DESCRIZIONE DELLA CHIESA
L’AUTORE DELLA CHIESA


DESCRIZIONE DELLA CHIESA

Lo spazio interno della chiesa è suddiviso in tre navate, di cui quella centrale alta circa il doppio e poco più larga di quelle laterali. La navata centrale termina con un arcone trionfale che si eleva dal presbiterio, rialzato per dar modo alla cripta sottostante di emergere dal livello del pavimento, fin quasi a toccare le capriate. A diretto contatto con la zona presbiteriale, ad imitazione dei prototipi esarcali, si apre l’abside maggiore e due absidiole ricavate nello spessore del muro. Tra il presbiterio e l’abside è posto l’altare, protetto da un elemento architettonico-plastico, il ciborio.
L’alzato è caratterizzato da una doppia fila di sei colonne tozze, di cui solo le prime e le penultime due toccano il piano del pavimento, le altre poggiano su una base a cordolo forgiata a mo’ di banchina: elemento molto originale, che non comparirà più in nessuna altra costruzione. Il fatto che le colonne non poggino a terra le fa sembrare come tagliate, amputate, e ciò le rende somiglianti più a dei pilastri di straordinaria robustezza che non a delle autentiche colonne classiche. Il ritmo del colonnato è spezzato dall’inserimento di un inaspettato pilastro all’altezza della penultima coppia di sostegni, dopodiché si interrompe immergendosi per metà nella muratura d’appoggio dell’arco trionfale. Alzando lo sguardo si nota che i capitelli della stessa fila sono diversi l’uno dall’altro, ma uguali a quelli della fila parallela. La quarta coppia di colonne in particolare ha un capitello corinzio esteso quanto metà dell’intero fusto: segno evidente che questi elementi portanti sono pensati come una sorta di sculture di sostegno a cui l’artefice ha voluto dare un’impronta personale. Ciò va messo in relazione col fatto che nel Preromanico gli edifici religiosi non sono il progetto di un solo uomo, l’architetto, ma è il risultato di un apporto autonomo di singoli artefici ad un’impresa collettiva. Così gli scalpellini, attraverso il modo personale di svolgere il tema prestabilito, è come se apponessero la propria firma sulla loro opera.
Alzando ancora di più lo sguardo ci si imbatte negli elementi più importanti di tutta la costruzione: le arcate. Rispetto alle arcatelle delle basiliche paleocristiane, che rappresentano la morfologia strutturale dominante dell’epoca preromanica, quelle di San Pietro di Tuscania sono molto più ampie ed hanno una forma particolare, denominata, a causa della presenza di conci sporgenti dal giro interno degli archi, a morsa o a dentatura (anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un elemento strutturale che non si ritroverà più in altre costruzioni italiane del genere). L’aspetto più saliente di queste arcate è che la loro forma non ricalca alcun schema preordinato, ma è semplicemente determinata da quelle che sono le esigenze statiche della costruzione. E un fatto simile se non costituisce un principio sconosciuto ai costruttori romani, è un avvenimento assolutamente inedito per la cultura dell’epoca, cultura che in genere procede secondo schemi ben precisi, e qui completamente dimenticati. L’ampiezza delle arcate non ha nessun motivo di ordine ideologico, nasce da un’esigenza prettamente statica: contrastare, scaricare il peso della parete soprastante.
Ma ad un fine schiettamente pratico se ne può sempre associare uno ideale. Nell’arte paleocristiana la supremazia dello spazio sulla materia si manifestava attraverso il mosaico, per mezzo del quale si otteneva l’illusoria scomparsa della struttura materiale dell’edificio. Con l’arte preromanica, invece, questo obiettivo lo si ottiene in maniera fisica, facendo sparire realmente la materia in eccesso.
Per ottenere grandi spazi ci vogliono grandi arcate; per sorreggere grandi arcate più che colonne ci vogliono massicci pilastri: e le colonne di San Pietro in Tuscania rispondono in modo eccellente a questa esigenza.
Inedito risulta essere anche il rapporto fra larghezza e altezza della navata centrale. Infatti, contrariamente a quanto avviene nelle basiliche paleocristiane, dilatate e pigiate verso il basso, lo spazio interno di San Pietro in Tuscania dà l’impressione di essere compresso ai lati, con conseguente senso di leggero verticalismo. Questa sensazione di spinta verso l’alto s’accentuerà sempre più, fino ad arrivare nelle cattedrali gotiche francesi e inglesi ad altezze vertiginose di oltre 40 metri.

L’AUTORE DELLA CHIESA

Non si sa bene chi sia l’architetto dell’interno basilicale. Probabilmente è opera di un certo Rodpertus, uno di quei magistri comacini esperti costruttori, molto più affini agli attuali ingegneri che non agli architetti, che vanno in giro per l’Italia a costruire edifici di ogni genere.
I magistri comacini si muovono sulla base del fare tecnico della tradizione, tramandata verbalmente di generazione in generazione e appresa sul posto di lavoro. Questa cultura è costituita soprattutto da nozioni di tipo empirico, non conoscenze di tipo storico-artistiche. I magistri comacini sono “mastri edificatori” la cui formazione professionale prende le mosse dall’affronto diretto dei problemi propri del mestiere di edificare. Con loro si viene creando una cultura tecnica, empirica, personale, orientata soprattutto alla realizzazione di strutture funzionali.
La cosa forse più importante nel modo di agire di questi pionieri del funzionalismo moderno è che le soluzioni trovate di volta in volta non vengono nascoste, celate dietro l’apparato decorativo, ma vengono compiutamente espresse in nitidi elementi strutturali: se la forma dipende dalla funzione, allora che senso ha nasconderla con elementi che con la statica non hanno nulla a che vedere?
Dunque la tecnica è parte integrante dell’estetica: e questa è una concezione dell’architettura davvero moderna (si pensi all’High Tech). La tecnica deve condizionare la forma più di quanto la forma condizioni la tecnica; non ci deve essere una forma precostituita a condizionare lo spontaneo svolgimento spaziale degli elementi costruttivi nell’esercizio delle loro funzioni statiche. Ma non sarebbe corretto affermare che i magistri comacini non hanno modelli. Le arcate a morsa ricordano, per l’idea di ariosità e robustezza che effondono, quelle degli acquedotti romani. La somiglianza poi con le arcate delle moschee spagnole rimanda a possibili contatti della cultura preromanica con la cultura moresca: cosa più che verosimile dal momento che gli arabi iniziano la loro espansione verso Occidente proprio a partire dall’VIII secolo.
I magistri comacini, però, non si limitano solo a mettere in atto conoscenze empiriche, ma sentono anche l’esigenza di inserire le loro scelte all’interno di una prospettiva storica che le qualifichi anche in rapporto al passato. Molti artisti hanno sentito il bisogno di riconoscersi in una tradizione; per i magistri comacini questa tradizione è quella romana.