccio nelle rovine di Morranaccio (l’antica Murianum).
I tre monumenti maggiori, cioè i primi tre, hanno una struttura simile: una camera sacra al centro dalla quale si erge un elemento verticale (pilastro, colonna, pozzo, torre) cui fa da corona una serie di cunicoli a meandro.
L’interno del tumulo rimanda al mondo nella sua espressione totale di cielo-terra-vita-morte. I cunicoli alludono alla vita terrena, ma rappresentano contemporaneamente il grembo della madre terra, gli inferi; la volta a cupola rappresenta il cielo; l’elemento verticale rappresenta l’asse del mondo, il collegamento fra cielo e terra, in cui scorrono e si incontrano le energie celesti e quelle terrene. Trovarsi all’interno di un tumulo equivale a trovarsi al centro del mondo nel ventre della madre terra, avvolti dai cieli e dai loro sacri poteri.
Il significato dell’insieme di questi elementi potrebbe essere che per raggiungere l’immortalità occorre evitare di perdersi nel labirinto della vita, e per non perdersi nel labirinto della vita serve l’aiuto delle forze terrene e celesti, unite. Il labirinto dunque rappresenta il percorso dell’anima verso l’immortalità: percorrere il labirinto e uscirne significa in sostanza raggiungere la vita eterna.
Lo sapevano bene gli antichi Cretesi: arcinoto è il labirinto del Minotauro. Meno nota è l’esistenza di un labirinto dipinto da Dedalo, molto probabilmente sul pavimento della reggia di Minosse. Qui sopra vi si svolgevano delle danze rituali il cui scopo era simulare il percorso verso l’immortalità.
Naturalmente perché il tentativo avesse successo occorreva unire le energie del cielo e della terra.
Vie cave, labirinti, scale sante, cunicoli, tumuli ipogeici, grotte. Da quello che è stato detto risulta certa una cosa e cioè che tutte queste strutture avevano un denominatore comune: erano spazi sacri con una precisa finalità magica. I “passaggi” etruschi scavati nel sottosuolo non rappresentano solo l’oscura meta finale degli umani, ma anche la possibilità di un contatto con le forze invisibili della creazione che gli antichi popoli collocavano nel ventre della madre-terra e nelle profondità della volta stellata. Tagliate, tumuli labirintici, sepolcri ipogei furono realizzati quale concreto mezzo di avvicinamento al regno della Grande Dèa; il sottosuolo vulcanico e tellurico, quindi erano legati al culto della terra e degli antenati. Vie cave, gallerie, scale sante, cunicoli senza fine erano percorsi fini a stessi, non portavano da nessuna parte, servivano solo agli uomini che ci credevano per caricarsi di energie fatate. L’energia cosmica incontrando quella sotterranea infonde a tutti gli esseri una forza divina che li protegge dalle forze oscure del male. Questa energia vitale sale dalla terra e scende dal cielo a infondere nuova vita a chi è e a chi non è più; queste correnti di energia riempiono ogni più recondito anfratto; riempiono lo spazio che ci circonda.